Due anni fa, esattamente in questo periodo dell’anno, Ahmed Yassin al-Daradji siede sulla riva del fiume Diyala. Osserva con attenzione il piccolo Hussein, mentre il sole cade lentamente sul paesaggio mesopotamico intorno a loro: non un suono, non un movimento. Tutti trattengono il respiro immobili dopo lo “stand by” gridato alla crew dall’assistente alla regia Wareth Kwaish. In sottofondo, come un basso continuo irriverente, gracchiano le rane. Era questa la serata-tipo della produzione irachena di Hanging Gardens, l’ultimo film di Ahmed Yassin, fortemente voluto da Huda al-Khadimi di Ishtar Iraq, May Odeh di Odeh Production e Margaret Glover dei 7th Eaten Studios.
Il film iracheno dell’anno
Hanging Gardens è “il” film iracheno dell’anno: dopo la prima proiezione a Venezia nel settembre 2022, nel 2023 ha vinto il Gran Premio del Red Sea International Film Festival di Jedda, e ora è tutto un trionfo da Beirut a Tunisi, da Varsavia a Tetouan, da Lione a Oslo. La novità non è solo che un film iracheno riceva questo tipo riconoscimenti, ma che il cinema iracheno sia tornato a farsi vedere in Europa, lontano dalle dinamiche di guerre, terrorismo e orrori a cui la sua rappresentazione nel cinema internazionale ci ha abituato negli ultimi trent’anni.
Certo il film è il frutto della storia dell’Iraq, ma ha un registro ironico e insieme malinconico e surreale, che è la cifra linguistica dell’arte irachena, come ha bene dimostrato il romanzo Frankestein a Baghdad di Ahmed Saddawi, vincitore dell’Arab Booker Prize nel 2014. Hanging Gardens è anche il risultato della lotta di una giovane generazione di cineasti, nati durante l’occupazione americana e cresciuti sognando l’Europa.
A venti anni dall’occupazione americana
Il regista Ahmed Yassin al-Daraji è definito uno dei cento talenti dei Paesi arabi consacrati dalla rivista Esquire: è carismatico, capace di raccogliere, attorno ai suoi progetti, altri professionisti (dall’assistente alla regia al regista della fotografia all’assistente di produzione) cresciuti come lui a Baghdad e, come lui, dopo il diploma all’Accademia del cinema di Baghdad, emigrati e vissuti in Francia, Inghilterra, Germania, Canada, Olanda.
Fin dall’inizio delle riprese, quando lo abbiamo incontrato sul set a Diyala, aveva le idee molto chiare sul senso di questa pellicola: “Dopo avere visto The American Sniper mi sono detto basta. Basta raccontare storie di soldati, cecchini, eroi e vittime. Questa è l’unica immagine che il cinema ha restituito dell’Iraq negli ultimi venti anni. Ma non solo da parte dell’Occidente. Qui in Iraq abbiamo sempre e solo raccontato storie di bambini iracheni senza gambe o di soldati americani e, recentemente, abbiamo cavalcato la variante dei soldati iracheni che combattono contro lo Stato islamico.
In Hanging Gardens parliamo della perdita dell’innocenza: cosa significa per un bambino iracheno imbattersi in una cultura così diversa e invasiva? “L’occupazione americana ha cambiato completamente la nostra generazione, in meglio e in peggio, allo stesso tempo: la nostra generazione di iracheni guarda al resto del mondo, soprattutto all’Occidente, e sogna per sé il benessere nella vita quotidiana, l’assenza di corruzione, più civiltà, libertà, modernità. Ma non stiamo cercando di replicare il modello occidentale: miriamo, invece, a trovare il nostro modo per rivivificare l’orgoglio nazionale".
L’omaggio al Tishreen Movement
Un orgoglio che è evidente nel film, vista l’importanza data ai tuk-tuk come mezzo di trasporto privilegiato per il protagonista della storia e i suoi amici. I tuk-tuk sono stati il simbolo della rivoluzione del Movimento di Ottobre nel 2019. In quei mesi i tuk-tuk invadevano le principali piazze di Baghdad e venivano utilizzati dai manifestanti per spostarsi e trasportare persone ferite o in salute, cibo, medicine, libri, giornali.
