Testimonianza

Libano. Torna lo spettro della guerra civile

Sono molte le forze politiche libanesi – compreso i movimenti sciiti Hezbollah e Amal – che contestano le modalità con cui il procuratore Tareq Bitar sta conducendo l’inchiesta sull’esplosione nel porto di Beirut del 4 agosto 2020. Il giudice istruttore è diventato così il pretesto per lo scontro tra le forze sciite e i loro rivali del partito cristiano delle Forze Libanesi, facendo precipitare di nuovo il Libano nello spettro della guerra civile. Il reportage da Beirut.

Beirut, 14 ottobre 2021. Alcuni sostenitori di Hezbollah e del movimento Amal bruciano i ritratti del giudice Tareq Bitar e di Dorothy Shea, ambasciatrice statutinense in Libano, nei pressi del tribunale della capitale, durante una manifestazione per chiedere la destituzione del giudice.
Joseph Eid/AFP

È bastato del filo spinato a trasformare le uscite che collegano la rotonda di Tayouneh a Beirut alle strade che portano ai distretti di Chiyah e Aïn el-Remmaneh, da punti di ritrovo tra paesi vicini a trincee per combattenti. Intorno ai posti di blocco dell’esercito, creati all’indomani degli eventi di giovedì 14 ottobre 2021, la rete di filo spinato ha tracciato di nuovo la vecchia linea di demarcazione che i libanesi avevano conosciuto ai tempi della guerra civile (1975-1989), tra la regione di Chiyah, a maggioranza musulmana, e quella di Aïn el-Remmaneh, in prevalenza cristiana. È stato proprio qui che, nel 1975, una milizia delle falangi cristiane ha compiuto una strage aprendo il fuoco su un autobus che trasportava profughi palestinesi, dando così inizio alla guerra civile. Il tracciato di quel filo spinato era ormai solo un lontano ricordo, come dimostra l’insediamento di abitanti non cristiani ad Aïn el-Remmaneh nel corso dell’ultimo decennio. Ma gli eventi di quel giovedì nero sono stati cancellati nel giro di poche ore, ricordando ai libanesi che la guerra civile in realtà non è mai finita.

ALLIMPROVVISO, UNA PIOGGIA DI PROIETTILI

Giovedì, 14 ottobre 2021. Avevo quasi dimenticato che quella mattina ci sarebbe stata una manifestazione lungo il viale Sami el Solh nel quartiere di Badaro. Così una volta arrivata in fondo al viale, all’altezza della rotonda di Tayouneh, mi sono ritrovata faccia a faccia con i manifestanti, che si stavano dirigendo disarmati verso il tribunale di Beirut, per chiedere la rimozione dall’incarico del giudice Tareq Bitar, a capo dell’inchiesta sull’esplosione avvenuta il 4 agosto 2020 nel porto della città. Erano proprio i sostenitori del movimento Amal e di Hezbollah ad accusarlo di voler politicizzare l’inchiesta e di scegliere i suoi bersagli politici sulla base dei provvedimenti legali che sta emanando. Durante il percorso con i manifestanti, ho chiesto poi ad alcuni ragazzi quali fossero le loro motivazioni, mentre i dimostranti continuavano ad intonare slogan in onore dei leader dei due movimenti sciiti. Ma il corteo, una volta arrivato all’isolato che separa il viale Sami el Solh che porta al tribunale e la strada dove si trova la scuola dei Fratelli nel quartiere di Aïn el-Remmaneh, si è bloccato. Era chiaro che c’era stato un incidente una cinquantina di metri più avanti, a giudicare dai vasi di fiori lanciati dai balconi ai manifestanti. Solo più tardi ho saputo che c’erano state delle schermaglie tra i giovani di Aïn el-Remmaneh e alcuni manifestanti, durante le quali si erano scambiati i soliti insulti sui loro leader e sulle diverse religioni. Poi la situazione è degenerata: finestrini delle auto in frantumi, cariche e manganellate, anche un manifestante colpito da un proiettile. Infine, dei gas lacrimogeni hanno costretto i manifestanti a tornare indietro. Ho affrettato il passo per paura di essere schiacciata dal movimento della folla che tornava verso Tayouneh, quando all’improvviso ci è caduta addosso una pioggia di proiettili dai tetti degli edifici che si affacciano sulla rotonda, dalla parte del quartiere di Badaro. Lì ho visto un giovane cadere a terra. “È stato colpito alla testa!”, ha gridato qualcuno. Sfidando le raffiche di proiettili, un gruppetto si è precipitato per portarlo via di là, ma il ragazzo è morto sul colpo. La piazza e il viale si trovavano in campo aperto, rendendo molto facile ai cecchini il compito di prendere di mira le persone come in un poligono di tiro. Mi sono riparata dietro un fuoristrada, nella speranza che il sibilo dei proiettili cessasse per poter trovare riparo nell’edificio più vicino. Ma quando sono riuscita a farlo dopo una decina di minuti, ho visto una pozza di sangue e un paio di scarpe da ginnastica abbandonate, non lontano da dove mi trovavo.

