Poesia

Mahmud Darwish. “La storia è un diario d’armi scritto sopra i nostri corpi”

La saggezza del condannato a morte e altre poesie è l’ultima raccolta di Mahmud Darwish, considerato da Josè Saramago uno dei maggiori poeti del Novecento. La miscellanea, che include i testi di ogni fase del suo vissuto poetico, è un’introduzione all’opera dello scrittore palestinese che nasce dalla catastrofe e dalle ferite della Storia. Una lunga memoria dell’esilio come atto poetico e politico di resistenza di fronte a una realtà storica in cui libertà individuale e liberazione collettiva sono ancora da raggiungere.

Mahmud Darwish on Bethlehem Barrier Wall
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La saggezza del condannato a morte e altre poesie è l’ultima raccolta poetica del grande scrittore palestinese Mahmud Darwish pubblicata in lingua italiana, che include una selezione di testi di ogni fase del suo vissuto, tenendo insieme le lettere sulla libertà e l’amore per la Palestina (“la terra più amata”) fino alle domande esistenziali e alla riflessione sulla condizione dell’esilio. Il volume, curato e tradotto dal poeta italo-siriano Tareq Aljabr, in collaborazione con Sana Darghmouni, docente di arabo all’Università di Bologna, e riadattato dal poeta Emiliano Cribari, è composto da ventotto poesie, nove per ciascuno dei tre nuclei tematici: l’amore, l’io e la patria.

L’esperienza poetica di Darwish nasce dall’ossessione di dire la perdita delle origini, di trovare parole e senso allo sradicamento, all’esilio senza ritorno, ai limiti che la Storia ha imposto all’esistenza individuale del poeta e di un intero popolo. Essere voce della propria esperienza esistenziale attraverso l’esperienza estetica, ma anche dar voce “a chi ha perso il diritto di parlare”1.

Dimenticata dalla Storia e oscurata ancora oggi dai media, la catastrofe dei palestinesi diventa memoria e poetica nell’opera del poeta. Spesso evocata attraverso il ricorso al sogno, per Darwish la catastrofe dei palestinesi può diventare ricordo e parola solo attraverso i segni che la Storia (“un diario d’armi”) scrive sui corpi e sul corpo del poeta esule/esiliato. Il corpo come identità negata, luogo della nuda verità, privato di ogni diritto e ridotto – per usare la terminologia di Agamben – a homo sacer condannato alla vita nuda, dove “l’iscrizione corporea assurge a luogo di memoria traumatica”2 che rimanda sempre al trauma della perdita della terra amata.

“L’esilio non è un soggiornare nella nostalgia”

Senza mai perdere di vista la ricerca formale, le cadenze e i canoni estetici della poesia in lingua araba, Darwish fa della sua doppia condizione di esule/esiliato il punto di partenza di una dolorosa riflessione sul suo destino esistenziale e su quello collettivo di un intero popolo. L’esilio non è un viaggio, né tantomeno “un soggiornare nella nostalgia”3, ma “una sorte tristissima”4 che Darwish porta da sempre iscritta sul corpo.

La biografia di Darwish è segnata dall’esilio e dalla peregrinazione: dal villaggio di al-Birwa dov’era nato il 13 marzo del 1941, a Beirut, passando per Mosca, il Cairo, Tunisi e Parigi prima di far ritorno, dopo 26 anni di esilio, a Ramallah (“Sono venuto ma non sono arrivato/ sono giunto ma non sono tornato”). Morirà all’età di 67 anni a Houston, in Texas, il 9 agosto 2008, per le complicanze di un delicato intervento al cuore. In tutti questi spostamenti, lo scrittore palestinese studierà la lingua ebraica (“la prima lingua straniera che ho imparato, all’età di dieci o dodici anni”) e si dedicherà alla poesia, trasformandola in una “patria” per il popolo palestinese apolide. Tutti luoghi che costituiranno le tappe del vissuto del poeta, una geografia legata agli odori perché ogni odore “è memoria, è tramonto” che diventa per sempre traccia indelebile.

“Le città sono odori. Acri è l’odore di iodio e di spezie. Haifa, l’odore di pini e lenzuola sgualcite. Mosca, l’odore di vodka con ghiaccio. Il Cairo, l’odore di mango e zenzero. Beirut, l’odore di sole, di mare, di fumo e limone. Parigi, l’odore di pane fresco, di formaggi e articoli di seduzione. Damasco, l’odore di gelsomino e frutta secca. Tunisi, l’odore di muschio notturno e di sale. Rabat, l’odore di henné, d’incenso e di miele”5.

Darwish scrive di appartenere alla generazione di coloro hanno attribuito ai genitori la responsabilità dell’esilio. Durante la Nakba (1948), infatti, la famiglia del poeta per sfuggire alla guerra, aveva cercato riparo in Libano. Al rientro, dopo appena un anno, il loro villaggio era stato raso al suolo e la loro terra d’origine diventata ormai parte dello Stato di Israele. Quel ritorno coincide con l’inedita condizione di straniero nella propria terra, “alieno” o “ospite illegale” con cui Darwish – ma vale per ogni palestinese – deve imparare a convivere, misurandosi con il senso di frammentazione e di perdita derivati della frattura della diaspora. Nel 1970, dopo vari arresti e una condanna aver recitato poesie «sovversive» in pubblico, il poeta abbandona definitivamente la Palestina, scegliendo la condizione di esule/esiliato che scandirà per sempre il ricordo della terra perduta. Da allora sarà come vivere “sotto assedio”, mentre la scrittura si fa testimonianza di quest’assedio quotidiano. Una continua ricerca di senso nel presente, che interroga il passato dai margini, dalla condizione di sradicato, di esule, di sans-papiers. Una sofferenza dispiegata “a partire dalla frattura causata dalla Nakba”6.

L’esilio diventa così un atto politico, una forma di resistenza nel suo continuo oscillare tra presenza e assenza, tra memoria del passato (la Storia) e un presente fatto di luoghi (la geografia), ma anche di odori, profumi come tracce di un mondo perduto che riporta la mente indietro nel tempo. La nostalgia sottrae così al momento, al presente, all’istante vissuto, e d’improvviso un profumo diventa un ricordo lontanissimo. Per l’esule l’odore del caffè è il ritrovare le origini, la geografia perduta, per “riconnettersi con le proprie origini, per affermare la propria identità"7.

“Il caffè è un luogo [...] Il caffè è geografia8.

Ma l’esilio è anche un esilio del sé, un essere sempre fuori posto, fuori luogo, una condizione che Edward W. Said definiva un essere “sempre nel posto sbagliato”. Ancora i segni, le ferite sul corpo, un rifiuto che si porta iscritto, nella vita ma anche nell’amore, che fa vivere una condizione di eterni stranieri sulla Terra, strappati al tempo in qualunque luogo.

Sempre nel posto sbagliato

“È possibile conoscere davvero l’universo di un poeta attraverso una selezione delle sue poesie? È possibile comprendere il suo mondo attraverso un’antologia per giunta tradotta?”9. Questa è la domanda che si pone Mahmud Darwish nella prefazione a una sua antologia poetica. La scommessa è quella che compie il traduttore, che non è un semplice passeur, un traghettatore da una lingua all’altra, ma è colui che ricompone ogni volta una nuova trama alle parole. Una dualità, quella tra autore e traduttore, un rapporto ambivalente di fiducia e tradimento, in un continuo dialogo alla ricerca dell’immensa varietà dell’esperienza poetica, rimanendo sempre in ascolto di un’altra lingua. La traduzione poetica è sempre, nelle parole di Darwish, “un’ombra dietro le parole”, annuncia e non maschera la distanza tra le due lingue.

La raccolta non si presenta come una semplice traduzione, ma una forma ibrida fra traduzione e interpretazione, provando a trovare una modalità nuova che mantenga la ricercatezza, la musicalità lirica e “il carattere orale di alcune poesie nate per essere recitate, cantate in lingua araba”, come scrive il traduttore e curatore Tareq Aljabr.

Darwish ibrida la forma poetica, ricorrendo al dialogo, al copione teatrale, ai flashback temporali. È una poesia fortemente radicata nella sua realtà storica (“la poesia è un mito che ha creato una realtà”), “che viene dal Sud”, una poesia in prosa, fortemente ritmica grazie a ripetizioni ostinate, che in questa traduzione vengono adeguate con continue variazioni, grazie alle allitterazioni oltre che al frequente ricorso all’anafora. Quella di Darwish è quindi una poesia lirica, che coniuga il ritmo e la forma epica in un continuo dialogo umano tra culture, ma anche con gli autori “occidentali” più vicini da Lorca a Neruda, da René Char a T.S. Eliot fino a Dereck Walcott. Nella sua produzione poetica sono frequenti anche le discontinuità, i punti di rottura in cui Darwish riscrive il proprio percorso, “demolendo ogni volta la raccolta precedente” per far emergere ciò che prima sembrava marginale e secondario, ripartendo sempre da quel nucleo originario che nasce dalla domanda sul “primitivo senso dell’ignoto”.

“Lei non ama te/ama la metafora in te”

Nella prima sezione della raccolta troviamo le poesie dedicate all’amore. Figure di amanti che dialogano tra loro. Una dualità impossibile da tenere unita, ma sempre in costante dialogo. “Il tuo corpo è un porto, /come fa dunque la terra a indurmi a errare/ sulla terra/ e come fa un sogno a dormire?” . Il corpo come approdo, “santuario”, “la tua terra sulla terra” recita l’amata. Il dialogo tra gli amanti continua anche nel sogno (“Sai benissimo che il tempo non si applica al sogno”), in quella che Darwish aveva definito “la pazienza della distanza”. Anche tra gli amanti c’è il dilemma dell’identità, della diversità e dell’estraneità. Lo spazio fisico diventa un luogo dell’assenza, del dialogo impossibile tra amanti, “un vissuto contro un altro vissuto”. Al passato dell’esule e al presente dell’esiliato, si contrappone il potere del sogno. Sarà forse possibile sognare diversamente in futuro?


Dormi perché io possa seguire il tuo sogno.
Dormi perché il mio passato sfugga a ciò che temi.
Dormi perché io ti dimentichi.

O ancora, quando i due amanti tentano di proteggere i loro sogni:


Entriamo nel sogno ma lui rallenta
per non farsi osservare
Quando il mio amato dorme
io mi sveglio per proteggere i suoi sogni.

Una dualità in cui c’è sempre l’Altro, la straniera (“Non abbiamo nome, straniera”) a cui Darwish fa riferimento, in molte poesie, con la figura di Rita, dietro cui si cela una poetessa israeliana da lui amata. In quest’alterità, l’Io del poeta si rappresenta scisso, diviso in due, in questo dialogo impossibile tra due culture, due lingue, due popoli, due diaspore, tra desiderio e costrizione. Rita rappresenta soprattutto un’immagine di donna, è il simbolo della eterna contrapposizione fra l’amore e la guerra.


Tra Rita e i miei occhi un fucile [...]
Rita, prima di questo fucile,
cosa avrebbe potuto distogliere i miei occhi dai tuoi?
Se non il sonno ristoratore e due nuvole di mille? [...]
La città spazzò via tutti i bardi e anche Rita.

