“Prima di tutto, fatemi iniziare con la mia dichiarazione di fede: Fuck the patriarchy!”. Scandisce il suo slogan in un elegante inglese dal marcato accento britannico, che quasi stride con la potenza del messaggio. Lo fa dal palco della Casa Internazionale delle Donne di Roma, particolarmente affollata in un pomeriggio di primavera, dove conclude il suo primo giro di presentazioni in Italia. Mona Eltahawy, giornalista, opinionista, femminista radicale, egiziana di nascita e statunitense d’adozione, ha davanti a sé un giardino gremito di donne arrivate ad ascoltarla per la presentazione del suo libro “Sette peccati necessari. Manifesto contro il patriarcato”, appena pubblicato dalla casa editrice Le Plurali nella traduzione italiana di Beatrice Gnassi. Sulla copertina dai colori fluorescenti spicca un ritratto dell’autrice con il dito medio alzato, efficace sintesi grafica di un pensiero politico ben più elaborato e teoricamente situato.
Un libro necessario, come i peccati di cui è doveroso macchiarsi secondo Eltahawy, tra le femministe più influenti del panorama internazionale, punto di riferimento per chi studi i femminismi in Medio Oriente, balzata alle cronache internazionali per il suo arresto, nel novembre del 2011, durante la rivoluzione egiziana di piazza Tahrir. Lì, come centinaia di altre donne, viene molestata sessualmente dagli agenti del regime, picchiata – ne uscirà con un braccio ed una mano rotte -, detenuta illegalmente per 12 ore. Riesce tuttavia a trovare un cellulare e denunciare su Twitter il suo arresto. “Se non fossi stata una militante conosciuta, oggi molto probabilmente sarei morta”, ricorda. “Ero ammanettata, bendata, dolorante per le percosse ricevute, sola in una stanza circondata da uomini. Eppure, l’unica cosa che ripetevo dentro di me era aspettate che esca di qui e che scriva ciò che mi avete fatto”, ricorda sorridendo mentre racconta quello che oggi può fortunatamente essere solo un aneddoto. Da quel giorno, questo ha fatto Eltahawy: ha scritto, parlato, gridato, usando la voce e la parola per affermare il proprio diritto ad esistere come “donna, queer, musulmana, egiziana, femminista”, alcune tra le molteplici identità che oggi la ridefiniscono “dopo che la vecchia me quel giorno a Tahrir è morta, perché nascesse una nuova Mona che non ha paura di dire e di fare niente”, racconta. Ma soprattutto, “arrabbiata e libera”.
Ed è qui, nell’uso di un linguaggio schietto, diretto, disturbante e radicale che sta il cuore del lavoro politico di Eltahawy, che nel suo libro elenca “le innumerevoli forme di oppressione esercitate dal patriarcato”, e “il modo in cui non è previsto che siamo e dovremmo invece essere”. Infuriate, tanto per cominciare. “Ho scritto questo libro con una rabbia sufficiente ad alimentare un razzo. Dobbiamo smettere di crescere le donne nella convinzione di essere deboli e vulnerabili, ma insegnare loro a coltivare la propria collera. Voglio un biberon di rabbia per ogni neonata che viene al mondo, perché una donna arrabbiata è una donna libera”, spiega nel capitolo che apre il suo libro – “Rabbia”.
Una sezione in cui risuona potente l’eredità di Audre Lorde sull’uso politico della rabbia, l’elaborazione teorica del femminismo nero, la riflessione sul razzismo delle donne razzializzate che, a partire dagli anni ’70, in particolare negli Stati Uniti, hanno imposto nella riflessione femminista globale la necessità di allargare lo sguardo oltre l’universalismo imposto dal femminismo bianco di stampo liberale1.
Se il patriarcato, nell’analisi di Eltahawy, è la prima e originaria forma di colonizzazione e oppressione, e se ai popoli colonizzati e oppressi è riconosciuto un legittimo diritto alla resistenza, allora anche le donne devono sentirsi autorizzate ad intraprendere una lotta senza quartiere, senza gentilezza e mezze misure, declinata sull’essere “di più” e non “di meno”, che metta al centro loro stesse, non usi l’uomo come unità di misura ma sia capace di disegnare quella che l’autrice definisce “una libertà all’altezza dei nostri sogni”. Nel suo manifesto Eltahawy chiede alle donne di non stare al proprio posto: di sovvertire ciò che è considerato lecito, di provocare e spaventare, perché nel suo pensiero politico tutto ciò che riguarda la vita e l’agire delle donne è sottoposto al controllo tentacolare del patriarcato, immaginato come una piovra dalle tante braccia, ognuna delle quali rappresenta una forma di controllo e di oppressione: qui sta il suo approccio intersezionale che sfugge a qualsiasi gerarchia delle priorità.
