Nella Tunisia di Kais Saïed, la repressione in nome del controllo delle frontiere

Nel suo discorso dello scorso 21 febbraio, il presidente Kais Saïed ha individuato nei migranti subsahariani una minaccia all’identità arabo-islamica del Paese, peggiorando la già precaria situazione di molti migranti in Tunisia. Arianna Poletti ha raccolto le reazioni di alcuni di loro e della società civile che rifiuta questo discorso xenofobo e razzista.

© Arianna Poletti

È mezzogiorno, e il sole batte su Tunisi durante i primi giorni di marzo. Si riflette nelle vetrate degli uffici del quartiere di Lac 1, a qualche chilometro dal centro di Tunisi, dove hanno sede gli uffici delle organizzazioni internazionali e di alcune ambasciate. È qui che, circondata da un doppio muro bianco con filo spinato, si trova l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (IOM) di Tunisi, responsabile dei cosiddetti ritorni volontari dei migranti presenti in Tunisia che ne fanno richiesta. Lungo i muri che percorrono l’IOM, circa centocinquanta persone dormono sotto dei sacchi neri in plastica sistemati in modo da formare una sorta di tenda stretta e lunga a bordo strada. Nessuna associazione è presente sul posto per fornire assistenza, solo un gruppo di volontari che va e viene saltuariamente per portare acqua e cibo, sempre troppo pochi per i bisogni di sempre più uomini, donne e bambini.

Aggrappati alle grate, un gruppo di giovani provenienti da Costa d’Avorio e Camerun chiedono di poter parlare con il personale di IOM per potersi aggiungere alla lista delle persone che richiedono il rimpatrio. Senza successo. “Io sono in attesa da cinque mesi. Mi sono registrato per il ritorno volontario a ottobre, ma da allora non ho novità”, racconta Abel, arrivato due anni e mezzo fa in Tunisia dalla Costa d’Avorio in cerca di un lavoro. “Ogni giorno arriva qualcuno in cerca di una soluzione”. Per due anni, Abel ha lavato i piatti in un ristorante nel quartiere residenziale di El-Aouina.

Come alla gran parte dei subsahariani che lavorano in Tunisia, nessuno gli ha proposto un contratto, clausola necessaria per avviare il lungo e tortuoso iter dell’ottenimento di un regolare permesso di soggiorno nel Paese. Una volta scaduti i tre mesi del visto turistico stampato sul suo passaporto all’aeroporto di Cartagine, allora, Abel si è ritrovato ad accumulare mese dopo mese una penalità di permanenza oltre la data limite del visto, che ora deve riscattare per poter lasciare la Tunisia. Si tratta di 3000 dinari, circa mille euro, che lui, lavapiatti pagato alla giornata, non è riuscito a metter da parte. “Il mio passaporto è scaduto, e non so come uscire da questa situazione. Per questo mi sono rivolto all’IOM, nonostante io non fossi venuto in Tunisia con l’idea di tornare indietro”, spiega.

Tra panico e controesodo

La lista d’attesa per lasciare la Tunisia è sempre più lunga. In tanti avrebbero preferito tentare la via dell’Europa, ma o sono stati respinti dalla Guardia Costiera tunisina, o attendono di metter da parte la cifra necessaria per riuscire a imbarcarsi. Con il discorso del Presidente Kais Saied del 21 febbraio, però, tutto è cambiato: nessuno si sente più sicuro per le strade, dove le aggressioni razziste e gli arresti arbitrari dei subsahariani si sono moltiplicati, tanto che sono in pochi i subsahariani che escono ancora di casa. Il 21 febbraio, infatti, un comunicato della Presidenza ha scatenato il panico nelle grandi città del Paese.

La Tunisia sarebbe “invasa da orde di subsahariani” che minaccerebbero “la demografia”, nonché l’identità “araba e musulmana” del Paese nordafricano, si legge in un comunicato condiviso centinaia di volte su Facebook, con riferimento a una cifra gonfiata e non verificata: i subsahariani sarebbero 700.000. In realtà, i dati raccolti dalle organizzazioni internazionali che lavorano sulla migrazione, e che tentano con difficoltà di tener conto di chi ha il permesso di soggiorno ed è regolarmente residente in Tunisia e chi no, parlano di circa 50.000 persone. Un numero infimo in un Paese di 12 milioni di abitanti, che non giustifica il rischio di “invasione” paventato.

