Le proteste in Iran: contesto e caratteristiche di questo ciclo di mobilitazioni

Le proteste in Iran continuano, nonostante la repressione brutale da parte dello Stato. La capacità di risposta delle giovani e dei giovani in piazza e la loro determinazione potrebbero segnalare un punto di rottura tra la popolazione e la classe dirigente che, dopo aver per anni arrestato e incarcerato le attiviste e gli attivisti che chiedevano riforme graduali, paga ora le conseguenze della propria intransigenza.

L'immagine mostra una scena di tensione e conflitto in una strada. Ci sono persone in piedi, alcune sembrano protestare, e si nota un'atmosfera di caos con fumi o gas lacrimogeni nell'aria. Alcuni veicoli sono coinvolti, con una macchina ribaltata, mentre altri autoveicoli sono parcheggiati lungo il marciapiede. Gli alberi ai lati della strada contribuiscono a dare un'idea di una zona urbana. La persona in primo piano, che ha i capelli lunghi, sembra stia alzando un braccio verso qualcosa, forse in segno di protesta o sfida.
Manifestanti iraniani sul Keshavrz Boulvard, 20 settembre 2022.
© Darafsh Kaviyani

Lo scorso 20 settembre la giovane Jina Mahsa Amini moriva a Teheran, dopo tre giorni di coma in ospedale. Quello che le è successo non è chiaro, ma in Iran una grande fetta della popolazione è convinta che Mahsa sia stata torturata e picchiata fino al coma mentre era sotto la custodia della ‘polizia morale’ (gasht-e ershad). Gasht-e ershad pattuglia gli spazi pubblici in Iran alla ricerca di persone, donne specialmente, che contravvengono le norme della ‘decenza’ morale e pubblica col loro vestiario, taglio di capelli, comportamento. Ça va sans dire che il velo obbligatorio è la ragione più comune per cui le pattuglie entrano in azione. Dopo aver ripreso Mahsa perché secondo loro non velata adeguatamente, l’hanno caricata di forza su un furgone e portata in caserma. Tre giorni dopo, in coma, la ragazza è morta.

Si tratta dell’ultimo episodio della violenza sistemica e patriarcale, che prende mille forme tra cui quella di gasht-e ershad, che vediamo in Iran. Questa estate, l’operato di gasht-e ershad e la violenza con cui agisce erano già stati oggetto di diverse notizie, tra cui quella della sparatoria contro il pugile professionista Reza Moradkhani1, e quella di Sepideh Rashnou2, episodi che sottolineano come, negli ultimi mesi, ci sia stato un incremento della violenza dello Stato contro le donne. Salito al potere un nuovo governo e complice la tesa situazione internazionale e regionale – guerre, conflitti e tensioni diplomatiche – lo spazio pubblico in Iran ha subito una forte securitizzazione, con sempre meno tolleranza per le espressioni di dissenso e di ‘resistenza’ (anche quando non organizzata, quotidiana, e non intenzionalmente politicizzata) alle norme socio-culturali della Repubblica islamica. Un esempio sono le decine, se non centinaia, di giovani donne che si vedono in giro per Teheran, e non solo, senza velo. Si tratta di un fenomeno nuovo e dirompente per un regime che, al pari di altri sistemi politici, ha fatto della sua capacità di coprire il corpo femminile una metafora di orgoglio nazionalista e culturale, e del proprio potere.

Elementi di continuità e di rottura

C’è un background alle proteste che stiamo vedendo in questi giorni, ma anche importanti elementi di novità. In primo luogo, le donne si sono da sempre organizzate contro la violenza patriarcale dello Stato e con lo scopo di rivendicare e acquisire più diritti, e hanno sempre guidato e partecipato a mobilitazioni e proteste. Queste proteste, che al centro mettono l’autodeterminazione e l’autonomia personale, si inseriscono in questa traiettoria di lotta femminista che, nel corso dei decenni, ha preso diverse forme. Dalla rivendicazione di diritti e da un approccio più collaborativo con le istituzioni, in un periodo in cui queste avevano parzialmente dimostrato di voler accogliere alcune istanze di cambiamento, i movimenti femministi in Iran hanno visto negli ultimi due decenni un’evoluzione radicale, determinata soprattutto dall’accresciuto autoritarismo dello stato. Del resto, si tratta di una traiettoria comune a diversi movimenti che, negli ultimi due decenni, si sono trovati a interagire con istituzioni sempre più autoritarie, che sempre meno tollerano espressioni pubbliche di dissenso e che restringono, attraverso la legge e la brutalità delle forze dell’ordine, lo spazio di agibilità politica.

In secondo luogo, queste proteste femministe si inseriscono in una traiettoria più ampia di mobilitazioni che nel corso degli ultimi 10-15 anni sono regolarmente scoppiate in Iran. I regolari cicli di mobilitazione, in realtà, sono precedenti, ma negli ultimi 10-15 anni presentano delle novità3. Non si tratta più, infatti, di mobilitazioni che si inseriscono in una dialettica Stato-società con lo scopo di dialogare con le istituzioni. In un certo senso, sembra che la transizione dall’idea che le istituzioni ascoltino chi protesta e che, soprattutto, ci sia qualcuno ad ascoltare “dall’altra parte”, alla constatazione che, invece, non vi è alcuna predisposizione all’ascolto, sia completa. Le proteste di oggi sono più radicali nei modi e nei contenuti. Nei video che sono circolati, i manifestanti – giovani donne e uomini – hanno dimostrato una grande capacità di risposta alla violenza poliziesca. Li abbiamo visti inseguire agenti, picchiarli, assaltare camionette e auto delle forze dell’ordine. Abbiamo anche visto come le proteste non si siano fermate nonostante la fortissima repressione durante il fine settimana, e abbiamo ricevuto notizie della liberazione della città di Ashnou/Oshnavieh nel Kurdistan iraniano. Si tratta di una capacità di resistenza inusuale, di cui certamente future ricerche accademiche e inchieste giornalistiche si dovranno occupare.