L’ESERCITO SI FA ATTENDERE

Pochi minuti dopo, i manifestanti hanno lasciato il posto ad un gruppo di uomini armati venuti da Chiyah che hanno aperto il fuoco, tentando invano di raggiungere i tiratori scelti, che si diceva fossero appostati sui tetti. I manifestanti rifugiati con me in un edificio lì vicino si sono pentiti delle direttive impartite dai loro leader: niente armi né bandiere di partito. “Risultato: ci hanno sparato addosso come conigli”, si è lamentato uno di loro. “Scaramucce” non è di sicuro la parola giusta per descrivere quello che è successo in quella ventina di minuti. Un comunicato congiunto del ministero dell’Interno e dell’Esercito riportava che “dei tiratori scelti appostati sui tetti degli edifici avevano cominciato a prendere di mira i manifestanti con una pioggia di proiettili all’altezza di Tayouneh”. Eppure, l’esercito non ha più menzionato la presenza di cecchini, perfino nel rapporto poi diffuso dalla stampa il 29 ottobre. Sia io che i manifestanti abbiamo pensato di essere al sicuro prima di sentire gli scontri a fuoco – questa volta con un’arma automatica – alle nostre spalle, tra Aïn el-Remmaneh e Chiyah. Negli scontri avvenuti all’altezza della vecchia linea di demarcazione sono state invece adoperate armi medie come i lanciagranate e alcuni civili sono stati feriti. Dal canto suo, l’esercito ha impiegato un bel po’ di tempo prima d’intervenire, malgrado si trovasse non lontano da lì. I soldati erano infatti appostati all’altezza della rotonda, di fronte al commissariato, per non parlare della caserma, dell’ospedale militare e di altri reparti dell’esercito che distavano appena poche centinaia di metri dal luogo degli incidenti. A peggiorare le cose è stata la circolazione di alcuni video che mostravano un soldato sparare su un manifestante disarmato, uccidendolo sul colpo. Un comunicato dell’esercito ha poi ammesso l’accaduto, assicurando che sarebbe stata avviata un’indagine sul presunto responsabile. Alla fine, i militari sono intervenuti e, da quanto riferito, sono anche riusciti a fermare qualche cecchino. Il bilancio è stato di otto morti tra manifestanti e persone presenti sul posto, oltre ad un gran numero di feriti fra ambo gli schieramenti. Fonti mediche riferiscono che la maggior parte delle ferite da arma da fuoco sono state inferte all’altezza della testa e del torace. Cosa che rende ancor più evidente l’intenzione di uccidere.

DIVISIONI CONFESSIONALI

Tra i manifestanti si è presto diffusa la sensazione di essere caduti in un’imboscata, sensazione ancora più forte dopo i resoconti degli abitanti di fede musulmana dei distretti di Aïn el-Remmaneh e Furn el-Chebbak, entrambi a maggioranza cristiani, dove le Forze Libanesi (FL) godono di una certa popolarità. I musulmani riferiscono che, la sera prima, i loro vicini cristiani avevano consigliato di lasciare la zona, non per mandarli via, ma per proteggerli, perché avevano sentito dire che le FL avrebbero inviato dei miliziani, in particolare dalla loro roccaforte di Bsharre e di Merab: “Non sanno che siete nostri vicini da tanto. Temiamo il peggio, per cui è meglio che lasciate il quartiere, sarà solo una cosa temporanea”, così avevano detto i vicini. I musulmani hanno quindi accettato il consiglio e hanno lasciato le loro case, ricordando con questo gesto le tristi divisioni confessionali del tempo della guerra, destinate ad essere un ricordo del passato. Sui social sono stati pubblicati vari post per offrire un tetto a chi era stato costretto ad andare via… compreso i cristiani, scandalizzati per quanto era accaduto. Secondo un’inchiesta dell’esercito, le Forze Libanesi “avevano mobilitato uomini e armi” in vista della manifestazione di giovedì 14 ottobre. Il motivo principale delle manifestazioni è sempre il “sospetto” che ricade sul giudice Tareq Bitar, a causa di quella che è viene percepita come una “politicizzazione” del caso, soprattutto per quanto riguarda la scelta dei testimoni convocati, la mancanza di trasparenza sugli esiti dell’istruttoria tecnica, per non parlare dei vizi procedurali. Va anche detto che la giustizia libanese non è di certo nota per la sua indipendenza, ed è sempre uscita sconfitta di fronte alle pressioni politiche di ogni schieramento. Però è vero anche che è difficile separare le attuali tensioni dall’approssimarsi delle scadenze elettorali – legislative e presidenziali – previste nella primavera del 2022, e dal dibattito che ne è seguito sulla rappresentanza dei cristiani. La maggioranza parlamentare potrebbe uscirne indebolita e un nuovo presidente potrebbe prendere il posto di Michel Aoun. Un simile contesto pre-elettorale può infatti spiegare i motivi dell’escalation ad opera delle FL, che hanno voluto dipingersi come i maggiori difensori dei cristiani contro il duo sciita di Amal e Hezbollah, e del loro alleato cristiano, la Corrente Patriottica Libera (CPL), il partito del presidente della Repubblica. Una scommessa che non si è dimostrata errata, almeno nel breve termine, a giudicare dalle reazioni da parte dei cristiani, a seguito degli incidenti di giovedì 14 ottobre, e nonostante le Forze Libanesi siano ancora ben lontane dal potersi presentare come loro rappresentanti al posto della CPL. Tuttavia, i suoi sostenitori non nascondono la propria soddisfazione, intensificando il numero dei post in cui evocano il loro “orgoglio per la lezione che la nostra resistenza ha dato allo spauracchio iraniano [vale a dire Hezbollah], mettendo così a nudo la sua inconsistenza e tutelando il nostro territorio”. Si sono presi gioco anche della “sudditanza arancione [il colore della CPL] di fronte alle milizie iraniane”, augurando una pronta guarigione ai loro feriti e richiamandosi ad un’unità intorno alle “forze libanesi più forti”. Quanto al leader del partito Samir Geagea, anche lui ha seguito la stessa linea confermando che “l’obiettivo primario è quello di rovesciare l’attuale maggioranza, perché è questa che ha condotto il paese nella difficile situazione in cui versa oggi”.

FATE BENE I VOSTRI CONTI

La risposta del segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, non si è fatta attendere. Il 18 ottobre, ha alzato la voce e ha replicato ai cristiani libanesi in questi termini: “Le Forze [libanesi] sono il vostro nemico e il nemico di tutto il Libano […]. Il loro vero programma è la guerra civile che potrebbe avere un grande impatto demografico”. Nasrallah ha quindi raccomandato alle FL di “fare bene i [propri] conti e valutare tutte le scelte sbagliate fatte finora”.1.

Nasrallah ha poi commentato le parole di Geagea che si vantava, in privato, di disporre di 15.000 combattenti addestrati, dichiarando: “Questa è la prima volta che lo dico in pubblico: fate sapere che disponiamo di 100.000 combattenti, contando solo gli uomini”. Il commissario del governo presso il tribunale militare, il giudice Fadi Akiki, ha quindi convocato Samir Geagea presso il tribunale militare come testimone sul caso degli incidenti del 14 ottobre. Geagea ha dichiarato in un’intervista televisiva al canale MTV, vicino alle posizioni delle FL, che avrebbe accettato di comparire davanti al giudice, “a condizione però che Nasrallah sia ascoltato in udienza prima di me”, definendo Akiki “un commissario di Hezbollah”. Fonti ben informate sul corso delle indagini hanno riferito al quotidiano Al-Akhbar, ritenuto vicino a Hezbollah, che, benché membri appartenenti ad Hezbollah e al movimento Amal abbiano preso parte agli scontri del 14 ottobre,

le confessioni degli arrestati consentono di individuare chiaramente che dei gruppi armati appartenenti alle FL sono intervenuti ad Aïn el-Remmaneh e ad Achrafieh. […]. I vertici dei due movimenti sciiti si sono coordinati con l’esercito e i servizi segreti per preparare la manifestazione, mentre nulla di tutto ciò chiarisce, in particolare, se le FL stessero trasportando uomini armati a Beirut quella sera.

