
Il libro – come esplicitato dall’autrice – è dedicato principalmente alle conversioni all’Islam, nello specifico al sufismo da parte di individui appartenenti a società dell’Europa occidentale. Un focus spazialmente delimitato ma che, seppur complesso, rafforza la solidità metodologica di questa indagine, riuscendo nella non facile opera di colmare varie lacune della letteratura islamologica e sociologica contemporanea. Il tema delle conversioni al sufismo è stato scarsamente esaminato da studiosi che hanno inteso privilegiare l’indagine delle conversioni all’islam radicale e ai gruppi jihadisti.
In un certo senso, il libro di Marchi opera uno sforzo decostruttivo, nel proporre una diversa prospettiva delle conversioni, evidenziando i percorsi, i viaggi individuali, di uomini e donne, che hanno imbracciato il cammino iniziatico sufi. Sufismo che è anche poi oggetto di preziosa indagine sociologica nella seconda parte del libro, in cui l’autrice offre una panoramica del sufismo in Italia e in Europa, nonché delle genealogie che hanno determinato la formazione di alcune comunità sufi italiane.
Proprio per questo motivo, Le vie del sufismo verso l’Europa mediterranea risulta essere fruibile non solo per gli esperti del tema, ma anche per un pubblico colto che intenda approfondire le proprie conoscenze del fenomeno sufi nel Mediterraneo. L’onestà intellettuale, oltre che il rigore scientifico dell’autrice, pongono questo lavoro come punto di riferimento per gli studiosi che intendano affrontare la questione delle conversioni in generale, così come i percorsi di iniziazione sufi. Marchi non manca di fornire note metodologiche nonché rimandi bibliografici, ma soprattutto di specificare quanto più possibile il focus e le intenzioni del suo lavoro. In questo modo, l’autrice riesce a esplicitare la posizionalità ermeneutica del suo lavoro e di sé stessa rispetto all’oggetto della sua ricerca, che inizia dai tempi del suo dottorato in Francia. Le fonti di ricerca spaziano dagli archivi storici fino alle indagini etnografiche, prime fra tutte le numerose osservazioni partecipanti, che l’autrice ha condotto in seno a varie comunità sufi italiane.
Un approccio gramsciano
Il principale merito del libro sta probabilmente nella sua innovatività teoretica, ovvero nell’approccio scientifico utilizzato per analizzare le conversioni al sufismo. Il tema delle conversioni è di per sé estremamente complesso, per via della sua sfuggevolezza analitica e scientifica. Si tratta oltretutto di un tema sovente soggetto a reificazioni e speculazioni ideologiche e narrative. Queste narrazioni sono ancora più ingenti quando rivolte al sufismo, esso stesso tema alquanto sfuggente, in quanto estremamente eterogeneo e multivariato.
L’autrice, infatti, scrive di sufismi al plurale per cercare di cogliere il pluralismo e la complessità che ha storicamente connotato questo fatto sociale, storico, culturale e politico. Ma Marchi riesce a districarsi in maniera molto brillante da queste possibili difficoltà, facendo delle possibili debolezze un punto di forza. Fa questo ricorrendo alle intuizioni di Antonio Gramsci di cui l’autrice è profonda conoscitrice. A partire dalle riflessioni del pensatore sardo, Marchi elabora la sua innovativa quanto perspicace ipotesi di ricerca:
Il mio intento è di indagare in termini gramsciani se una acquisizione progressiva della coscienza della propria personalità storica, ovvero quello spirito di scissione sia alla base delle conversioni all’islam spinte dall’anticolonialismo prima e dal terzomondismo e da altre ideologie inseguito, o in reazione a un’identità normata dallo Stato liberale occidentale. O ancora, se si possa studiare la conversione all’islam come un processo di resistenza all’egemonia culturale europea, integrando la dimensione spirituale nelle sue potenzialità di contestazione e di trasformazione1.
Le conversioni sono così studiate da una prospettiva olistica, che abbraccia una concezione sia storica che culturale; un approccio che tiene in considerazione le questioni di natura sociologica e spirituale, per cercare di delineare le traiettorie individuali e culturali delle conversioni al sufismo nel mediterraneo. Il termine traiettorie non è casuale, la stessa autrice più volte fa riferimento a questa terminologia, basti vedere il titolo. Si tratta di “vie e percorsi” che lasciano intuire come il mediterraneo sia fatto di attraversamenti culturali e di viaggi. Il viaggio, una delle chiavi di lettura del libro, è inteso sia come percorso iniziatico sufi, dunque spirituale, ma anche spostamento fisico, costituito cioè da incontri, scontri, interazioni con la cultura materiale e le persone che concorrono alla produzione degli immaginari e delle narrazioni mediterranee.
In questo modo, il libro mostra come il Mediterraneo sia effettivamente un episteme multiculturale, a dispetto di quello che la costruzione dicotomica oriente-occidente ci propone. Ma è proprio all’interno di questo episteme che si fanno e di disfanno le frontiere, quali confini labili, porosi e relativi, continuamente attraversati, fatti e costruiti attraverso dei percorsi individuali ma anche comunitari. Il caso delle conversioni assume una valenza paradigmatica nel rivenire come proprio questi contatti e attraverso queste direttrici si costruiscano le differenze, come gli attraversamenti oltre che unire, dividano, stabiliscano un prima e un dopo.
