
Nonostante l’adozione di un linguaggio decoloniale e l’enfasi retorica sulla decolonizzazione siano ormai diffuse, gli accademici “progressisti” o “liberali” spesso non sono veramente capaci di allinearsi, nella pratica, con le trasformazioni radicali che dicono di sostenere. Mentre sono state individuate e denunciate le azioni degli accademici “conservatori” o “mainstream” – con i loro chiari sforzi di silenziare le voci palestinesi e conservare lo status quo culturale e politico –, deve essere ancora realizzata una valutazione critica del ruolo che il mondo accademico liberale ha svolto nel corso dell’ultimo anno.
Soprattutto in Europa, gli spazi accademici liberali non sono stati in grado di amplificare in modo genuino le voci decoloniali, o di integrare le loro prospettive nel discorso accademico in modo prioritario. Eventi e dibattiti, organizzati durante lo scorso anno, hanno spesso rivelato visioni formulate all’interno dei centri del potere del cosiddetto “mondo occidentale”, insistendo su approcci teorici che rischiano di rinforzare le narrative coloniali, marginalizzando le critiche e le aspirazioni avanzate dai palestinesi. L’assenza di un sostegno coerente e strutturato agli studenti palestinesi e agli intellettuali impegnati politicamente ha ostacolato lo sviluppo di iniziative coese e d’impatto. Queste inconsistenze rivelano che, se non si abbraccia completamente una pratica decoloniale, l’impegno auto-referenziale verso un cambiamento trasformativo resta superficiale, nel migliore dei casi, rischiando addirittura di divenire una manovra performativa che finisce per sostenere lo stato dei fatti. Un’incoerenza pericolosa, questa, perché rischia di sminuire il potenziale radicale della decolonizzazione, riducendola a una parola d’ordine neoliberale che suona progressista, ma che alla fine lascia intatto lo status quo.
I limiti di un’accademia liberale: la disobbedienza epistemica come prassi decoloniale
Quello della “decolonizzazione” non è infatti un semplice framework concettuale: è un processo che richiede un cambiamento fondamentale nel modo in cui il sapere viene prodotto, condiviso e validato. Ponendo enfasi sulla centralità delle categorie epistemiche e sulle esperienze del Sud globale, la decolonizzazione lancia una sfida alle dinamiche di potere esistenti; non mette in discussione solo i contenuti del sapere, ma anche le strutture di potere che determinano chi può produrlo e quali esperienze sono centralizzate in questo processo.
La decolonizzazione, dunque, implica una critica severa su come il potere opera attraverso pratiche discorsive che definiscono e regolano il sapere. Come Foucault ci ha insegnato, il sapere non è mai neutrale; è sempre intrecciato a relazioni di potere che determinano cosa è considerato legittimo, chi è autorizzato ad articolarlo, e come viene mantenuta l’egemonia.
Da un punto di vista storico, il progetto coloniale non è mai stato solo un processo di conquista materiale e politica, ma anche epistemica, che ha imposto e legittimato il sapere occidentale come universale, soggiogando e marginalizzando le epistemologie non-occidentali. Questa violenza epistemica persiste attraverso le discipline accademiche che istituzionalizzano i canoni e criteri del sapere occidentale come oggettivi e scientifici, relegando i saperi indigeni ai margini.
Foucault ha inoltre spiegato che il potere non è esercitato solo attraverso la coercizione, ma anche con la normalizzazione di particolari regimi di verità. Nell’ambito della produzione del sapere, questo significa che le epistemologie dominanti non sono semplicemente imposte, ma vengono interiorizzate come riferimento naturale e indiscusso. Il linguaggio e le definizioni considerate come referenze universali riflettono la relazione intrinseca tra potere e produzione del sapere. La stessa nomenclatura utilizzata per descrivere le regioni del mondo – come “Sud globale”, “Medio Oriente” o “Terzo Mondo” – non è meramente descrittiva, ma un prodotto di processi storici e politici radicati nel colonialismo e nell’imperialismo.
Si tratta di definizioni che rafforzano le gerarchie epistemiche e privilegiano prospettive geopolitiche euro-statunitensi, sostenendo un ordine mondiale nel quale il sapere è prodotto prevalentemente nei centri accademici occidentali, mentre le cosiddette “periferie” restano siti di estrazione, più che di produzione.