Sull’inchiesta relativa all’esplosione nel porto di Beirut, molti leader libanesi come il leader druso Walid Jumblatt, l’ex primo ministro Saad Hariri ed altre autorità religiose sciite, sunnite e maronite hanno espresso, in misura diversa, più di una riserva circa l’operato del procuratore Tareq Bitar. Molti gli rimproverano una certa “indulgenza” verso l’esercito e i servizi segreti, considerando che l’esercito è il principale responsabile dello stoccaggio di nitrato di ammonio all’interno del porto e che ne aveva sottovalutato la pericolosità. Bitar sembra minimizzare le responsabilità dei giudici, dal momento che era necessario il loro parere favorevole per poter scaricare la nave e stoccare il nitrato di ammonio all’interno del porto. Al contrario, il magistrato ha pensato di convocare prontamente alcune personalità vicine alla maggioranza politica, senza scomodare né gli attuali vertici militari (cioè il capo dell’esercito e i servizi segreti) né quelli di Hezbollah. Paradossalmente, è proprio Hezbollah ad essere in prima linea nell’opposizione a Bitar… ma per altri motivi.

I TIMORI DI HEZBOLLAH

Bitar è stato nominato procuratore a capo dell’inchiesta sull’esplosione nel porto di Beirut nel febbraio 2021, prendendo il posto del giudice Fadi Sawan, sospeso a seguito di un ricorso per “legittimo sospetto” circa la sua imparzialità, il tutto dopo aver chiesto di interrogare l’ex primo ministro Hassan Diab e altri tre ex ministri. Eppure, Bitar ha continuato sulla stessa scia convocando diverse figure politiche, come l’ex ministro degli Interni Nohad Machnouk (Movimento Futuro), l’ex ministro dei Lavori Pubblici e dei Trasporti Ghazi Zeaïter (Amal) o l’ex ministro delle Finanze Ali Hassan Khalil (Amal), senza dimenticare l’ex ministro Youssef Fenianos del Movimento al-Marada di Suleiman Frangieh. Sono stati convocati anche alcuni funzionari della sicurezza, come il direttore generale della sicurezza dello Stato, il generale Tony Saliba, noto per essere vicino a CPL, e soprattutto il direttore della sicurezza generale Abbas Ibrahim. Quando il nuovo ministro dell’Interno si è rifiutato di dare il consenso ad avviare un’indagine su Ibrahim, Bitar ha scritto alla Corte Suprema della Corte di Cassazione per chiederne l’arbitrato. Ha quindi emesso un mandato di cattura nei confronti di Ali Hassan Khalil quando quest’ultimo si è rifiutato di rispondere alla convocazione del giudice, approfittando, in assenza di sessioni parlamentari, della sospensione dell’immunità parlamentare dell’ex ministro. Tuttavia, sono stati in molti i giudici che hanno ritenuto illegale tale misura. Inoltre, Bitar ha convocato anche l’ex primo ministro Hassan Diab per un’udienza il 28 ottobre prima di sospendere il procedimento. Il giorno prima, l’ex premier aveva fatto causa allo Stato libanese, accusando il giudice di aver violato la Costituzione che sancisce che presidenti e ministri debbano essere giudicati da un’alta corte costituita dal Parlamento, e non dinanzi alla giustizia penale. Anche il segretario generale di Hezbollah aveva espresso, molto prima dei fatti di Tayouneh, le sue riserve circa l’operato del giudice Bitar, in particolare modo per la sua insistenza nel focalizzare l’attenzione sui responsabili della grave negligenza nello stoccaggio del nitrato di ammonio, nonostante ancora oggi non abbia reso noto l’esito dell’inchiesta tecnica che doveva chiarire come erano entrate quelle quantità di nitrato nel porto di Beirut, chi ne era responsabile o com’era avvenuta l’esplosione. Le risposte a tali interrogativi diventano tanto più essenziali quanto più risultano contraddittorie le spiegazioni date finora. Alcuni analisti sostengono che Hezbollah tema che tutto questo trambusto porti a trascurare questioni che considera essenziali. A loro avviso, il partito teme che questa mancanza di trasparenza possa essere utilizzata per “montare” accuse a suo carico o dei suoi alleati proprio alla vigilia delle elezioni presidenziali e legislative, sulla falsariga di quanto è già accaduto nel 2005 dopo l’assassinio di Rafik Hariri, con l’arresto di quattro alti funzionari della sicurezza poi assolti e la caduta della maggioranza parlamentare.

1Si riferisce all’alleanza delle FL, il braccio armato del partito delle Falangi cristiane, responsabile del massacro di Aïn el-Remmaneh all’origine della guerra civile, con Israele, sia prima che dopo l’invasione israeliana di Beirut nel 1982, così come è attestata la loro responsabilità nei massacri di Sabra e Chatila. Si veda Amnon Kapeliouk, Sabra e Chatila. Inchiesta su un massacro, trad. it. di Giancarlo Paciello, CRT, Milano, 2002.