All’autorità patriarcale sono sottoposti tutti gli spazi in cui si muovono le donne, quelli laici come quelli religiosi, le strade, le case, gli Stati. Patriarcale è l’autorità che controlla e spaventa, e che non esita ad utilizzare l’arma della violenza e dello stupro come “forma di terrorismo, volta a modificare il nostro modo di stare nel mondo”, afferma. Per combattere tutto questo, ci dice l’autrice, bisogna “dichiarare guerra”. “Questo libro – scrive – non è un piano di pace per scendere a patti con il patriarcato. È una dichiarazione di guerra, un manuale per distruggerlo”.
L’uso politico della rabbia e la legittimità della violenza
Rabbia, ambizione, volgarità, attenzione. E ancora, potere, violenza, lussuria: sono i 7 capitoli nei quali è suddiviso il libro, ognuno a rappresentare un “peccato necessario” per distruggere il patriarcato. E’ così che l’esercizio della rabbia, la sua deflagrante espressione, diventa non solo uno strumento di liberazione individuale ma una condotta femminista collettiva legittima, così come l’uso politico della violenza, a cui Eltahawy dedica il capitolo forse più potente - e certamente più provocatorio - del libro.
“Immaginate se dichiarassimo guerra. Immaginate se, fanculo questa merda, sbottassimo in massa e uccidessimo sistematicamente uomini senza alcuna ragione se non che sono uomini. Quanti pensate che dovremmo ucciderne prima che inizi la distruzione del patriarcato?”.
Un posizionamento, questo, che sebbene distopico e intenzionalmente disturbante le è valso numerose critiche e persino una censura in Australia nel 2020: “Un fatto che dimostra come la violenza ipotetica contro gli uomini sia considerata molto più grave della violenza reale che subiamo ogni giorno in tutto il mondo in quanto donne”, sottolinea nel suo intervento romano. “Non solo le donne vengono socializzate alla sottomissione, ma ci viene detto di non essere violente nemmeno per autodifesa. Di aspettare, finché gli uomini riescano a smettere di essere violenti. Beh, ne abbiamo abbastanza”, riflette Eltahawy, che allarga la sua riflessione anche ai soggetti cui è socialmente concesso esserlo. Maschi, in primo luogo. Ma anche soggettività che incarnano una condizione di privilegio, dal quale è escluso chi abita i margini.
“Molti movimenti di liberazione hanno usato la violenza come mezzo per rovesciare sistemi di oppressione e ingiustizia. Le persone hanno quindi diritto alla resistenza”, riflette l’autrice. “Ma quali?”, si chiede. Una domanda in cui risuona l’eco dell’asimmetria occidentale dinanzi alle ingiustizie, laddove il legittimo diritto alla resistenza è riconosciuto ad alcuni e negato ad altri, in base alla “linea del colore”, alla prossimità culturale con ciò che è considerato “civilizzato”. Ecco allora che la resistenza è lecita per la popolazione ucraina, ma diventa “terrorismo” per quella palestinese; la rabbia potrebbe persino divenire accettabile se espressa da una donna bianca, ma diventa “socialmente pericolosa” se esercitata da chi bianca non è, in un costante esercizio di controllo e normazione rispetto agli strumenti che è consentito usare per non soccombere all’oppressione.
Riconoscere la pratica dell’altra
È un costante esercizio di spostamento dello sguardo quello a cui costringe il lavoro di Eltahawy, espresso anche attraverso il prezioso strumento della newsletter Feminist Giant, da lei ideata, attraverso la quale l’autrice informa su lotte, pratiche di resistenza e soggettivazione messe in campo da donne ai quattro angoli del mondo, invitando ad allargare la prospettiva, situandola ben oltre i confini delle elaborazioni politico-teoriche del femminismo bianco occidentale. “Non mi interessa una pornografia del trauma che elenchi le innumerevoli violazioni subite dalle donne nel mondo: piuttosto, voglio nominare la loro resistenza. Raccontare che, in tante azioni quotidiane apparentemente irrilevanti, stiamo invece vincendo questa battaglia”, spiega nel corso del dibattito.
In questa prospettiva si inquadra anche l’episodio che Eltahawy racconta nel suo libro e descrive come “rivoluzionario”. Nel 2005 l’autrice è a New York quando Amina Wadud, tra le più importanti teoriche del femminismo islamico, è la prima donna Imam a guidare una preghiera mista in moschea. “Mi ero impegnata per anni in una battaglia contro un Islam dominato dagli uomini, ma nessuna di noi era stata in grado di sferrare il colpo decisivo. Amina Wadud l’ha fatto”, scrive. “Quel giorno abbiamo fatto la storia”, rendendo evidente “la contraddizione tra l’intrinseco egualitarismo della nostra religione e la palese misoginia prodotta da secoli di interpretazione del nostro credo da parte degli uomini”.
Per Eltahawy infatti le religioni sono uno dei molti teatri di espressione del patriarcato, ma nessuna ne detiene l’esclusiva. “Spesso mi viene chiesto come posso essere musulmana e femminista. La mia risposta è che le due identità non sono connesse. Il mio obiettivo è distruggere il patriarcato ovunque si manifesti, che sia nell’ambito sacro o in quello laico”, spiega. “Ho perso il conto di quante volte ho dovuto scrivere che le donne musulmane non sono un monolite: siamo più dei vostri veli”.