Queste inaspettate dichiarazioni della Presidenza tunisina fanno eco a teorie, video e post a sfondo razzista che da mesi si diffondono sui social network tunisini, e che già durante il 2022 hanno giustificato campagne di arresti arbitrari nei quartieri popolari di Tunisi, per esempio a l’Ariana, come denunciato per esempio a febbraio 2022 dall’AESAT, l’Associazione degli Studenti e Lavoratori Subsahariani in Tunisia. Tra le pagine social più attive nella condivisione di contenuti discriminatori, che si stanno moltiplicando in queste settimane, ce n’è una che fa da punto di riferimento: quella del Partito Nazionalista Tunisino, un movimento di nicchia riconosciuto dallo Stato nel 2018, ma che da fine 2022 riesce a influenzare i discorsi politici delle istituzioni facendo campagna in un Paese dove, però, i partiti sono ormai stati esclusi dalla vita pubblica.

Facendo riferimento neanche troppo implicitamente alla teoria del Grand Remplacement - tanto da essere ricondiviso e sostenuto dal leader dell’estrema destra francese Éric Zemmour - il discorso di Kais Saïed è stato la miccia che ha fatto esplodere la tensione sociale che per mesi si è accumulata in Tunisia, un Paese che attraversa la peggiore crisi economico-finanziaria dai tempi della sua indipendenza. Le dichiarazioni xenofobe della Presidenza, infatti, vanno situate in un contesto di grande frustrazione sociale. Una frustrazione tale che gli slogan della propaganda anti-migranti tipici delle destre europee sono riusciti a far presa anche sulla popolazione tunisina, una popolazione che è stessa migrante, e che subisce direttamente le politiche europee di esternalizzazione e controllo delle frontiere.

Il silenzio assordante dell’Unione Europea

Non è un caso infatti che - a differenza dell’Unione Africana, subito intervenuta con un comunicato molto critico - l’Unione Europea non abbia reagito di fronte alle dichiarazioni del Presidente tunisino in un momento storico durante il quale la propaganda politica di Paesi come Italia e Francia, i principali partner commerciali ed economici della Tunisia, torna a sfruttare l’argomento migratorio. Proprio Italia e Francia, al contrario, hanno ripetutamente espresso la propria solidarietà al governo tunisino con una serie di incontri e chiamate tra i rispettivi ministri degli Esteri.

Secondo una nota di Palazzo Chigi, la premier Giorgia Meloni avrebbe anche chiamato la premier tunisina Najla Bouden Romdhane il 28 febbraio per ribadire “la vicinanza al popolo e alle autorità tunisine in questo momento particolarmente delicato per il Paese”, con riferimento all’”appoggio italiano presso le istituzioni finanziarie internazionali”. Toni simili sono stati usati dalla Francia, tanto da far pensare a probabili intese informali che, come già accaduto in passato, hanno per oggetto una stretta della politica migratoria in Tunisia in cambio di un supporto politico-finanziario. Da ormai più di un anno, infatti, il governo tunisino sta negoziando con il Fondo Monetario Internazionale per una nuova tranche di aiuti, ma i negoziati vengono costantemente rimandati, mentre le casse dello Stato sono sempre più vuote e le penurie dei generi di prima necessità sono diventate una costante.

Mentre gli arresti politici degli esponenti dell’opposizione scandiscono il ritmo delle news in Tunisia, l’Italia avrebbe inoltre donato al Ministero dell’Interno tunisino 100 pick up per un valore di 3,6 milioni di euro, scrive Altreconomia. Fondi che si aggiungono ai 47 milioni italiani che, dal 2011 a oggi, Roma ha speso per rafforzare la Guardia Costiera tunisina e il controllo delle frontiere, secondo i dati raccolti dal progetto che sorveglia l’uso dei fondi per politiche di esternalizzazione delle frontiere The Big Wall. A richiamare Kais Saied all’ordine, questa volta, sono stati diversi Paesi africani, che hanno preteso chiarimenti di fronte alla campagna d’odio lanciata nei confronti dei propri cittadini. Tra questi, la Costa d’Avorio, il Mali, il Camerun e la Guinea.

