Migrazioni

Nell’inferno dei nuovi desaparecidos

L’inasprimento delle politiche migratorie dell’Europa ha trasformato il diritto alla mobilità in un privilegio per pochi o in un crimine da punire con ogni mezzo aumentando a dismisura il numero dei morti e dei dispersi tra chi tenta di varcare le frontiere comunitarie attraverso rotte sempre più rischiose.

Nell'immagine si vede un gruppo di persone che partecipano a una manifestazione. Alcuni di loro tengono in mano delle fotografie di uomini. Le donne indossano il velo e mostrano espressioni serie, mentre gli uomini dietro di loro sembrano sostenere le stesse fotografie. L'ambiente intorno è urbano, con alberi e edifici visibili sullo sfondo. La scena trasmette un senso di protesta e richiesta di giustizia.
Fonte: Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos.

I tre grandi canali marini del Mediterraneo sono ancora molto attivi ma da quando il processo di esternalizzazione ha reso più difficili le partenze da Libia e Tunisia i punti di imbarco si sono spostati a Sud, fino in Mauritania e in Senegal, incrementando il flusso attraverso l’Atlantico. I numerosi muri sorti ai confini e all’interno dell’Unione, inoltre, hanno interrotto alcune rotte via terra aprendone altre. Il primo fu edificato attorno all’enclave spagnola di Ceuta e Melilla all’inizio degli anni Duemila e da allora si è continuato ininterrottamente a costruirne di nuovi fino ad arrivare alla lunghezza attuale di circa duemila chilometri.

Molti si trovano lungo la rotta balcanica dove continua a prevalere il principio del respingimento a priori malgrado quasi tutte le persone che la percorrono abbiano diritto a una forma di tutela internazionale, essendo perlopiù afghane, siriane, irachene e curde. Il presidente ungherese Orbàn ha costruito un’imponente struttura di filo spinato al confine con la Serbia e Slovenia, Austria e Macedonia hanno seguito il suo esempio. La Bulgaria ha rafforzato la frontiera con la Turchia con quasi 200 chilometri di filo spinato e attorno alla Federazione russa Estonia, Lituania e Finlandia hanno eretto alte recinzioni. Anche la Grecia ha creato una barriera difensiva alla frontiera con la Turchia, che nel frattempo ha militarizzato il confine con l’Iran.

“Ma non sono solo i muri fisici che impediscono ai migranti di entrare in Europa”, commenta il giornalista Emilio Drudi. “Esistono anche ostacoli meno visibili ma altrettanto penalizzanti, come il mancato insegnamento della lingua italiana nei nostri percorsi di accoglienza, il decreto Minniti-Orlando, che ha abolito il secondo grado di giudizio per chi fa richiesta di asilo, e la legge Bossi-Fini, che prevede che il permesso di soggiorno sia concesso solo a chi possiede un contratto di lavoro, costringendo al rimpatrio forzato chi non lo ha. Questi muri invisibili dettati dalle norme e dagli accordi internazionali sono spesso ancora più difficili da superare di quelli di cemento e filo spinato”.

La rotta del Sinai è stata quasi completamente abbandonata e nessuno sceglie più la via che attraversa il Sudan, ormai devastato da una terribile guerra civile che in pochi mesi ha causato oltre 12mila morti e circa 7 milioni tra profughi e sfollati interni. Tra i migranti bloccati nell’Egeo o in Turchia ci sono spesso somali, marocchini e mauritani perché chi parte non sempre percorre la via più breve, soprattutto se è la più pericolosa. “Dal Marocco e dalla Somalia si può andare in Turchia con un normale visto turistico per poi proseguire illegalmente verso la Russia e la Bielorussia. Molti somali rimangono bloccati alla frontiera finlandese e qualche mese fa un medico yemenita è morto di freddo al confine tra Bielorussia e Polonia. “Alcune persone provenienti dallo Yemen finiscono addirittura a Ceuta e Melilla nel tentativo di entrare in Spagna: cinque ragazzi sono arrivati a nuoto dalla spiaggia di Castillejos, il villaggio marocchino vicino alla frontiera. Ne muoiono tantissimi così perché la traversata è molto rischiosa” racconta Drudi. Durante i mondiali di calcio che si sono svolti in Russia nel 2018 si era addirittura stabilito un canale che partiva dal Sudan, riferisce il giornalista. Diverse organizzazioni locali offrivano un pacchetto che includeva un documento falso, un biglietto aereo e anche i biglietti per la partita per poter giustificare il viaggio. I migranti arrivati in aeroporto erano accolti da un membro dell’organizzazione che ritirava i loro passaporti per poterli riutilizzare e li accompagnava al confine per provare a entrare in Europa da Est.