Anche gli slogan suggeriscono che l’impostazione generale delle proteste è più radicale. Se nel 2009-2010, ci vollero mesi prima che si sentisse lo slogan ‘morte al dittatore’, nel 2022 è stato presente dall’inizio delle proteste. La composizione di classe anche sembra essere diversa da quella dei più recenti cicli di mobilitazione, che erano composti soprattutto da lavoratori delle classi meno agiate. Le proteste di oggi sembrano raggiungere più e diverse classi, e raccogliere un consenso più trasversale. Nel 2019, non era inusuale sentire o leggere commenti sui social da parte di persone della classe media sul “pericolo, disordine, caos” che le proteste portavano, e la paura che l’Iran diventasse come la Siria – ovvero, sprofondasse in una spirale di instabilità. Oggi, le proteste sono da tutti celebrate e incoraggiate.

Si tratta inoltre di mobilitazioni che non esprimono leadership precise. Ci sono stati movimenti e gruppi che hanno, in parte, espresso una capacità di leadership indicendo, ad esempio, scioperi e invitando alla partecipazione alle proteste. Lo hanno fatto gli studenti universitari in diverse città, e non è un caso che molte università, tra qui quella di Teheran, abbiamo deciso di spostare le lezioni online e chiudere i campus. Vediamo anche come alcuni gruppi femministi presenti sui social media stiano giocando un ruolo importante nel diffondere notizie e nell’invitare alla partecipazione. Tuttavia non esiste un coordinamento e queste proteste paiono meglio caratterizzarsi come un’esplosione di legittima rabbia, al centro delle quali ci sono delle parole d’ordine scandite negli slogan e nelle quali i social media giocano un ruolo molto importante. Anche in questo caso, le proteste si inseriscono in una dinamica di trasformazione dell’attivismo più ampia e globale4, dove la partecipazione alle proteste non è la fine di un processo di coordinamento tra diverse realtà, che valutano compromessi e alleanze, ma il primo atto di individui che scendono in piazza a testimoniare i propri valori e le proprie idee ma che poi faticano a costituirsi come soggetto collettivo che pensa politicamente e agisce strategicamente. Esistono poi delle specificità di questa dinamica, nel caso dell’Iran: innanzitutto, la violenza e la repressione dello Stato, che rendono ancora più difficile l’organizzarsi politicamente; la difficoltà di trasmettere conoscenza militante e attivista tra le generazioni, a causa della repressione che costringe le persone all’esilio o a subire torture, incarcerazioni, arresti; infine, i traumi mentali, emozionali, affettivi che accompagnano l’esperienza della militanza politica che, molto spesso, è di fatto l’esperienza della violenza di Stato, determinando l’allontanamento di tante attiviste e attivisti dalla militanza. Questi sono elementi di contesto che, nel lungo periodo, giocheranno un ruolo indipendentemente dalla traiettoria che avranno delle proteste di questi giorni.

Infine, la geografia umana e politica dell’Iran è importante per capire la situazione oggi. Mahsa era una giovane curda, e questo è rilevante per capire la violenza con cui è stata trattata e, anche, per rintracciare l’origine territoriale delle proteste e dare un senso alla loro diffusione geografica. Certamente Mahsa non è la sola donna vittima della brutalità poliziesca in Iran, ma in tanti si sono chiesti come mai gasht-e ershad si sia accanito su di lei nonostante, come si evince dai video, Mahsa portasse l’hejab, di colore nero quindi non appariscente, in modo piuttosto conservatore e vestisse anche un lungo spolverino nero coprente. La seconda ragione per cui l’elemento etnico-razziale è importante riguarda la diffusione delle proteste, che sono nate proprio nel Kurdistan iraniano e che, da qui, si sono diffuse in gran parte dell’Iran, soprattutto nelle province del nord e dell’ovest del paese, prendendo anche la città di Mashad, la capitale del Khorasan orientale, e la capitale Teheran. Resta interessante notare come le proteste sono iniziate e paiono aver preso piede soprattutto nelle aree abitate storicamente da minoranze linguistiche e/o etniche e nelle zone provinciali al di fuori della capitale. Anche questo si inserisce in una dinamica più ampia, che riflette la storia di resistenza al regime delle aree periferiche del paese, nonché la distribuzione delle proteste negli ultimi 10 anni: sempre meno Teheran-centriche, paiono nascere e incardinarsi in realtà più piccole e provinciali.

Le proteste e il futuro

Queste proteste hanno grande importanza in un contesto come quello dell’Iran di oggi, con uno stato sempre più autoritario, un’economia a rotoli senza alcuna prospettiva di ripresa, l’incertezza per la successione a Khamenei, e una situazione internazionale delicatissima, tra le negoziazioni sul nucleare (di fatto, in una situazione di stallo, con quindi nessuna prospettiva per la fine delle sanzioni) e la necessità dell’alleanza con la Russia ma allo stesso tempo, la volontà dell’Iran di allontanarsi e differenziarsi da essa per essere visto dalla comunità internazionale come un’alternativa fonte di rifornimento di gas. La portata delle proteste è enorme perché potrebbe indicare un punto di rottura definitivo tra la classe politica e la popolazione. Il regime ha per anni arrestato, incarcerato, torturato o costretto all’esilio le attiviste e gli attivisti che chiedevano delle riforme graduali, e ora ne paga le conseguenze.