Resistenza culturale, critica e coscienza storica
Alessandra Marchi dimostra questo quando affronta i singoli percorsi di conversione di soggetti come Ivan Aguelì, Isabelle Eberhardt, Leda Rafanelli e Valentine de Saint Point, che hanno vissuto quei processi di colonizzazione, riforma e imperialismo che rendevano il rapporto tra Oriente e Occidente più che paradigmatico. Momenti storici in cui si andava delineando un’idea di modernità, o magari più idee di modernità, che comunque vedevano l’Occidente quale parte egemonica del mondo. Percorsi che incarnano una critica, un rigetto della propria cultura di appartenenza, che parte dall’acquisizione di una propria coscienza storica, dell’essere qui nel mondo, anche se vogliamo dal punto di vista politico, oltre che spirituale e sociale. Una rottura basata sulle proprie percezioni, sui propri percorsi, che stabiliscono un prima e un dopo, sancito dall’attraversamento di una frontiera, una liminalità che porta alla sovversione delle visioni del mondo.
La posizione delle persone convertite all’islam sufi è analizzabile in termini di una resistenza culturale al nuovo ordine imperialista imposto all’Africa, e non solo nei confronti del tipo di società che si andava organizzando in Europa. Si tratta dello stesso periodo in cui si va sviluppando la soggettività moderne, grazie anche a un lungo “processo di acquisizione della propria personalità storica, così come espresso da Antonio Gramsci, processo che mi piace pensare non fosse così distante dall’elaborazione di posizioni di contestazione dello status quo (radicali, anticoloniale, di classe ecc.) unite dalla ricerca anche interiore di molti2.
Dunque, una rottura incorporata, una critica antimoderna, che poi si rileva anch’essa moderna come nel caso di René Guénon. Una rottura che è frutto di una scelta soggettiva, individuale, dunque foriera dell’emersione di quella soggettività storica che poi è alla base dei comportamenti religiosi contemporanei come giustamente l’autrice rileva. Soggettività incorporata in cui la cultura e la civiltà occidentale sono oggetto di critica, di rifiuto ontologico e anche psicosociale.
L’Islam in questa prospettiva è percepito in antitesi rispetto alla civiltà occidentale, dunque una scelta sovversiva, di presa di coscienza storica contro-egemonica. Il che contribuisce poi anche a spiegare le recenti conversioni all’Islam, soprattutto al sufismo. Oppure, aiuta a comprendere la rielaborazione della tradizione sufi attraverso dei processi di ibridazione e sincretismo religioso, o anche di mercificazione, il che presuppone una critica più naïve, più in linea con la cultura contemporanea. Dunque, una contestazione della cultura occidentale che ha stimolato una progressiva pluralizzazione religiosa, con diversi gradi di intensità e coinvolgimento, senza necessariamente includere alcuna secolarizzazione delle credenze, che più che un processo sociale appare un mito autopoietico.
Il viaggio come processo di conversione
Il libro tratta il viaggio quale sintesi e simbolo del processo di conversione. Un viaggio sia in termini metafisici e spirituali che materiali, perché spesso la conversione inizia con uno spostamento fisico in Oriente, o magari un viaggio intellettuale, l’incontro con persone e culture che sono percepite come differenti, in antitesi alla propria cultura. Tuttavia, in questo viaggio che è la conversione, non bisogna considerare solo il contesto che determina la rottura, ma anche il processo che la accompagna, il quale prevede alcuni punti comuni. Il primo, per l’appunto, è l’incontro con l’altro, fisico, metafisico, intellettuale che marca la differenza culturale e sociale rispetto alla cultura autoctona. Anche un libro o un’opera letteraria possono marcare questa differenza, come nel caso di coloro che hanno intrapreso il percorso iniziatico partendo dalle letture di Guénon, Evola e Corbin. Un processo che continua con l’avvicinamento a Dio, considerato come origine e fine ultimo della rinascita del convertito.
Nei racconti di conversione, l’articolazione (auto)biografica sembra ridurre quel momento fondamentale dello sconvolgimento interiore, presentandolo come inevitabile, quasi naturale, come se non avesse potuto essere altrimenti. E qui che si situa la percezione del ritorno alle origini, tanto evocata. Per alcuni si tratta di un’illuminazione subitanea, di cui ci si appropria per la vita; per altri si tratta di un apprendimento costante, dell’intelletto e dell’anima, entrambi da nutrire con disciplina e intuizione3.
In questo quadro, la ritualità e l’etica sufi riescono per loro stessa natura ad avvicinare i convertiti, basti pensare alle ritualità del dikhr (ripetizione del nome di Allah), così come all’etica dell’amore divino (ishq) e della condivisione e alla socialità interna alle comunità sufi. Viaggio che, in quanto processo di conversione, assume una valenza che non può essere solamente declinata in termini culturali, ma anche politici, secondo una prospettiva gramsciana.
Un libro di cui c’era bisogno, che colma una lacuna scientifica, ma arricchisce anche il dibattito intellettuale contemporaneo per decostruire alcune differenze culturali ed evitare ogni forma di radicalizzazione. Questi percorsi di conversione dimostrano come le differenze esistano nella condivisione, come le storie di conversione siano tra i principali fattori della costruzione dialettica, dunque non dicotomica, del nostro occidente e del nostro oriente. Il libro ha il merito di proporre anche un approccio metodologico e teoretico che può dare spazio a delle ulteriori indagini comparative delle conversioni, quali e vere e proprie straordinarie cinghie di trasmissione e costruzione culturale da una civiltà all’altra, e viste da questa prospettiva anche tra i principali fattori di (de)costruzione delle differenze.