La recinzione costruita dal presidente ungherese lungo il confine con la Serbia “per preservare le radici cattoliche” del Paese. Fonte: Ispionline.
La recinzione costruita dal presidente ungherese lungo il confine con la Serbia “per preservare le radici cattoliche” del Paese. Fonte: Ispionline.

Naufragi fantasma e imbarcazioni alla deriva

Molte sparizioni si verificano nelle ampie zone desertiche che separano i Paesi subsahariani dai punti di imbarco: lì, centinaia di corpi senza vita giacciono tra le dune senza che nessuno si occupi del loro riconoscimento né della loro sepoltura. In Tunisia a luglio la polizia ha abbandonato una donna al confine con la Libia lasciandola morire di fame e di sete insieme alla figlia e pochi giorni dopo la stessa sorte è toccata a un giovane padre insieme al proprio bambino, ritrovati senza vita accanto a una tanica di acqua vuota. “Si parla di mille, addirittura duemila persone a ridosso del confine, ma non ci permettono di andare a verificare la situazione umanitaria per vedere se è possibile intervenire. Il governo tunisino ha consentito l’accesso solo all’OIM, all’UNCHR e alla Croce rossa tunisina, ma possono solo distribuire acqua e cibo”, ha dichiarato in un’intervistaFlavia Pugliese, referente di Terre des hommes per i progetti in Libia.

Sempre più persone, inoltre, scompaiono nei cosiddetti “naufragi fantasma” di cui non si ha notizia e che si verificano soprattutto lungo la rotta atlantica dove accadono tragedie inimmaginabili. Una nave partita dal Senegal nel 2006 è arrivata carica di cadaveri alle Barbados dopo aver vagato alla deriva per circa tre mesi con il motore in panne e il cavo da traino tranciato. Accanto ai corpi, resi irriconoscibili dal sole e dalla salsedine, c’erano i documenti di altre 26 persone di cui si è persa ogni traccia. Avevano finito il carburante e la corrente delle Azzorre li ha spinti verso Occidente: l’intero equipaggio è morto di stenti. Nel 2021 alcuni pescatori di Trinidad e Tobago si sono imbattuti in un vascello salpato dalla Mauritania che trasportava 14 cadaveri mummificati accatastati gli uni sugli altri e lo scorso agosto 38 naufraghi sono stati salvati in un’imbarcazione al largo di Capo Verde. A bordo c’erano 7 corpi senza vita e gli altri 56 migranti partiti insieme a loro dal Senegal sono spariti nel nulla.

Benché siano meno frequenti rispetto alla rotta atlantica, alcuni naufragi fantasma si verificano anche nel Mediterraneo centrale. A dicembre 2018 e a febbraio 2019 due navi con a bordo giovani eritrei e sudanesi si sono inabissate sfuggendo inspiegabilmente ai sofisticati sistemi di sorveglianza di Frontex. “A denunciare l’accaduto sono state le famiglie delle vittime, in particolare quelle sudanesi, che hanno pubblicato le foto dei 90 dispersi e da allora ogni anno si riuniscono per commemorarli”, ricorda Drudi.

Fonte: Mediterranea Saving Humans.
Fonte: Mediterranea Saving Humans.

Le molte falle dell’accoglienza italiana

Ma c’è anche chi, una volta sbarcato in Italia, nel disperato tentativo di aggirare il Regolamento di Dublino e poter raggiungere amici o parenti nel Nord Europa, si affida a passeurs locali per affrontare viaggi costosissimi e altrettanto pericolosi che spesso non giungono a destinazione. Sempre più numerose, inoltre, sono le persone che scompaiono per sottrarsi all’eterno limbo di un sistema di accoglienza sempre più inefficace, soprattutto dopo i recenti decreti che hanno eliminato alcuni servizi fondamentali favorendo i grandi centri para-carcerari per i rimpatri e le strutture provvisorie che seguono una logica sempre più securitaria ed emergenziale.