Allo stesso modo, questa dinamica modella la teoria entro cui la questione palestinese viene inquadrata e discussa in ambito accademico. La persistenza di termini come “conflitto”, ad esempio, usati per descrivere il contesto Palestina/Israele, non tiene in considerazione le strutture di potere coloniali che definiscono la lotta palestinese, e contribuisce a sostenere la nozione occidentale di “neutralità”. Nel corso dell’anno passato, questa chiara asimmetria epistemica è stata ulteriormente evidenziata dal paradossale dibattito sull’opportunità o meno di definire il massacro a Gaza come “genocidio”: una necessità di stabilire una definizione, o una categoria, ancora una volta dettata da standard eurocentrici, anche all’interno degli spazi accademici.
La decolonizzazione, dunque, richiede un atto di disobbedienza epistemica – un rifiuto consapevole delle strutture del sapere, e la rivendicazione di epistemologie alternative che sono state sistematicamente cancellate o delegittimate.
Questo processo richiede trasformazioni strutturali all’interno delle istituzioni che governano la produzione del sapere, in primis le accademie. La decolonizzazione non riguarda solo la diversificazione dei canoni o l’assunzione di prospettive non-occidentali all’interno delle cornici teoriche esistenti; necessita piuttosto di una trasformazione radicale f dei meccanismi che determinano cosa possa essere considerato sapere. Questo include anche un ripensamento delle metodologie di ricerca attuali, che spesso collocano le comunità del Sud globale come oggetto di studio piuttosto che come produttrici di sapere; un processo che ha visto i palestinesi tra i casi “più studiati” nei decenni scorsi, rinforzando la dinamica del “parlare per” le soggettività subalterne. Il 2024, in questo senso, ha testimoniato un incredibile incremento di questo genere di produzione.
La decolonizzazione senza i colonizzati? La contraddizione strutturale dell’accademia
Non comprendendo appieno questa dinamica, gli studiosi liberali non solo rischiano di perpetuare una forma superficiale di decolonizzazione – quella che si impegna ad adottare il linguaggio della teoria decoloniale, ma non mette davvero in discussione le strutture coloniali che sono alla base della lotta palestinese - ma consentono anche al progetto coloniale di prosperare sotto questa copertura. Questa facciata “cosmetica” di progressivismo maschera e facilita il depotenziamento di un vero pensiero rivoluzionario, permettendo ai modi di pensare coloniali di infiltrarsi e minare le lotte politiche autentiche, pur apparendo riformatori in superficie.
Questo scollamento teorico è ben dimostrato dall’incapacità di dare spazio alle voci dei teorici intellettuali impegnati o, per usare un concetto gramsciano fondamentale, cosiddetti “organici”. Sebbene l’accademia progressista abbia spesso sottolineato l’importanza di creare spazi per analisi indigene e voci di intellettuali subalterni, i posizionamenti più radicali emersi dai movimenti palestinesi sono stati marginalizzati in molti eventi accademici e conferenze organizzate nel corso del 2024.
Sono state spesso privilegiate infatti le cornici teorico-cognitive e le priorità degli studiosi “tradizionali” - prendendo ancora una volta ispirazione da Gramsci - , in linea con la tradizione accademica liberale occidentale che ignora i quadri discorsivi emersi dall’analisi decoloniale e dalle prospettive di liberazione del Sud globale.
Ad esempio, nonostante la critica sui limiti e le contraddizioni del sistema normativo internazionale sia emersa come sempre più centrale tra gli studiosi palestinesi, solo in rare occasioni si è dato spazio a questa analisi, mentre molte discussioni accademiche hanno continuato a concentrarsi su come il diritto e le istituzioni internazionali forniscano il quadro di riferimento principale per sostenere la causa palestinese. Una centralizzazione, questa, che riflette una tradizione intellettuale che dà priorità al ruolo del diritto internazionale come meccanismo di risoluzione dei conflitti, ignorando le critiche emerse dall’interno del movimento palestinese – e più in generale da studiosi del Sud globale – che considerano questa cornice teorica legale come parte del progetto coloniale.
Le analisi prodotte all’interno di questi spazi, dunque, non riflettono la realtà palestinese e le sue tradizioni intellettuali, ma interessi disciplinari canonici e framework epistemici e pedagogici orientati dall’Occidente. Di conseguenza, il potenziale decoloniale di questi dibattiti è estremamente limitato. Questo fallimento nel centralizzare le voci “organiche” va oltre il campo intellettuale, investendo anche gli approcci organizzativi nelle fila dell’accademia. I movimenti studenteschi palestinesi, così come una nuova generazione di intellettuali palestinesi, sono stati poco coinvolti, nonostante lo sforza profuso di sviluppare linguaggi, narrative e pratiche di decolonizzazione proprie.