Il 1 marzo, il ministro degli esteri della Guinea atterrava a Tunisi per organizzare in tutta fretta i primi voli di rimpatrio. In centinaia, intanto, si stanno registrando presso le proprie ambasciate di competenza per lasciare il Paese sull’onda del panico generale. In molti non stanno riuscendo a raggiungere le proprie ambasciate di competenza perché i louage, i taxi collettivi tunisini, si rifiutano di trasportarli fino alla capitale. In Tunisia, infatti, esiste una legge del 2004 sull’immigrazione irregolare che, un po’ come la Bossi-Fini, punisce severamente il favoreggiamento, mettendo a rischio chiunque contravvenga alle strette direttive impartite dalla Presidenza e criminalizzando le forme di aiuto e assistenza. Proprio per questo motivo centinaia di subsahariani si sono ritrovati senza lavoro da un giorno all’altro e, ancor più grave, senza un tetto.

Una battaglia legale

“La nostra proprietaria ci ha dato ventiquattro ore per lasciare i nostri appartamenti, senza possibilità di negoziare, minacciandoci di far intervenire la polizia. Anche se alcuni di noi hanno i papiers, sappiamo che in quel caso rischiamo tutti l’arresto”, racconta July, trentenne ivoriana che, con il suo compagno, si è ritrovata per strada e senza lavoro da un giorno all’altro. Nel suo condominio cinque appartamenti erano affittati a famiglie di lavoratori subsahariani che vivevano in Tunisia da cinque anni. “Mi è stato detto di tornare in Costa d’Avorio, ma io laggiù non ho neanche più una casa. Sono anni che vivo in Tunisia e voglio rimanere qui. Questo è un po’ anche il mio Paese”, racconta, in cerca di riuscire a capire come potersi assicurare del cibo e dell’acqua, aggirandosi per la periferia del quartiere benestante di La Marsa. A pagare il prezzo della recente campagna d’odio, infatti, è tutta la comunità nera residente in Tunisia, senza distinzione: chi si trova in situazione di irregolarità, spesso pur non avendo intenzione di partire verso l’Europa, ma anche lavoratori regolari, studenti, richiedenti asilo, rifugiati e vittime di tratta. Non restano esclusi nemmeno i Tunisini neri, molto spesso provenienti dalle regioni del Sud del Paese, discendenti lontani degli schiavi subsahariani che un tempo venivano portati in Tunisia.

A fine febbraio, i Tunisini e le Tunisine nere hanno lanciato una campagna social registrando video in cui mostrano il proprio passaporto tunisino, per ricordare ai social che nel Paese è presente una comunità nera e che “la Tunisia è un Paese africano”. Molti di loro hanno denunciato episodi di razzismo, in primis la storica attivista Sadiya Mosbah, fondatrice dell’associazione Memnty, che commenta: “la storia della comunità nera della Tunisia è stata completamente rimossa dai nostri libri di storia, così come la nostra identità di Paese africano”. Vittima di una campagna d’odio sui social, Sadiya Mosbah, così come centinaia di attivisti della società civile tunisina, era in prima fila durante la manifestazione antirazzista di sabato 25 febbraio in solidarietà con la comunità subsahariana.

Proprio la sua associazione ha sostenuto l’approvazione della legge che punisce le discriminazioni a sfondo razziale approvata in Tunisia nel 2018. Già allora, una serie di incidenti e violenze nei confronti delle persone nere avevano alimentato le polemiche nel Paese, specialmente dopo che un commissariato di polizia si era rifiutato di raccogliere la denuncia di una donna nera aggredita per le strade del centro di Tunisi in nome del fatto che non c’era una legge a riguardo. Di fronte alle pressioni della società civile e della comunità internazionale, l’allora premier Youssef Chahed si era affrettato a far approvare una legge considerata, allora, una conquista storica per la Tunisia. Sei anni dopo, il contesto è totalmente diverso.

Da esempio regionale di una fragile ma riuscita transizione democratica post rivoluzione del 2011, la Tunisia è tornata sotto il comando dell’uomo solo, il presidente (e giurista) Kais Saied. Con l’approvazione tramite referendum (senza quorum) della nuova Costituzione, il licenziamento di centinaia di giudici e nomine ad hoc all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura, ogni azione legale e tentativo di difesa in nome di questa e altre leggi ha ormai un valore totalmente arbitrario. A dimostrarlo sono gli arresti politici che, mentre la campagna anti-migranti attirava tutta l’attenzione, hanno avuto luogo in Tunisia durante le ultime settimane. Decine di leader dell’opposizione, ex diplomatici ed ex magistrati, compreso il direttore della prima radio del Paese, Noureddine Boutar, sono finiti dietro le sbarre con accuse poco chiare, spesso dichiarate solo a posteriori.