Accanto ai sistemi di prima e di seconda accoglienza1, per fronteggiare i periodi di maggior affluenza sono stati introdotti i Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), divenuti nel tempo strutture per la gestione ordinaria. I CAS sono finanziati con il Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo e vengono assegnati tramite gare di appalto basate su una retta di circa 30€ al giorno per ciascun utente. Il Decreto Salvini2 aveva abbassato drasticamente l’importo, eliminando molti servizi per l’integrazione, tra cui l’insegnamento dell’italiano, e riducendo al minimo le figure di sostegno per le persone più vulnerabili. Non potendo più garantire un servizio dignitoso, molte cooperative hanno rinunciato a partecipare ai bandi e alcuni privati sono subentrati nella gestione delle strutture abbassandone notevolmente il livello di qualità.

L’organizzazione cattolica Caritas Italia rappresenta un’eccezione. Attualmente ospita circa 20mila persone, tra migranti alloggiati nei centri, famiglie ucraine e persone arrivate attraverso i corridoi umanitari, universitari e lavorativi e cerca di garantire anche i servizi tagliati dai recenti decreti anti-immigrazione grazie al lavoro di centinaia di volontari e volontarie. “Salvini e Meloni hanno sempre voluto distinguere tra rifugiati e migranti economici, partendo dal presupposto che molte persone che arrivano in Italia non otterranno alcuna forma di protezione perché provengono da Paesi non considerati a rischio, come la Tunisia”, spiega Oliviero Forti, responsabile dell’Ufficio Politiche Migratorie e Protezione Internazionale della Caritas. “Ma se, da un lato, offrire loro servizi che non useranno in caso di rimpatrio sembrerebbe uno spreco di risorse, sul piano pratico conviene, invece, garantirli comunque perché nella maggior parte dei casi questa gente rimarrà qui e così avrà almeno degli strumenti per integrarsi”, aggiunge.

Chi non fa domanda di asilo o riceve un diniego finisce, invece, in uno dei 9 Centri di Permanenza e Rimpatrio (CPR), insieme a chi ha già avuto un procedimento di espulsione. “Di rimpatri, tuttavia, se ne fanno molto pochi sia per la difficoltà di stringere accordi con i Paesi d’origine, tutt’altro che sicuri, sia per gli elevati costi logistici e gestionali di queste procedure”, specifica Forti. Dal 2013 al 2021 dei circa 230mila ordini di rimpatrio ne sono stati effettuati solo 44mila: meno di un quinto del totale.

Tra circuiti criminali, caporalato e lavoro grigio

“A meno che non si abbia una rete informale di solidarietà comunitaria che garantisce un’accoglienza dignitosa nei circuiti paralleli a quelli ufficiali, queste persone rischiano di finire sotto un ponte”, commenta Forti. “Alcune restano in Italia per oltre vent’anni, lavorando e mandando i soldi a casa senza avere mai ottenuto i documenti e vivendo un’esperienza migratoria totalmente irregolare, con tutti i rischi che questo comporta”.

Sono numerosissimi, inoltre, coloro che ricevono un provvedimento di respingimento differito disposto dal questore con accompagnamento alla frontiera, ma molti non hanno documenti, soldi e spesso neanche vestiti o scarpe ed è molto difficile che riescano a rispettarlo. “Parliamo di persone che si trovano in condizioni di gravissima esclusione sociale”, denuncia Fausto Melluso, presidente di Arci Sicilia. “Chi ha la forza di fare un ricorso nel 90 per cento dei casi ottiene l’annullamento, ma pochissimi riescono ad avvalersi dell’assistenza legale. La stragrande maggioranza dei nuovi arrivati resta, dunque, in una condizione di totale clandestinità diventando il motore di un’economia sommersa. Molti diventano vittime della criminalità organizzata che si avvantaggerà della loro condizione di estrema fragilità per costringerli a compiere reati di ogni tipo”, conclude Melluso.

Il fenomeno riguarda anche i minori non accompagnati. I percorsi di sostegno a loro destinati, infatti, sono spesso troppo brevi per renderli autonomi prima del compimento della maggiore età, quando vengono abbandonati a loro stessi e rischiano di finire in circuiti di delinquenza o di cominciare ad abusare di droghe e alcool.