“D’ora in poi, tu sei un altro”

La seconda sezione è costruita intorno al tema dell’Io, dell’identità, che è uno dei temi centrali della poetica di Mahmud Darwish. La Palestina è la metafora della condizione contemporanea dell’esule, dello straniero senza una terra, di chi è privo di documenti che dicano la sua identità. “Chi sono? È un problema degli altri”. Sono arabo/Carta d’identità numero cinquantamila. L’identità non è quella della propria carta d’identità, ma è finzione e maschera. “Ho trovato una maschera e sono stato tentato/di essere il mio altro. Non avevo trent’anni, pensavo che/ le parole fossero i confini dell’esistenza”. L’identità coincide con il linguaggio. Per citare una famosa frase di Wittgenstein, “i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”. E allora è nelle possibilità infinite della lingua che il poeta indica un modo di rifondare il proprio mondo perduto. La parola riacquista senso, si fa memoria, ricordo, strappando all’oblio e al silenzio, sempre in agguato, il mondo di chi vive ai margini, esule nella sua stessa terra.


Ho la saggezza del condannato a morte
non ho cose da possedere
né posso esserne posseduto

La voce poetica sceglie una rappresentazione fittizia dell’Io, un suo doppio narrativo che, al di là di ogni artificio, deve dire il vero, ma in maniera dialettica. Non c’è luogo né tempo/ Io chi sono . È solo in un dialogo continuo, aperto che si fonda la possibilità di dire “io”. E quell’Io è fondato sulla lingua, su cui Darwish ha costruito il sogno della sua “patria”. E la patria coincide con le parole, con la lingua. Il nostro è un paese di parole. Il progetto estetico-letterario consiste nel trasformare “la propria lingua nella patria cancellata”10. Qui i motivi dell’autobiografia dialogano e si intrecciano con gli eventi storici e politici del popolo palestinese.


Io sono il mio stesso sogno.
Nei miei sogni sono la madre di mia madre,
il padre di mio padre
e sono anche mio figlio.

È la lingua la terra dell’Io in esilio. Nella solitudine e nell’estraneità che non abbandona mai l’esule, ovunque si trovi. I temi che ricorrono nella poesia sono coppie di opposti: guerra/ pace, giustizia/ ingiustizia, identità/ estraneità, cultura/ barbarie, sempre letti attraverso il filtro della memoria. Il poeta invita così gli ebrei, gli “erranti tra le parole transitorie” a lasciare “le parole della memoria”.


Qui abbiamo il passato
La prima voce della vita,
l’attimo, il presente, il futuro,
questo mondo e l’aldilà.
Lasciate la nostra terra
La nostra terraferma. Il nostro mare,
il nostro grano, il nostro sale,
la nostra ferita e ogni cosa.

“La storia è un diario d’armi scritto sopra i nostri corpi”

La terza sezione raccoglie le poesie sul tema della patria in una dimensione storica più ampia. Anche qui è impossibile scindere il messaggio poetico e politico di Mahmud Darwish dal tema dell’esilio. L’azione poetica è salvezza ed esilio: la poesia è una patria, ma non sostituisce la vera patria. La poesia e la scrittura diventano allora memoria, tracce di resistenza contro l’annullamento imposto dalla narrazione dei vincitori. La propria terra diventa simbolo, metafora di tutta la condizione umana, e così nel tempo Darwish abbandona la scrittura realistica e si orienta verso una forma di riflessione metafisica, ricorrendo spesso al linguaggio onirico. La Palestina assume quasi una funzione metastorica, una sorta di “Paradiso perduto”, fino all’anno dell’espulsione di ebrei e arabi dopo la Reconquista dell’Andalusia nel 1492.

“La nostra storia è stata sospesa. Il nostro passato, per così dire, è proprietà dell’altro, e sta a noi tornare ad esso e connetterci ad esso”. È necessario ricordare ogni luogo, ogni paesaggio, ogni profumo per la memoria di un intero popolo, come lasciare ogni ricordo inciso sulla pietra, anzi pietra su pietra (“parla perché io appoggi il mio cammino su una pietra vera”). Chi ha il potere di ricordare può ancora essere libero.

“Il tempo mi insegna la saggezza mentre la Storia mi sta insegnando l’ironia”. La distanza dal tempo dell’immediato permette al poeta uno sguardo verso la perplessità dell’esistenza, verso domande metafisiche più ampie. Una distanza che permette a Darwish di portare oltre la sua esperienza poetica quella che definisce la sua “voce individuale-collettiva”, su un altro territorio molto più vasto culturalmente.

La letteratura, e in particolare la poesia, è necessaria per un popolo che ha subito una forte colonizzazione, rappresenta una forma di contro-narrazione, che contesta la negazione della cultura palestinese e la narrazione alterata e distorta dei colonizzatori. Una narrazione ufficiale rende stereotipata e reificata la vita dei colonizzati, togliendo ogni forma di autenticità, dignità e realtà umana. Una condizione costante oggi all’interno dei territori occupati. Come sotto le rovine di Troia, Darwish si definisce “un poeta troiano” quando descrive lo stato d’assedio e la distruzione della sua città dal punto di vista degli sconfitti. Un ultimo eroe epico che difende il diritto di Troia alla sua parte di racconto.

Mahmud Darwish nel film “Notre musique” (2004) di Jean Luc Godard

“La Storia la scrivono i vincitori, ma è la letteratura a scrivere le storie delle vittime”11. Il poeta è il testimone della memoria di fronte all’oblio, e la sua poesia non si rifiuta a volte di “partecipare implicitamente all’impresa della speranza”. Ancora una volta riaffiora l’ossessione di dire la perdita, di ritrovare un impossibile punto d’origine nella Storia. Non può essere lavoro per lo storico, ma per il poeta che scrive dal margine ed esercita “la pazienza della distanza” che permette uno sguardo più sereno nei confronti della memoria, alleggerendo “il peso che esercita la poesia eroica sulla lingua”. È qui che l’esperienza individuale e collettiva si saldano in un’esperienza poetica che si fa linguaggio universale “per permetterci di sentire il dolore, e le ferite e quindi, per farci accedere alla nostra umanità”.


Non scrivere la storia come poesia.
Lo storico non ha i brividi quando elenca le vittime [...]
La storia è un diario d’armi scritto sopra i nostri corpi
La storia non ha una compassione tale
Da farci provare nostalgia per i nostri inizi
E non vuole farci sapere cosa abbiamo davanti e dietro.

1“Mentre ti liberi con lo slancio delle metafore,/ pensa agli altri,/ a chi ha perso il diritto di parlare”.

2Simone Sibilio, Nakba. La memoria letteraria della catastrofe palestinese, Edizioni Q, Roma, 2013, p. 156.

3Mahmud Darwish, In presenza d’assenza in Mahmud Darwish, Una trilogia palestinese, trad. it. di Elisabetta Bartuli e Ramona Ciucani, Milano, Feltrinelli, 2014, p. 335.

4Edward W. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Milano, Feltrinelli, 1995, p. 59.

5Mahmud Darwish, In presenza d’assenza in ID., Una trilogia palestinese, trad. it. di E. Bartuli e R. Ciucani, Milano, Feltrinelli, 2014, p. 335.

6Cfr. Simone Sibilio, Nakba, op. cit., p. 150.

7Ibid., p. 223.

8Mahmud Darwish, Memoria per l’oblio in Mahmud Darwish, Una trilogia palestinese, op. cit., p. 155.

9Mahmud Darwish, Le lieu de l’universel, préface et choix de l’auteur in Id., La terre nous est étroite et autres poèmes, Gallimard, Paris, 2000, p. 7.

10R. Ciucani, Il domatore di parole in Mahmud Darwish, Il giocatore d’azzardo, Mesogea, Messina, 2015, p. 108.

11Silvia Moresi, Il mestiere di tradurre in mediorientedintorni, 19 dicembre 2018.