“Questo è il tocco politico del film: volevamo rendere omaggio alle vittime della rivoluzione del 2019: la maggior parte di noi ha preso parte a quella rivoluzione e non possiamo dimenticare come i giovani siano stati perseguitati e uccisi dalle milizie e dalle forze speciali irachene solo perché hanno avuto il coraggio di rivendicare i loro diritti e una società migliore, inclusiva, non corrotta”
spiega l’assistente alla regia Wareth Kwaish.
A parte il contenuto politico, appena suggerito, questo è il film iracheno delle sorprese, a partire dalla trama. Ahmed Yassin la svela con passione, la stessa che mostrava dopo aver girato un’altra scena – una tra le più intense e lunghe - in una discarica vicino a Baquba, a Sud di Baghdad: >quote> "Nel film, il piccolo orfano Assad, durante una giornata trascorsa in una discarica, trova una sex doll in un sacco di rifiuti proveniente da una base americana. La bambola ha un viso espressivo in cui riconosce l’immagine di sua madre, la madre che non ha mai conosciuto, morta durante la prima guerra del Golfo. Le dà un nome, Salwa, e decide di prendersi cura di lei”.
Parlare di sesso a Baghdad
La tenerezza e tutte le altre sfumature sentimentali di questo rapporto sono anche il risultato di un intenso scambio tra il regista e la produttrice Margaret Glover, che ha anche curato la sceneggiatura. Glover è americana e non nasconde quanto questo film sia stato importante per lei: “Ho creduto subito in questa storia e ho cercato di portare delle sfumature di bellezza e dolcezza in un mondo di uomini in cui esiste un solo personaggio femminile oltre alla bambola".
Per questo e per altri motivi, Hanging Gardens è un film tenero e tragicomico. Ed è anche coraggioso, perché affronta il tema del sesso in una società dove il sesso è nascosto, è un tabù, o viene mostrato come espressione di potere fisico e mentale su un altro essere umano, non importa se su una donna, un bambino, un uomo, una bambola. Ciò che conta è il suo potere distruttivo e violento, specchio di una società spezzata nel profondo.
Non stupisce neanche che questa dimensione abbia toccato il retroscena produttivo della pellicola.
“Abbiamo fatto arrivare dal Canada un paio di sex doll per girare le scene più importanti – racconta con ilarità Margaret Glover – Se dovessimo raccontare sia le difficoltà avute alle dogane, nonostante tutti i permessi, sia una serie di situazioni al limite del boccaccesco con le stesse autorità doganali, e non solo doganali, potremmo produrre un altro film. Stavolta sarebbe un documentario. Di sicuro, spiegherebbe bene come la società irachena viva e concepisca la sessualità”.
La migrazione e il ritorno dei talenti
In sostanza, in Hanging Gardens vedi l’Iraq che non ti aspetti.
“Abbiamo scelto una storia simbolica per raccontare com’è oggi l’Iraq, cercando di stare lontani dallo stereotipo della guerra e del petrolio”, sottolinea l’assistente alla regia Wareth Kwaish. C’è anche un motivo personale, profondo, in questa scelta di squadra: “Abbiamo voluto fortemente tornare in Iraq, nonostante grandi difficoltà. Fare film qui ha il sapore della scoperta, del mondo ritrovato”.
Wareth Kwaish e Ahmed Yassin al-Daradji, trentenni, sono solo due dei giovani cineasti iracheni nati durante l’occupazione americana dell’Iraq: formatisi all’università di Baghdad, lo hanno lasciato, l’uno per Parigi, l’altro per Londra, dove sono diventati professionisti. Ma non hanno l’ambizione di restare in Europa: per entrambi, questo è il momento di raccontare il proprio Paese d’origine, e di scommettere sulle immense potenzialità di un luogo che ha tanto da raccontare nonostante il cinema iracheno sia caduto nell’oblio dopo la dittatura di Saddam Hussein.
La rinascita del cinema iracheno
La rinascita del cinema iracheno e anche della sua produzione televisiva è recente e risale agli ultimi dieci anni: in occasione della nomina di Baghdad Capitale Araba della Cultura 2013, il Dipartimento del Cinema e del Teatro del Ministero della Cultura iracheno spese circa 12 miliardi di dinari iracheni (circa 10 milioni di dollari) per sostenere l’industria cinematografica, compresa la produzione di cortometraggi, lungometraggi e documentari. L’evento della Capitale araba della cultura aveva spinto il governo iracheno a fare anche altri investimenti in infrastrutture culturali, come un grande complesso culturale di 87.000 metri quadrati che avrebbe dovuto ospitare un teatro dell’opera da 1.500 posti. Tutti i progetti dell’allora Ministero della Cultura non sono stati interamente realizzati ma qualche cambiamento c’è, e il teatro al Rasheed di Baghdad, per esempio, sta risorgendo dalle ceneri. Uno dei motivi di questi rallentamenti, a parte il problema endemico della corruzione politica, è il potere delle milizie, da Daesh alle Assashabi, e, dal 2016 in poi, la ricaduta del Paese in una condizione di mancanza di sicurezza.
