È la notte tra il 7 e l’8 Maggio 1958 quando, poco prima dell’alba, il giornalista Nasib al-Metni, fondatore e caporedattore del quotidiano al-Telegraph, viene intercettato da ignoti nel breve tratto di strada che separa la redazione appena lasciata dal suo appartamento, e ucciso a freddo con diversi colpi di pistola. Non appena la notizia si diffonde, sia dentro che fuori dai confini libanesi, la certezza che si tratti di un omicidio politico è pressoché unanime. Penna affilata di orientamento filo-nasseriano, infatti, Nasib al-Metni rappresentava notoriamente una delle voci di opposizione più forti e autorevoli alle politiche autoritarie, nepotistiche e filo-occidentali portate avanti dal presidente della repubblica uscente Camille Chamoun, nei confronti delle quali le critiche ferme e mai lesinate dalle colonne del suo giornale gli erano già costate una carcerazione e, solo pochi mesi prima, un’aggressione intimidatoria.
A dare ulteriore sostanza all’ipotesi ci sono poi le modalità marziali dell’assassinio e le lettere minatorie ritrovate nelle sue tasche al momento dell’ispezione del cadavere, che parimenti gli intimavano nero su bianco di mettere fine, pena la vita, agli attacchi all’indirizzo del presidente. Infine, c’è il contesto politico teso, repressivo e polarizzato in cui versa il paese ormai da mesi, e che, sulla base del quadro indiziario, vedrà nell’omicidio l’ultimo incontrovertibile atto autocratico di un presidente soggiogato alla sua sete di potere e all’imperialismo statunitense, o, dal fronte fedele al presidente Chamoun, l’ennesimo, sporco tentativo di destabilizzazione orchestrato dall’asse Cairo-Damasco per gettare definitivamente il paese nel caos e trascinarlo nell’orbita socialista. Quello che non arriverà mai sarà invece una verità giudiziaria a mettere un punto fermo sulle dinamiche e le paternità della vicenda, lasciando così campo libero affinché nei decenni successivi la sua morte possa continuare a essere ripresa, reinterpretata e fatta storia in funzione delle posizionalità, delle contingenze e delle teleologie che di volta in volta determinano l’articolarsi del presente e le sue narrazioni.
L’assassinio politico come prassi
Sebbene l’omicidio di Nasib al-Metni sia stato spesso assunto come ‘caso zero’ dell’emergenza dell’assassinio politico e della sua impunità sistemica come grande forza motrice dello sviluppo storico del Libano contemporaneo, quando il fatto avviene, l’esecuzione sommaria degli oppositori politici è ancora un fatto episodico, un evento eccezionale figlio di circostanze eccezionali, la cui mancata ricerca della verità si inscrive e si disperde nel realismo imposto dalla congiuntura della breve guerra civile del 1958 (la cosiddetta Rivoluzione dei Pasha), e dalle esigenze di pacificazione che ne seguiranno.
A fare da primo spartiacque è piuttosto la guerra civile del 1975-1990, il cui lungo quindicennio di «politica con altri mezzi» vedrà presto l’omicidio mirato di giornalisti, intellettuali, diplomatici, figure politiche e uomini di religione farsi parte integrante delle pratiche e delle politiche di warfare messe in atto dalle fazioni in campo. Le finalità, le ragioni e le genealogie che disegnano sono le più disparate. In alcuni casi si tratta di assassinii grandi, eclatanti, isolati, come quello di Bachir Gemayel(14 Settembre 1982), leader carismatico delle Falangi e del Fronte Libanese, fatto saltare in aria a pochi giorni dalla sua elezione a presidente della repubblica dal giovane Habib Chartouni, militante del Partito Socialista Nazionalista Siriano "per colpire dalla testa il collaborazionismo [con Israele, n.d.a.]". Più spesso, si tratta di assassinii consumati nell’ambito di lotte per la conquista di egemonie confessionali o territoriali, come il massacro di Ehdentra le fila maronite (1978) e la “Guerra dei Fratelli” tra gli sciiti AMAL ed Hezbollah (1988), oppure la lotta per il controllo di Beirut Ovest ingaggiata da AMAL contro il Movimento Nazionale Libanese (1986-1987) che, sullo sfondo della “Guerra dei Campi” (1985-1987), porterà via tra i membri più influenti della dirigenza e dell’intellighenzia del Partito Comunista Libanese, come Mahdi Amel, Hussein Mroueh e Suheil Tawileh. Ce ne sono poi di più o meno rumorosi che parlano il linguaggio della rappresaglia e del messaggio simbolico, come l’assassinio Salim al-Lawzi, giornalista ed editore del quotidiano conservatore al-Hawadeth, rapito, torturato e poi fatto ritrovare, come monito macabro, con la mano destra corrosa dall’acido, solo tre mesi prima dell’assassinio del presidente del Sindacato dei Giornalisti Riad Taha.
Altri ancora portano invece il riverbero di conflitti regionali, come la lunga stringa di omicidi all’indirizzo di militanti del Ba’th iracheno e di figure politiche e religiose legate al neonato regime degli ayatollah del biennio 1980-1981. Infine, c’è il cruentissimo e caotico colpo di coda del biennio di transizione post-Taif (1989-1991),1 la cui sovrapposizione di battaglie finali per mantenere o sovvertire gli equilibri di potere costruiti nel corso del conflitto si risolveranno in una lunga catena di assassinii di figure politiche di peso, tra le quali il Gran Mufti sunnita Shaikh Hassan Khalid, il leader maronita Dory Chamoun e il neoeletto presidente della repubblica René Moawad.
Saranno in tutto almeno settanta, destinati però a diventare presto poco più che santini senza giustizia nelle martirologie di partito o di categoria, in nome o per colpa delle pragmatiche dell’oblio su cui verrà strutturalmente – e strumentalmente – costruito l’ordine politico post-Taif. La prima è l’oblio dell’amnistia, che nel 1991 consentirà ai leader miliziani usciti dal conflitto in una posizione di forza di convertirsi agevolmente in partiti politici e ricapitalizzare nello stato il potere acquisito con le armi, al prezzo amaro della verità e della giustizia per gli oltre 17.000 desaparecidos, gli almeno 100.000 morti, e gli innumerevoli massacri perpetrati nel corso del conflitto. La seconda è l’oblio delle ruspe della ricostruzione neoliberale promossa del Primo Ministro-imprenditore Rafic Hariri, che ammutolirà, sotto chilometri e chilometri quadrati di edilizia di lusso, una parte sostanziale della memoria urbana del conflitto e delle vestigia della Beirut sopravvissuta.
La terza è l’oblio dell’opportunismo, in virtù del quale i partiti della seconda repubblica preferiranno abbozzare, sminuire, e glissare sui tumultuosi rapporti passati per legittimare (o poter delegittimare, in caso di necessità) riavvicinamenti, strizzate d’occhio, alleanze. È un oblio che serve direttamente anche la Siria, alla quale la comunità internazionale consegnerà il ruolo, fattosi presto occupazione, di controllore assoluto degli affari libanesi per i successivi quindici anni, nonostante lo spettro ingombrante della lunga catena di sospette eliminazioni perpetrate nel corso dei suoi quattordici anni di intervento diretto nel conflitto, a cominciare dall’assassinio del leader druso e figura apicale del Movimento Nazionale Libanese Kamal Jumblatt nel 1977. Infine, c’è l’oblio della propaganda, che vedrà le medesime élites approfittare del buco nero sapientemente costruito per plasmare le memorie comunitarie della guerra funzionalmente alle proprie ambizioni egemoniche.
Il fallimento del Tribunale Speciale per il Libano
Nonostante il memoricidio sistematico della guerra e dei suoi fantasmi, nei quindici anni della cosiddetta pax syriana, l’assassinio politico torna molte volte a scuotere la vita pubblica libanese. Nel 1992, un elicottero israeliano, il cui esercito occupa ancora il Sud del Libano, uccide il segretario generale di Hezbollah Sayyed Abbas Musawi, seguito due anni dopo da Fuad Mughniyeh, fratello dal capo della sicurezza del partito Imad, per mezzo di un’autobomba da parte dello stesso mittente. Nel 1995 tocca invece a shaykh Nizar al-Halabi, presidente dell’organizzazione sunnita sufi al-Ahbash, crivellato a colpi di mitra davanti alla sua abitazione da membri del gruppo qaedista ’Asbat al-Ansar. Infine, nel solo 2002, vengono uccisi in tre attentati consecutiviil controverso ex-leader delle Forze Libanesi Elias Hobeika e i due ex-membri Jean Ghanem e Mikhael Nassar, tutti e tre strettamente legati al terribile massacro di Sabra e Chatila con cui la milizia, in coordinazione con Israele, aveva risposto all’assassinio di Gemayel; Jihad Jibril, figlio del responsabile delle operazioni militari del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina – Comando Generale Ahmad; e Ramzi Irani, militante delle Forze Libanesi, ucciso dopo essere stato misteriosamente rapito e torturato.
È tuttavia con l’assassinio dell’ex primo ministro Rafic Hariri, e la lunga scia di sangue ad esso collegata, che il paradigma dell’assassinio e dell’impunità come destini ineluttabili del paese al contempo si consolida e si ridefinisce.
Rafic Hariri viene ucciso la mattina il 14 febbraio 2005 da 1800 kg di TNT fatti esplodere al passaggio del suo convoglio nei pressi dell’Hotel Saint George, vicino al mare, nel centro di Beirut. È un’esplosione mai vista, maestosa, plateale, che viene percepita fino a Cipro. Il bilancio totale è di ventidue morti, fatto per lo più da passanti e membri della scorta, e oltre duecento feriti. La reazione che questa volta si scatena, è dirompente. Reputando Damasco il mandante dell’assassinio, una fetta consistente di società civile insorge, chiedendo a gran voce la fine di un’occupazione percepita ormai – soprattutto dopo il ritiro di Israele dal Sud del Libano nel 2000 – come priva di qualsiasi legittimità residuale. Nel frattempo, sulla scorta dei nuovi equilibri internazionali definiti dalla «guerra al terrore» post-11 settembre che collocano la Siria sul fronte degli ‘stati canaglia’, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite istituisce per la prima volta nella sua storia una commissione investigativa per fare chiarezza sulla dinamica dell’accaduto che di lì a poco, seppur non senza difficoltà, prenderà la forma più strutturata del Tribunale Speciale per il Libano.
Il vento sembra finalmente cambiare il 5 Marzo, quando il presidente siriano Bashar al-Asad, schiacciato dal fuoco incrociato della piazza e delle cancellerie, annuncia con in discorso televisivo il ritiro progressivo delle sue truppe dal territorio libanese. È un entusiasmo, tuttavia, destinato a durare poco. Un mese dopo la dipartita dell’ultimo contingente, una nuova serie di assassinii mirati inizia ad abbattersi inesorabile su figure di spicco del fronte anti-siriano. È una catena lunga, inanellata di autobomba in autobomba, e che di autobomba in autobomba assume presto i contorni di vera e propria strategia del terrore finalizzata a orientare la direzione del processo di transizione aperto il 5 Marzo. Il primo a cadere è lo storico, giornalista e deputato di sinistra Samir Kassir, seguito a stretto giro l’ex segretario del Partito Comunista Georges Hawi, e dal giornalista Gibran Tueini, direttore del quotidiano al-Nahar su cui lo stesso Kassir scriveva, e che, seppur da posizioni ideologiche diverse, aveva rappresentato insieme al collega una delle voci più influenti dell’Intifada dell’Indipendenza. La giostra riprende subito dopo lo stop della guerra di Luglio con gli assassinii dei deputati Pierre Gemayel Junior e Walid Eido a ridosso dei due momenti critici della ratifica parlamentare dell’istituzione del Tribunale Speciale per Libano e delle elezioni presidenziali. La catena si interrompe eloquentemente nel maggio 2008, quando gli Accordi di Doha, in un gioco a somma zero, stabiliranno definitivamente i parametri di ripartizione del potere politico per gli anni a venire tra blocco anti-siriano e blocco fedele a Damasco in cui il paese nel frattempo si polarizza, mettendo così un punto definitivo alle utopie liberali che avevano animato le speranze del 2005.
In maniera altrettanto eloquente, l’ultimo a cadere prima degli Accordi era stato il capitano Wissam Eid, il cui minuzioso lavoro di inchiesta sull’assassinio Hariri, stava facendo importanti passi avanti nel ricostruire una rete di persone coinvolte riconducibili a Hezbollah. È un assassinio che già allora preconizza la bolla di saponein cui, nell’agosto 2020, si è andata a chiudere l’epopea parallela del Tribunale Speciale per il Libano, il quale, tra limitazioni giurisdizionali, depistaggi, e pressioni politiche, pur riuscendo a mettere insieme una mole consistente di prove e indizi riconducibili al Partito di Dio, fallirà a dimostrarne una colpevolezza “oltre ogni ragionevole dubbio”. Questo farà sì che la teoria del complotto ai danni dell’Asse della Resistenza da sempre pervicacemente opposta da Hezbollah e Damasco ai vari accusatori possa ritrovare nuova legittimità. Soprattutto, il verdetto consentirà alla trasposizione progressiva del «regime di esistenza» dell’assassinio politico dal campo passivo dell’oblio quello attivo della propaganda che nel frattempo si consuma, di farsi norma e continuare a piegare selettivamente contesti, i significati, e finanche le biografie delle vittime passate – e che, purtroppo, ancora verranno – in funzione dell’una o l’altra narrazione identitaria.
Il fantasma degli assassinii passati
Il gioco – seppur logoro – delle teleologie contrapposte non ha risparmiato nemmeno Lokman Slim.
Intellettuale pubblico e voce critica tra le più stimate della società civile libanese, Lokman Slim viene ritrovato crivellato con cinque colpi di pistola, quattro alla schiena e una alla testa, nella sua auto in una località del Sud del Libano dopo che, la sera prima, ne era stata segnalata la scomparsa.
Infaticabile militante della memoria, infatti, Lokman Slim aveva fatto della lotta alla cultura dell’amnesia, dell’impunità, e della violenza sistemica del Libano post-1975 un impegno politico totale. Lo aveva fatto innanzitutto da genealogista, da chi con perizia, fatica e dedizione aveva assemblato e archiviato pezzetto per pezzetto i desaparecidos e delle fosse comuni della guerra civile, delle innumerevoli autobombe, dei tentativi di assassinio falliti e di quelli riusciti, delle torture e degli abusi consumati nelle prigioni della regione, per strapparle all’oblio e reinserirle nel loro contesto contro «il dispiegamento metastorico dei significati ideali e delle indefinite teleologie» con cui, troppo spesso, la storia del Libano è stata scritta. Lo aveva fatto da liberale eclettico e radicale quale era, il cui incessante lavoro critico sul passato era profondamente radicato nel presente, nella ferma convinzione che nessuna pace e nessuno stato di diritto potesse mai essere conquistato senza un genuino processo di riconciliazione. Ed è sempre da questa sua postura, prima ancora che da quella di sciita laico, che prendono le mosse le critiche ferme e le tante iniziative per creare un’alternativa civica e secolare dentro la comunità che Slim aveva ingaggiato negli anni contro Hezbollah, le quali, con molta probabilità, ne hanno anche firmato la condanna a morte.
Chi, nel profluvio di analisi, commenti e messaggi di cordoglio dal 4 febbraio si sono susseguiti, ha ridotto l’identità di Slim a quella di mero “sciita anti-Hezbollah” in funzione della collocazione geopolitica del suo probabile carnefice, nei suoi confronti ha commesso tre torti. Il primo, di non aver reso giustizia all’ampiezza straordinaria della sua personalità e del suo attivismo politico e culturale. Il secondo, di averne fatto post mortem ciò che più strenuamente aveva combattuto in vita. Il terzo di aver perso un’occasione per ingaggiare una discussione critica sulla cappa repressiva che dopo la Rivolta del 17 Ottobre 2019, e ancor più dopo l’esplosione del porto il 4 agosto 2020, si è alzata pericolosamente sul paese e sulle dimensioni della crisi di legittimità che pian piano molti osservatori hanno segnalato farsi stradatra le fila del partito di Dio.
Affinché ciò non accada mai più, Lokman Slim lascia una grande comunità di attivisti determinati a continuarne il lavoro e a far sì che il silenzio e l’impunità non smettano mai di essere resistite. A noi studiosi lascia il tesoro dell’UMAMe la sfida, che in questo articolo abbiamo cercato in piccolo di cogliere, di non farne un mausoleo.
1Con “Accordi di Taif” si indica convenzionalmente il Documento di Riconciliazione Nazionale firmato il 23 Ottobre 1989 nell’omonima città saudita dai superstiti dell’ultimo parlamento libanese eletto, in cui vennero fissati i termini e le condizioni per la fine delle ostilità.