Numerosissime sono, infine, le persone sfruttate dalle aziende agricole o dai caporali per la raccolta stagionale che vivono in condizioni di semi-schiavitù nei grandi ghetti per braccianti disseminati per il Paese.

Secondo l’Osservatorio Placido Rizzotto che promuove una sinergia tra diverse realtà italiane che lottano per la legalità nel settore agroalimentare, questi “nuovi schiavi” sarebbero circa 230mila su 1.033.075 di lavoratori agricoli, ma la cifra potrebbe essere molto più elevata. Il fenomeno è, infatti, estremamente diffuso e, contrariamente a quanto si immagina, non è nato con l’arrivo dei migranti, perlopiù africani ma anche bulgari e romeni, bensì è parte integrante dell’organizzazione del lavoro nei campi che da sempre si avvale di manodopera a basso costo “Oggi il caporalato è diffuso ovunque, non solo nel Centro e nel Sud”, spiega Fabio Ciconte, scrittore, attivista ecologista e presidente dell’Associazione Terra! che ha recentemente pubblicato il reportCibo e sfruttamento - Made in Lombardia analizzando il fenomeno in una delle regioni italiane più colpite da procedimenti giudiziari sul caporalato soprattutto nelle filiere della carne, delle insalate in busta e del melone.

I dati riportati dal primo quaderno dell’Osservatorio Placido Rizzotto sulla “Geografia del caporalato” riferiscono, infatti, che sono 405 i distretti coinvolti dal reato di sfruttamento del lavoro in agricoltura, di cui circa un terzo nel Nord. I ghetti dove migliaia di persone vivono in condizioni di estremo disagio sono più diffusi al Sud, come nella Capitanata in Puglia, nella piana di Gioia Tauro in Calabria, e nella provincia di Caserta in Campania, ma esistono anche nel Lazio, in Lombardia e in Piemonte. “Il fenomeno è cambiato radicalmente negli ultimi dieci anni in conseguenza della legge anti-caporalato approvata nel 2016 che ha aumentato i controlli e prevede pene severissime per le aziende che ricorrono al lavoro nero. Ma il problema riguarda l’intera filiera alimentare non solo le modalità produttive”, aggiunge Ciconte. I prezzi dei prodotti che acquistiamo nei mercati e nei supermercati, infatti, sono così bassi proprio grazie allo sfruttamento della manodopera irregolare e ai sussidi di disoccupazione illeciti pagati dallo Stato. “I braccianti stranieri che lavorano in Italia sono spesso sostituiti nei registri ufficiali da italiani che, pur non avendo mai lavorato nei campi, beneficiano di quegli aiuti”, precisa Ciconte. “Ma anche nel caso di immigrati regolarmente assunti, il più delle volte nella loro busta paga è indicato un importo molto inferiore rispetto a quanto dovuto perché l’imprenditore corrisponde in nero il resto, concordando la cifra informalmente, e spesso unilateralmente, con il singolo lavoratore. Questo sistema, chiamato lavoro grigio, è ormai diffuso ovunque e tutela sia il datore di lavoro sia il caporale che media tra domanda e offerta, mantenendo, però, i braccianti nella stessa condizione di sfruttamento”.

1La prima accoglienza è composta da 4 hotspot dove chi arriva può essere identificato, avviare la procedura di domanda di asilo e riceve le prime cure mediche, e 9 centri di prima accoglienza destinati a chi fa domanda di asilo. La seconda accoglienza, il SAI (Sistema di Accoglienza e Integrazione), coordinato dal ministero dell’interno e dall’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (ANCI), garantisce a queste persone la successiva assistenza materiale, legale, sanitaria e linguistica, servizi di integrazione e orientamento lavorativo, corsi di lingua e attività sportive.

2Il 24 settembre 2018 il consiglio dei ministri italiano ha approvato all’unanimità il cosiddetto decreto Salvini in materia di immigrazione e sicurezza. Il decreto era composto di tre titoli: il primo dedicato alla riforma del diritto d’asilo e della cittadinanza, il secondo a sicurezza pubblica, prevenzione e contrasto della criminalità organizzata e l’ultimo focalizzato su amministrazione e gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia.