Baghdad – A fine marzo, mentre gli animi s’infuocavano e le sedi dei partiti politici venivano date alle fiamme, il Parlamento iracheno non è riuscito per la terza volta a riunire abbastanza parlamentari per scegliere il nuovo presidente, sei mesi dopo le elezioni del 10 ottobre. Il 28 marzo, una folla di rivoltosi legati a milizie sciite ha dato fuoco alla sede del Partito Democratico del Kurdistan (PDK) dopo che un ex candidato parlamentare curdo aveva rilasciato un commento ritenuto irrispettoso nei confronti dei leader religiosi sciiti del paese. A detta di molti, comunque, si è trattato di un mero pretesto.
I boicottaggi erodono la speranza
I membri del Parlamento devono eleggere il capo dello Stato con una maggioranza dei due terzi e deve essere presente un quorum di 220 legislatori su un totale di 329 affinché la votazione possa avere effettivamente luogo.
Ripetuti boicottaggi da parte del “Quadro di coordinamento” sciita (QC), vicino a gruppi armati legati all’Iran, e di altre formazioni, hanno fatto sì che il quorum non sia mai stato raggiunto, impedendo così lo svolgimento della votazione. Il QC continua a sostenere che ci siano state frodi nelle elezioni di ottobre. A fine gennaio, al primo tentativo di sessione per eleggere il presidente, il QC aveva affermato che i suoi parlamentari non avrebbero partecipato al voto a meno che non fosse stato scelto in anticipo un candidato sciita alla carica di primo ministro.
La Corte federale irachena aveva stabilito per il Parlamento il termine del 6 aprile per eleggere il presidente, che avrebbe poi dovuto nominare un primo ministro, incarico ricoperto dal maggio del 2020 da Mustafa al-Kadhimi, ex-giornalista e capo dell’Iraqi National Intelligence Service (INIS). La candidatura di Kadhimi aveva raccolto un certo consenso, dopo mesi di dispute per le dimissioni del primo ministro Adel Abdul-Mahdi a fine 2019 in seguito alle proteste di massa esplose nell’autunno di quello stesso anno.
Queste contestazioni erano dilagate in gran parte delle regioni centrali e meridionali dell’Iraq a predominanza sciita ed erano durate fino all’inizio del 2020. La violenta repressione subita dai manifestanti aveva causato centinaia di vittime.
Se il processo politico rimane in questo stallo, c’è il rischio che si debbano svolgere nuove elezioni. Quelle di ottobre si erano contraddistinte per una bassa affluenza alle urne e un’apatia generale. Un ulteriore turno elettorale - così si teme - potrebbe andare anche peggio. Inoltre potrebbero essere sprecati più tempo e denaro e persa la speranza in un significativo cambiamento di un sistema da molti ritenuto non rappresentativo.
Curdi, arabi sunniti e Sadr nella stessa squadra
Negli ultimi mesi, il PDK ha stretto un’intesa sia con il blocco sadrista, guidato dal popolare leader Muqtada al-Sadr, che con un’alleanza capeggiata dal presidente del Parlamento Mohammad al-Halbusi e da un altro politico arabo sunnita, Khamis al-Khanjar.
Al-Khanjar è il leader della coalizione Al-’Azm (“Determinazione”) ed è un ricchissimo uomo d’affari originario di Falluja, città del governatorato di Al-Anbar. Al-Sadr, un tempo noto come guida della celebre milizia anti-statunitense Jaish al-Mahdi (l’“Esercito del Mahdi”), ora è considerato uno tra i più nazionalisti leader sciiti, anche se alcuni temono derive di un culto fanatico della sua persona da parte dei seguaci.
I leader politici sciiti iracheni sono spesso criticati per essere apparentemente più fedeli all’Iran - contro il quale l’Iraq ha combattuto negli anni ‘80 una guerra durata quasi un decennio - che al loro stesso paese d’origine. Nonostante ciò, il termine “nazionalista” è solitamente impiegato in senso positivo per descrivere al-Sadr come uno che ha a cuore gli interessi del suo paese.
Il PDK è arrivato quarto alle elezioni del 10 ottobre con 31 seggi, dietro al blocco sadrista con 73 seggi, al Taqaddom (“Progresso”) di Halbusi con 37 e alla coalizione “Stato di diritto” dell’ex primo ministro Nouri al-Maliki con 33.
Halbusi a gennaio è stato rieletto presidente del Parlamento, carica che ricopre dal settembre del 2018, in seguito alle elezioni del maggio precedente. È il più giovane politico in Iraq ad aver mai ricoperto questo incarico, di fatto il ruolo più importante a cui possa aspirare un arabo sunnita in questo paese. Halbusi proviene dalla regione di Anbar, a maggioranza sunnita e dominata dalle tribù, dove ha ricoperto la carica di governatore prima di assumere l’attuale posizione. Molti in questa regione sono fuggiti nel Kurdistan iracheno durante gli anni della lotta contro lo Stato Islamico (IS), tra il 2014 e il 2017, quando gran parte della zona era sotto il controllo dell’IS e le accuse contro le milizie sciite per l’uccisione arbitraria di sunniti erano all’ordine del giorno.
La stragrande maggioranza dei curdi è musulmana sunnita. Gli arabi sunniti e i curdi si sono avvicinati negli ultimi anni, nonostante i ricordi dell’attacco di Saddam Hussein contro la minoranza curda nella parte settentrionale del paese. Hussein era un arabo sunnita e ha commesso ben noti massacri sia contro i curdi che contro gli sciiti, che considerava troppo vicini all’Iran durante la guerra tra i due paesi negli anni ‘80.