Molto spesso l’approccio dell’accademia liberale si è rivelato condiscendente, riproducendo le stesse dinamiche di potere coloniali, classiste, sessiste e generazionali che vengono criticate nei sistemi accademici “conservatori”; dinamiche che consentono e rafforzano relazioni di potere asimmetriche, nelle quali il sapere è prevalentemente prodotto in linea con visioni e approcci della classe dominante o degli intellettuali “tradizionali” (compresi gli studiosi palestinesi che ancora adottano e consolidano queste cornici teoriche).
Invece di dare spazio a nuove voci che rimodellino la narrazione, l’accademia impone così il suo quadro interpretativo, i suoi assunti, le sue tradizioni intellettuali, sconfessando il pensiero emergente come “anti-intellettualismo fine a sé stesso”. Ma se non riuscirà ad ascoltarle e coinvolgerle, l’accademia liberale rischia di sottovalutare il potenziale trasformativo dell’epistemologia decoloniale offerto da queste voci e dal momento storico che stiamo vivendo. Come ci ricorda Frantz Fanon, la decolonizzazione può infatti essere compresa e praticata solo attraverso una reale “comprensione dei movimenti che le danno forma storica e contenuto”. Al centro di questa analisi c’è il riconoscimento che, senza un serio processo di autocritica, l’accademia liberale rischia di apportare più danni che benefici alla causa che vuole sostenere.
Separando la prassi dalla teoria che viene predicata nelle aule, c’è infatti il rischio di sminuire il significato radicale della decolonizzazione, indebolendo la causa palestinese e ostacolando quella trasformazione radicale del sistema che è già in corso. O peggio ancora, si finisce per legittimare quelle stesse strutture di potere e dominio che si vorrebbero smantellare.
Pedagogia rivoluzionaria nella pratica: il dovere accademico di impegnarsi
Diventa dunque imperativo che gli studiosi progressisti si impegnino verso la causa palestinese in modo più onesto, sostenibile e rigoroso. Durante una recente conversazione, un membro della rete italiana “Docenti per Gaza” ha suggerito che gli accademici dovrebbero riesaminare il proprio ruolo: “Non si tratta di pubblicare libri su ‘la situazione attuale e le soluzioni decoloniali’ da una prospettiva occidentale. L’obiettivo dovrebbe essere quello di tradurre e diffondere scritti e analisi palestinesi e indigene che chiedono e articolano “soluzioni” decoloniali, e che per decenni sono state ignorate o respinte”. In questo contesto, fare pressione per il sostegno economico a borse di studio per studenti palestinesi non può essere l’unica strategia per opporsi allo scolasticidio, ma serve un più concreto impegno istituzionale verso le università palestinesi.
Fare appello ad una “rottura” nelle pratiche della “pedagogia neoliberale” investendo in azioni simboliche come l’appello ad organizzare una “giornata della kefya”, sostenuto in diversi Paesi europei, non è abbastanza se – ad esempio - le facoltà non sono in grado di sostenere le azioni del corpo studentesco, gli scioperi, le rivendicazioni degli studenti e le loro pratiche quando cercano di portare un discorso rivoluzionario sulla Palestina nei loro campus.
Tutto questo diventa più importante che mai in questo momento, dopo la sigla dell’accordo sul cessate il fuoco1, e la prospettiva di impegnarsi concretamente con le università palestinesi nel processo di ricostruzione del sistema educativo di Gaza.
Gli accademici oggi non devono farsi sfuggire la possibilità di impegnarsi in un processo di decolonizzazione dei saperi reale e trasformativo, offerta da questo momento storico. È fondamentale costruire un processo epistemologico che non solo sfidi le narrazioni mainstream, ma che esamini anche criticamente il ruolo dell’accademia liberale nel perpetuare le attuali strutture di conoscenza e potere. Solo interrogando criticamente le basi ontologiche ed epistemologiche dei sistemi di sapere dominanti, la decolonizzazione può emergere come pratica e non solo come esercizio retorico. Si tratta di un imperativo materiale e intellettuale per articolare una pedagogia rivoluzionaria. Perché, come ci ha ricordato Paulo Freire, “nessuna pedagogia che sia genuinamente liberatoria può rimanere distante dagli oppressi trattandoli come sfortunati, e presentando loro modelli emulativi ispirati ai loro oppressori”.
1Questo articolo è stato scritto prima della rottura della tregua da parte di Israele nel marzo 2025, NdT