Il mercoledì era ormai un giorno fisso nell’agenda dell’attivismo egiziano che si è mobilitato in solidarietà al popolo palestinese. Il posto era sempre lo stesso, la scalinata del sindacato dei giornalisti che almeno da due decenni ormai rappresenta il luogo delle lotte nel paese. Da qualche settimana, a partire dal 3 aprile, il regime di al-Sisi ha messo in campo una dura repressione volta a far tacere le voci critiche non solo contro il governo israeliano, ma anche contro quello egiziano.
Le linee rosse poste dal regime si assottigliano sempre di più e basta ormai poco per finire interrogati per ore e ore nelle tetre centrali della sicurezza nazionale ed essere accusati di diffondere notizie false che ledono la stabilità nazionale e far parte di organizzazioni terroristiche. Nonostante la liberazione delle persone incarcerate, resta la volontà del regime di mantenere alta l’attenzione anche verso il movimento in solidarietà al popolo palestinese, in un paese che conta circa 60.000 prigionieri politici.
Tale repressione si è tradotta in decine di arresti1 nelle ultime settimane, incarcerazioni coatte senza alcun elemento che provasse le succitate accuse mosse a coloro che hanno manifestato pacificamente contro le necropolitiche israeliane a Gaza e contro la chiusura imposta dall’Egitto del valico di Rafah.
“Questa manifestazione non è frutto di alcuna mediazione”
Un cambio repentino della strategia egiziana che, almeno all’inizio dell’offensiva israeliana contro Gaza, aveva tollerato le manifestazioni in solidarietà al popolo palestinese. Una tolleranza che si è dimostrata, sin da subito, di facciata e molto superficiale.
Basti pensare che il 20 ottobre il regime aveva redatto un comunicato2 in cui indicava i luoghi di tutto il paese dove si poteva manifestare. Ça va sans dire al Cairo aveva permesso manifestazioni in luoghi tutt’altro che centrali e aveva vietato aggregazioni nei pressi di Piazza Tahrir. Nonostante ciò, migliaia di persone sono riuscite a spezzare i cordoni di sicurezza che circondavano l’intera piazza e da via Tala‘at Harb hanno occupato, per circa mezz’ora, la piazza iconica della Rivoluzione del 2011.
Gli slogan lanciati nella piazza erano abbastanza indicativi rispetto al tentativo del regime di limitare le proteste. In uno dei cartelloni portati in piazza dai manifestanti e nei cori che accompagnavano lo spezzone verso Tahrir si affermava che “questa manifestazione non è frutto di alcuna mediazione”3 in riferimento alla volontà del regime di consentire sì manifestazioni, ma sotto il suo stesso controllo.
Senza troppe illusioni, nonostante la grande sorpresa di occupare di nuovo la Piazza, i manifestanti in quell’occasione non si sono limitati a mostrare la loro solidarietà alla Palestina, ma hanno accusato il regime tornando a recitare lo slogan degli slogan “pane, libertà e giustizia sociale”4. Un affronto per al-Sisi, che fa della sicurezza e soprattutto della cancellazione della memoria5 della rivoluzione la sua pietra miliare. In aggiunta, mentre i manifestanti invadevano le città principali del paese, a Rafah cittadini, organizzazioni della società civile egiziane e singoli attivisti e attiviste forzavano i cancelli6 del valico per spingere le autorità nazionali ad aprirlo, facendo entrare gli aiuti e uscire i civili feriti. Le proteste si sono poi allargate all’interno dei campus universitari7, dando vita a tutta una serie di mobilitazioni soprattutto nelle università cairote dell’Azhar, di Helwan e di ‘Ain Shams. Una mobilitazione che, seppur isolata e relegata all’interno dei campus (il governo aveva fatto sapere che le proteste erano tollerate soltanto all’interno degli spazi universitari), dimostra quanto la questione palestinese rappresenti la locomotiva della mobilitazione all’interno del paese.
La questione palestinese come banco di prova
Come prevedibile, le proteste si sono presto tradotte in una massiccia campagna di arresti che nella sola manifestazione di Tahrir ha portato alla detenzione di oltre 100 persone, la maggior parte giovani adolescenti tra i 16 e i 17 anni accusati di terrorismo e attentato alla stabilità nazionale.