Un posizionamento, questo, che rende manifesto come la radicalità non sia sinonimo di prossimità con il pensiero, l’elaborazione teorica e le pratiche dei femminismi del Nord globale, ma piuttosto abbia a che fare con la strada che ogni donna trova per far deflagrare il proprio contesto patriarcale.
In un contesto occidentale che ancora infantilizza i processi di soggettivazione delle donne in altri luoghi del mondo, continuando ad imporre la propria egemonia culturale, nominare e valorizzare la pratica dell’altra diventa allora un gesto radicale. Un riconoscimento basato sul rispetto delle differenze, per costruire una parità inclusiva. “L’Occidente non è il centro del mondo. È arrivato il momento per le persone trans, queer, non binarie, non bianche e non privilegiate di guidare la rivolta femminista”, insiste l’autrice.
La volgarità come disobbedienza, l’attenzione come pratica
E “radicale” è sempre la parola di Eltahawy, anche nella forma dissacrante in cui sceglie di esprimerla. “Dobbiamo riconoscere che gli infiniti modi in cui il patriarcato insegna alle donne a tirarsi indietro si estendono anche al linguaggio, a ciò che possiamo o non possiamo dire”, scrive nel capitolo che dedica alla “Volgarità”. “Potrei usare altre formule, ma dico invece fanculo perché sono una donna, di colore, musulmana, e non dovrei farlo”, spiega.
È così che l’uso di un linguaggio imprevisto per il soggetto che lo esprime diventa uno “shock necessario, l’equivalente verbale della disobbedienza civile”. Perché sovverte l’ordine simbolico nel quale le donne sono costrette, confinate in una discrezione che si fa forma di controllo della collera. Sdegno, disperazione, stanchezza sono consentite: non la rabbia, che abbatte i confini del decoro. Ma “l’educazione - spiega l’autrice - è un lusso riservato a chi dal patriarcato non è colpito. In questa guerra la gentilezza non ci ha portate da nessuna parte. Èarrivato il momento di reagire”. Ecco allora che in questo “non tirarsi indietro” rientra a pieno titolo anche l’ambizione, cui è dedicato un capitolo del libro. “In un mondo che ci ha sempre chiesto di stare in disparte, il gesto più rivoluzionario che una donna possa fare è dire ‘io valgo’.
“Chi mi credo di essere?”, domanda con puntiglio sarcastico l’autrice. “Una delle femministe più influenti del mio tempo. Puttana. Prepotente. Esibizionista. Sfacciata. La lista di epiteti usati per descrivere le donne percepite come ambiziose ci rammenta che esserlo è un peccato. Ma io non voglio piacere al patriarcato: voglio essere libera”, afferma Eltahawy.
La necessità di un femminismo inclusivo e globale
Finendo di leggere il lavoro di Mona Eltahawy si viene travolte da un vorticoso senso di potenza. Una forza che si nutre della parola dell’altra, anche quando l’intento è quello di invitarci a “stare scomode”. È una messa in discussione radicale quella proposta dall’autrice, che costringe a decolonizzare il nostro stesso sguardo. Se infatti il patriarcato è universale, tale deve essere anche la risposta femminista. Ma perché questo sia possibile, occorre porsi in un’ottica di attraversamento delle esperienze, di ascolto e rispetto dell’altra. “Vi sentite a disagio?”, domanda Eltahawy nel suo libro. “Dovreste. Il disagio ci ricorda che il privilegio è messo in discussione e che in questo momento rivoluzionario dobbiamo sfidare, trasgredire e contrastare il patriarcato ovunque”. Praticando un costante riconoscimento e de-costruzione del nostro stesso privilegio, per ri-costruire la traiettoria comune di nuove alleanze possibili.
Dal palco romano che la ospita, Mona Eltahawy conclude il suo intervento invitando le donne presenti ad alzarsi, e a gridare tutte insieme la “dichiarazione di fede” con cui ha aperto il dibattito. Un Fuck the Patriarchy risuona gioioso, tra qualche imbarazzo che si apre poi in un sorriso collettivo che ha il profumo della liberazione. La fila di donne in attesa sotto il palco per far firmare la propria copia si allunga. E nella dedica che pazientemente Eltahawy scrive ad ognuna, si legge il suo invito definitivo: “Defy, Disobey, Disrupt”2
1Per approfondire si veda l’esperienza politica del Combahee River Collective, e la sua celebre Dichiarazione del 1977, The Combahee River Collective: A Black Feminist Statement.
2“Sfida, disobbedisci, disintegra” il patriarcato. Sono le celebri “3 D” che compongono il motto con cui Eltahawy incoraggia le donne a sovvertire le norme politiche e sociali in ogni occasione possibile.