Hikmat Muttashar Majeed Al Beedhan è il direttore del Dipartimento di Cinema dell’Accademia d’Arte di Baghdad e ha anche aperto la prima grande casa di produzione cinematografica della capitale, Art City. Dal 2016 Art City ospita il festival internazionale di cortometraggi 3 by 3 per valorizzare i talenti locali e creare un’occasione di scambio con gli stranieri: «Il cinema iracheno oggi inizia ad avere finanziamenti e infrastrutture, grazie al successo delle serie televisive, la nascita degli studi di animazione, l’interesse di Netflix». Anche una città religiosa come Karbala, ora, ha il suo festival cinematografico: al-Nahji Film Festival, esploso nel 2018. E l’emittente locale, Karbala Tv, ha il suo studio, dove vengono animati in 3D pupazzi a grandezza naturale.
A Baghdad, c’è lo studio del Wilayat al-Battikh (Città dei Meloni), la sketch comedy irachena creata dal presentatore e comico Ali Fadel, tempio dell’industria dell’intrattenimento. «Città dei Meloni, in iracheno, significa una città senza rispetto per la legge: descrive una situazione in cui non c’è organizzazione e controllo, soprattutto nella società, perché non c’è un governo effettivo», spiega Ali Fadel, sotto le luci lampeggianti del suo studio e le frequenti interruzioni della corrente, alimentata dalla rete nazionale di elettricità. “Qui si fa satira su tutto e tutti: questo spiega perché siamo tanto amati ma anche perché qualcuno, anche tra i politici, ci minaccia”.
La critica non troppo velata alla società è anche il pane quotidiano del regista Nias Latif che è sul set della sua novantaduesima serie televisiva, Hotel Mina. Si gira nella città di Suleymania, nel Nord dell’Iraq. In una villa di periferia, circondata da un giardino, troupe e cast sono barricati lì dentro da due settimane: “Dobbiamo finire le riprese il prima possibile, mentre contemporaneamente si va in post produzione per andare in onda a fine Ramadan”, chiarisce il regista. Il Nord del Paese è anche la location in cui è ambientato uno dei film che hanno spopolato nelle ultime stagioni su Netflix, Mosul, nonostante non sia stato girato sul posto e non sia stato prodotto da iracheni, motivo per cui il suo gradimento è qui assai controverso: il film racconta la storia recente dell’Iraq nella città-cuore dello Stato Islamico, durante la campagna di liberazione della Coalizione Internazionale nel 2017.
Ma Mosul non ha bisogno di quel film per raccontarsi perché qui è in atto una rivoluzione inaspettata per quanto riguarda il cinema. Marwa, Haitam e Ahmed, dopo la sconfitta dello Stato Islamico, hanno creato un collettivo di attori, registi, sceneggiatori. Ora stanno iniziando a girare il loro primo cortometraggio, imparando da Yad Deen, un regista curdo-britannico che è tornato nel Paese nel 2015 per aprire la sua casa di produzione SceneItAwards.
In riva al fiume, in un ristorante all’aperto pieno di donne che fumano narghilè, il giovane sceneggiatore Ahmed al Najm lancia il suo messaggio: “Attraverso il cinema vogliamo gridare al mondo. Vogliamo raccontare la storia di tutte le persone che venivano uccise ogni giorno a Mosul, come mia madre o mia sorella, persone care che morivano davanti ai nostri occhi. Interessatevi a noi, per favore, perché esistiamo”. Alle spalle di Ahmed gira la ruota panoramica; le chiatte colorate e zeppe di famiglie in gita solcano il Tigri: è un paesaggio inimmaginabile fino a cinque anni fa.
A Mosul come a Baghdad soffia un nuovo vento di cambiamento e il successo cinematografico di Hanging Gardens è la prova provata che l’Iraq non può più essere considerato il paese-pattumiera che l’Occidente pensava fosse, almeno dagli ultimi trent’anni in poi.