La Storia torna indietro a quelle voci sparse, neppure troppo timorose della violenza securitaria del regime, che si alzavano nel lontano 2000, quando le manifestazioni degli egiziani in solidarietà del popolo palestinese nel pieno della Seconda Intifada riempivano le strade del paese. In quelle manifestazioni, tra uno slogan e l’altro contro la violenza israeliana, si iniziarono a levare le prime voci di quel movimento che catalizzerà tutta una serie di mobilitazioni contro il regime di Mubarak. In quelle piazze nacque il movimento Kifaya! (Ora Basta!) che si batté contro la ricandidatura di Mubarak e contro la volontà del presidente di lasciare il potere, in pieno stile monarchico (o forse meglio dire in pieno stile siriano), a suo figlio Gamal.
La questione palestinese ha sempre rappresentato un duro banco di prova per i regimi al potere i quali non si sono mai contraddistinti, almeno in epoca recente, per la loro reattività alle numerose aggressioni in Cisgiordania e a Gaza dell’esercito israeliano. L’Egitto in questo senso non fa eccezione e ha dimostrato, contrariamente a quel che il regime di oggi e quello precedente hanno lasciato intendere, una sempre maggior tendenza a normalizzare le reazioni con lo Stato ebraico.
La chiusura continuativa del valico di Rafah, così come l’ampia cooperazione in campo economico e recentemente energetico (si veda il Forum del Gas del Mediterraneo Orientale) sono soltanto alcuni elementi che si aggiungono ai tentativi di queste settimane di mediazione tra Israele e Hamas.
La repressione delle manifestazioni in solidarietà alla Palestina deve essere intesa come l’intreccio tra equilibrio interno al paese ed equilibrio regionale.
Un regime tra crisi economica e repressione
L’Egitto come risaputo è economicamente al collasso, e si registrano, oltre ad una crescente povertà, anche un malcontento generalizzato tra le fasce povere della popolazione e i lavoratori dei vari poli industriali del paese. Scioperi e arresti sono all’ordine del giorno, non ultimo quello del complesso dell’industria tessile di Mahalla al-Kubra che in queste ultime settimane sta registrando un’ampia mobilitazione contro i bassi salari e le condizioni di lavoro.
Congiuntamente tali mobilitazioni si devono inserire all’interno di uno scenario regionale più ampio che, al di là della retorica della normalizzazione con Israele, sta dimostrando quanto debole siano le politiche collaborazioniste dei regimi al potere.
Probabilmente insieme all’Egitto, in questo ultimo periodo le manifestazioni più imponenti si stanno avendo in Giordania, soprattutto nella capitale, Amman, durante le quali i manifestanti non si sono fatti alcuna remora nel criticare apertamente il regime, circondando l’ambasciata israeliana e chiedendo alla monarchia di far cessare il trattato di pace con Israele. Due realtà diverse che tuttavia si sono rimpallate slogan e azioni di mutua solidarietà. Uno degli slogan che si è levato all’indomani degli arresti al Cairo diceva “cari fratelli ad Amman, l’Egitto del Gennaio è ancora sveglio”8.
La maggior preoccupazione oggi per al-Sisi è mostrare ancora una volta il monopolio dell’uso della forza sulla popolazione, dimostrando nei fatti che la legittimità interna è del tutto svanita rispetto ai primi anni del colpo di Stato militare. Oggi la principale fonte di legittimità arriva dagli attori esterni che vedono nella forza brutale della repressione di regime la stabilità di cui la comunità internazionale ha bisogno.
Questo è dimostrato dalle accuse che vengono mosse a chi cade vittima della repressione governativa, che riguardano soprattutto la partecipazione a organizzazioni terroristiche e diffusione di notizie false che ledono la stabilità nazionale. Persone arrestate in piena notte o alla luce del giorno, deportate nelle centrali della polizia per poi scomparire per giorni ed essere ritrovate davanti ad un giudice che le condannerà ai primi 15 giorni di prigione, puntualmente rinnovati prima dello scadere della pena.