Egitto

Minnena 2, ovvero dell’importanza della ricerca militante

A sei anni dal barbaro assassinio di Giulio Regeni e a quasi due anni dall’arresto di Patrick Zaki, la sistematica repressione del dissenso da parte del governo egiziano ai danni della società civile è ormai sotto gli occhi di tutti. Minnena 2 prosegue un percorso di approfondimento iniziato due anni fa per far luce sui meccanismi repressivi del regime di al-Sisi e sulla disinformazione dilagante in Egitto come in Italia.

L'immagine mostra un murale che ritrae due figure. Una di esse ha un aspetto distintivo, con occhiali e baffi, mentre l'altra indossa un completo elegante. Sullo sfondo, si può notare un muro di colore neutro, e sopra le figure è presente un testo in italiano che dice "Stai tranquillo, andrà tutto bene". Inoltre, nella parte inferiore della figura è scritta la parola "حرية" (che significa "libertà" in arabo). L'opera sembra trasmettere un messaggio di speranza e solidarietà.
«Stavolta andrà tutto bene»
Murale dell’artista Laika, creato nelle vicinanze dell’Ambasciata d’Egitto a Roma - immagine proveniente dall’account instagram dell’artista.

Nel gennaio del 2020 usciva per Mesogea la raccolta di saggi Minnena: L’Egitto, l’Europa e la ricerca dopo l’assassinio di Giulio Regeni.1 Il volume, curato da Lorenzo Casini, Daniela Melfa e Paul Starkey, nasceva dall’urgenza da parte di studiosi e studiose di Egitto contemporaneo di fare il punto e prendere posizione contro il ripiegamento autoritario del paese dopo il colpo di stato del generale Abdel Fattah al-Sisi, di cui l’assassinio di Giulio Regeni aveva rappresentato al contempo il più brutale dei disvelamenti agli occhi dell’opinione pubblica occidentale e, internamente, un fondamentale balzo in avanti nel restringimento dei confini del lecito e dell’illecito. Il volume si proponeva altresì di rimettere in fila e confutare le ipocrisie e le dietrologie tendenziose con cui i governi e la stampa dei paesi oggetto di indagine (Egitto, Italia e, seppur in misura minore, Regno Unito) avevano affrontato il caso politicamente e mediaticamente, avvelenando i pozzi del dibattito pubblico e sacrificando il perseguimento della verità in nome di più “alti” interessi economico-diplomatici. Un libro puntuale e coraggioso, rigoroso eppur profondamente empatico, raro esempio di come l’accademia possa ancora, con un linguaggio chiaro ed accessibile, intervenire politicamente sull’esistente e abbandonare i silenzi di comodo per mettere i saperi accumulati in anni di ricerche sul campo al servizio della divulgazione. A due anni da quella prima pubblicazione, Minnena ritorna in formato comparativamente ridotto ma col medesimo piglio per continuare a scandagliare cosa significhi fare ricerca in Egitto oggi, e mettere in discussione in modo critico e informato i paradigmi geopolitici e narrativi con cui il paese in generale, e l’assassinio di Giulio Regeni in particolare, vengono ancora raccontati.

Un libro in movimento

Come spiegato dai curatori Casini e Melfa nel capitolo introduttivo, a informare questa seconda raccolta è stata innanzitutto l’ulteriore, severa, degradazione delle libertà pubbliche e accademiche vissuta dall’Egitto nell’ultimo biennio, di cui l’arresto arbitrario dello studente Patrick Zaki, o la persecuzione sistematica dell’attivista Ala’ Abd el-Fattah e della sua famiglia non rappresentano che i due più noti esempi. In secondo luogo, sebbene nel frattempo le indagini della Procura di Roma sull’assassinio di Giulio Regeni si siano concluse spianando la strada all’apertura del processo, né il pervicace ostruzionismo delle autorità egiziane nei confronti della giustizia italiana, né l’accertamento da parte della Magistratura e della Commissione Parlamentare d’Inchiesta del coinvolgimento diretto dei vertici del ministero degli Interni egiziano nella sua detenzione e nel suo assassinio, hanno impedito il progressivo ritorno a una piena restaurazione dei rapporti bilaterali tra i due paesi. Infine, nonostante la medesima Commissione abbia ampliamente acclarato, anche grazie al contributo del primo volume di Minnena, la totale infondatezza delle teorie cospirative che fin dai primissimi istanti dal ritrovamento del corpo avevano gettato ombre sulla figura di Regeni, la tutor Maha Abdelrahman, l’Università di Cambridge, e sulla bontà stessa della ricerca che stava conducendo, la macchina del fango ha continuato ad operare ed attecchire indisturbata, senza risparmiare personaggi politici di primo piano. L’esempio più lampante in questo senso è stato il docufilm in tre lingue (arabo, inglese e italiano) The Story of Regeni pubblicato su YouTube alla vigilia dell’apertura del processo nel maggio 2021, con chiaro intento delegittimante e diffamatorio. Prodotto del - e dal - regime egiziano, infatti, il documentario, poi rimosso dalla rete, reiterava le principali teorie complottiste emerse all’indomani dell’apertura del caso volte a presentare Regeni e la sua ricerca come destabilizzanti cavalli di troia manovrati dall’alto dalla tutor di Cambridge, di presunte simpatie islamiste. A dare veridicità al postulato, il coinvolgimento di figure politiche italiane di primo piano, come l’ex ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri o l’ex-ministra della Difesa Elisabetta Trenta – i quali, pur dissociatisi prontamente dall’operazione, continuano a sostenere l’urgenza di guardare a Cambridge –, nonché dell’ex-giornalista Rai Fulvio Grimaldi, al contrario tra i principali complottisti della prima ora. È dunque dai dibattiti scaturiti dall’intrecciarsi di questi eventi con le numerose presentazioni virtuali e non seguite alla pubblicazione del primo volume che l’idea di Minnena 22 prende corpo e forma, rispettando la sua natura di progetto itinerante e collettivo. Rispetto alla prima raccolta, il volume si spoglia della sezione dedicata all’analisi dei movimenti sociali dell’Egitto contemporaneo per farsi più politico, assumendo come fil rouge il tema della ricerca nella doppia accezione di pratica accademica ed esercizio di intelligenza collettiva. Il suo cuore si compone di tre saggi tematici firmati da “vecchie” (Gennaro Gervasio ed Elisabetta Brighi) e “nuove” (Paola Rivetti, Mattia Giampaolo, Andrea Teti e Khaled Fahmy) conoscenze del progetto, aperti da una nota della presidentessa della Società Italiana di Studi sul Medio Oriente (SeSaMo) Monica Ruocco, promotrice del progetto sin dalla prima ora insieme alla British Society for Middle East Studies (BRISMES) e all’Associazione per gli Studi Africani in Italia (Asai).

Fare ricerca in Egitto oggi

Il primo saggio, a firma del professor Khaled Fahmy, è dedicato al tema della libertà di ricerca nell’Egitto di al-Sisi. In particolare, dopo aver fatto il punto sui limiti visibili e invisibili che regolavano l’esercizio della ricerca sociale prima dell’assassinio di Regeni, Fahmy pone l’accento su come lo stesso assassinio abbia rappresentato un vero e proprio spartiacque nelle politiche repressive esercitate dal regime nei confronti della ricerca accademica e dei ricercatori. Se, infatti, al netto di un controllo piuttosto serrato ma comunque “tollerante” da parte dei servizi di sicurezza nei confronti della ricerca sociale e umanistica, prima dell’assassinio erano le attività politiche dei singoli ricercatori a determinarne la perseguibilità, a partire dalla morte di Regeni è diventata invece la ricerca stessa ad essere perseguita, indipendentemente dalla nazionalità, dall’università di appartenenza e dagli eventuali posizionamenti politici dei singoli ricercatori. Ne sono testimoni le decine di arresti arbitrari nei confronti di ricercatori egiziani e non susseguitesi dal 2016 ad oggi, innescando un circolo vizioso fatto di repressione, auto-esilio e autocensura per cui avvicinarsi a temi invisi al regime (tematiche di genere, disuguaglianze economiche, politiche confessionali, apparati di sicurezza, per citare i più importanti), i cui confini vengono lasciati deliberatamente porosi, è diventato non solo di fatto impossibile, ma profondamente pericoloso. Fahmy sgombra altresì il campo da qualsiasi equivoco circa la liceità della ricerca condotta da Regeni, spiegando puntualmente come, al momento dell’avvio del suo lavoro sul campo, né lo studio dei movimenti dei lavoratori, né il metodo dell’osservazione partecipata, rappresentassero tabù inviolabili. Il suo assassinio è dunque da leggersi né come un tragico incidente, e ancor meno come frutto di presunti, oscuri, secondi fini soggiacenti al suo lavoro di ricerca, ma come atto inaugurale di una escalation repressiva nei confronti delle libertà accademiche messa in atto dal regime, da collocarsi in un più ampio processo di restrizione drastica delle libertà civili e politiche.

Disinformazione e mis-rappresentazioni tra Egitto e Italia

A ricostruire le genealogie delle teorie cospirative con cui il “caso Regeni” è stato narrato da parte sia egiziana che italiana ci pensa invece il brillante saggio a sei mani firmato da Elisabetta Brighi, Paola Rivetti e Mattia Giampaolo. Partendo dalla definizione di complotto di Norberto Bobbio, il saggio colloca le narrazioni convergenti che, da entrambe le sponde del Mediterraneo, hanno contribuito a dipingere il ricercatore italiano come spia straniera più o meno consapevolmente eterodiretta dalla tutor di Cambridge Maha Abdelrahman, a sua volta sedicentemente al soldo dei Fratelli Musulmani, all’interno di matrici discorsive di stampo nazionalista e misogino, di cui gli autori ricostruiscono minuziosamente le origini e gli intrecci. Sul fronte egiziano, spiegano i tre studiosi, il processo è da collocarsi all’interno del più ampio lavoro di riscrittura della storia recente del paese ingaggiato da al-Sisi all’indomani del colpo di stato del 2013, col fine ultimo di consolidarne la legittimità popolare. Si tratta di un lavoro imponente e totale, giocato sul doppio binario della cancellazione – anche fisica – della memoria della rivoluzione del 2011 e della propaganda martellante veicolata attraverso le cerimonie pubbliche, i mass media, e finanche l’urbanismo e i prodotti di intrattenimento, come la serie TV La Scelta, riuscendo a penetrare nel profondo “le case matte della società civile”. Asse portante della narrazione è la rappresentazione del Generale al-Sisi e dell’apparato militare come soli, imprescindibili garanti della sovranità e della stabilità del paese contro i grandi nemici interni ed esterni della patria, identificati nella Fratellanza Musulmana e nei suoi principali sponsor regionali. Questo ha creato il terreno fertile affinché – come dettagliano puntualmente i tre studiosi – una volta preso piede nella stampa italiana il paradigma di “Regeni-spia”, lo stesso venisse fatto proprio dal regime e assurto a narrazione dominante del caso, trovando nella misoginia condivisa condensata nella demonizzazione della tutor di Cambridge il grande anello di congiunzione. È infatti dall’Italia che le narrazioni complottiste intorno al caso Regeni prendono corpo e si consolidano in prima battuta, a cominciare dalla presunta affiliazione di Abdelrahman alla Fratellanza, secondo un percorso inverso rispetto a quello egiziano ma ugualmente pregnante, partito in modo policentrico e disaggregato dalla stampa e dai social media per giungere infine alla politica. Ad alimentarne i contorni e la diffusione, un nazionalismo parimenti “banale” e sciovinista radicato nel mito negativo della “perfida Albione” sempre prona a sabotare gli interessi economici dell’Italia, anche con i mezzi più illeciti. È dunque da questi intrecci e giochi di specchi che, con The Story of Giulio, la propaganda del regime egiziano arriva direttamente a noi, tornando a confondere le responsabilità e deviare l’attenzione dai mandanti e dagli esecutori, a beneficio delle grandi multinazionali dell’energia e delle armi al centro dei rinnovati accordi di cooperazione bilaterale tra i due paesi. È proprio su quest’ultimo punto che si concentra il saggio conclusivo firmato da Gennaro Gervasio e Andrea Teti. Confutando punto per punto la narrazione reiterata dalle cancellerie italiane ed europee dell’Egitto di al-Sisi come “oasi di stabilità” e fondamentale perno per la sicurezza regionale, i due autori dimostrano solidamente come l’apparente forza di cui gode il regime ad uno sguardo esterno non sia solo una condizione di mera dominazione senza egemonia basata sulla più brutale coercizione, ma anche come questa stessa coercizione non rappresenti altro che un’ulteriore potenziale fattore di deflagrazione interna. Continuare a sostenere questi regimi, dunque, non è solo moralmente riprovevole, ma anche un esercizio miope di politica estera. In conclusione, laddove l’assassinio di Regeni resta ancora senza giustizia, Minnena 2 rappresenta una bussola fondamentale per continuare a indicarci senza paure e ipocrisie dove risiedano la verità e i suoi nemici, fornendoci al contempo un prezioso compendio per capire a pieno l’Egitto di oggi. Similmente, laddove lo scoppio della guerra in Ucraina è riuscita a ridare dimora ai principali detrattori della figura di Regeni in programmi di prima serata, e nuova legittimità alla retorica dell’interesse nazionale per rinsaldare la cooperazione italo-egiziana sul fronte energetico, Minnena 2 è un faro prezioso per aiutare a districarci e smascherare le storture porose della nostra stampa e gli insostenibili doppiopesismi della nostra politica estera.