Dal 2003, dopo l’invasione americana, per convenzione il presidente deve essere curdo, il primo ministro sciita e il presidente del Parlamento sunnita.
Il PDK «sospende le sue attività a Baghdad»
La sede del PDK a Baghdad – ufficialmente nota con il nome di “Settore 5”, l’ufficio principale del partito nella capitale irachena – è stata data alle fiamme il 28 marzo scorso e demolita il giorno seguente dal partito, che ha poi annunciato la sospensione di tutte le attività politiche e sociali nella città.
La violenza si è scatenata in seguito a un tweet di un ex candidato parlamentare curdo che, secondo il media curdo Rudaw, affermava: “Io sono per un marja1 arabo appartenente al lignaggio del Profeta...e non per un marja indiano, persiano o afghano che non appartiene al lignaggio ma indossa un turbante nero”. Il riferimento pare fosse una critica al venerato Grande Ayatollah Ali al-Sistani, che è nato in Iran ma risiede a Najaf, e le cui parole e autorità morale hanno un enorme peso in Iraq. Il tweet è stato interpretato come se intendesse che i leader religiosi in Iraq debbano essere iracheni nati nel paese stesso, invece che religiosi nati o vissuti per diversi anni in Iran, con il rischio di subire da questa nazione indebite influenze.
È stato l’appello lanciato da al-Sistani agli iracheni a prendere le armi che ha portato alla formazione delle Forze di mobilitazione popolare a guida sciita (PMF) nel 2014, dopo che Mosul era caduta in mano allo Stato Islamico.
Il PDK ha affermato che l’uomo dietro questo tweet ritenuto offensivo non fosse affiliato al partito. Il governo regionale del Kurdistan ha anche emesso un mandato di cattura contro di lui. La stessa sede è stata attaccata nell’ottobre 2020 dopo che un membro del PDK aveva criticato le PMF, molte delle quali hanno legami di lunga data con l’Iran ed esistevano come milizie già molti anni prima della fatwa del 2014 con l’appello alle armi di al-Sistani.
L’alleanza tripartita tra il PDK, il blocco sadrista guidato da Muqtada al-Sadr e l’alleanza “Sovranità” – la più larga coalizione politica arabo-sunnita, che include parlamentari dei partiti di Halbusi e Khanjar – è malvista dai gruppi legati all’Iran. Essa è conosciuta anche come la coalizione “Salvare la patria” ed è interessante notare che uno degli slogan più comuni scanditi durante le proteste di massa di fine 2019 e inizio 2020 fosse “Vogliamo una patria”.
La casa sciita divisa
La coalizione di al-Maliki “Stato di diritto” è parte del “Quadro di coordinamento” sciita, insieme ad altri partiti guidati da politici sciiti di alto profilo come Hadi al-Amiri, lo storico comandante dell’Organizzazione Badr. L’Organizzazione Badr comprende brigate che fanno oggi parte delle PMF stipendiate dal governo, ma sono state addestrate e sostenute dall’Iran per molti anni, come tanti altri gruppi armati che operano nel paese con un’ala politica.
Al-Amiri ha avvertito che i tentativi di escludere il QC dal governo “non porteranno alla stabilità”. Qais al-Khazali, suo alleato e capo del gruppo armato legato all’Iran Asa’ib Ahl al-Haq, ha anche lui insistito perché il QC faccia parte del governo. Finora al-Sadr ha rifiutato accordi con il QC, ma all’inizio di aprile si è ritirato dalle trattative per la formazione del governo, annunciando che il QC aveva 40 giorni per formarne uno. Diversi gruppi armati guidati da politici del QC sono stati accusati di essere implicati negli ultimi anni in attacchi, rapimenti e violenze contro i manifestanti. Nelle città meridionali a maggioranza sciita di Nassirya e Bassora, molti manifestanti nel 2019 hanno dichiarato che dietro alle uccisioni dei loro amici e parenti c’erano “i partiti”, ma avevano troppa paura a nominarli apertamente.
Milizie legate all’Iran indebolite ma ancora potenti
Sotto la guida del primo ministro Kadhimi, i gruppi armati che operano al di fuori della legge sono diventati meno potenti e il paese ha visto maggiori investimenti internazionali. Nella capitale e in altre regioni sono stati avviati diversi nuovi progetti di costruzione, sono stati facilitati i visti per i cittadini di molti paesi, e numerosi sforzi sono stati compiuti per avvicinare i due rivali della regione, l’Iran sciita e l’Arabia Saudita sunnita.
Tuttavia, quello che pare essere stato un tentativo di attentato contro Kadhimi meno di un mese dopo le elezioni, e le minacce persistenti da parte di gruppi legati all’Iran – così come l’attacco missilistico del 13 marzo lanciato dall’Iran contro Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno – ricordano che in Iraq ci sono molti attori potenti che dovranno probabilmente essere placati in qualche modo, oppure ulteriormente repressi. Ciascuna mossa comporta molteplici rischi. La scelta della direzione da dare al paese, tuttavia, non potrà essere compiuta finché non vi sarà una leadership chiara. Perché questo sia possibile, ovviamente, sono necessari un primo ministro e un presidente.
1Termine per indicare l’ayatollah