Non più neutrali? La Siria, Gaza e la metamorfosi degli aiuti umanitari

Se durante la guerra in Siria le organizzazioni umanitarie hanno mantenuto un linguaggio neutrale e apolitico, con Gaza hanno iniziato a denunciare apertamente gli attacchi israeliani, parlando di «genocidio» e «punizione collettiva». Un cambiamento che rivela però un paradosso: nonostante le parole più forti, le azioni concrete restano limitate dai vincoli finanziari, mostrando che la neutralità è spesso più strategia economica che principio etico.

Un edificio con balconi allineati, bandiera ONU e vestiti appesi ad asciugare.
Una scuola dell’UNRWA trasformata in rifugio a Deir el-Balah, nella Striscia di Gaza, 6 gennaio 2025.
Ashraf Amra/Wikimedia Commons

Alla luce degli ospedali distrutti e delle infrastrutture di base ridotte in macerie a Gaza, mentre la popolazione affronta pratiche sistematiche di genocidio, il mondo degli aiuti umanitari sta vivendo una trasformazione. Per decenni, l’assistenza umanitaria si è nascosta dietro il principio etico – seppur non legale - della neutralità: un impegno a non prendere posizione nei conflitti, ma solo a soccorrere le vittime. Eppure, questa etica, incarnata storicamente dal Comitato Internazionale della Croce Rossa fondato in Svizzera a fine Ottocento da Henry Dunant, si sta sgretolando.

E da nessuna parte questo cambiamento è più evidente che nel modo in cui le organizzazioni umanitarie hanno risposto alla guerra in Siria (2011-2024) e a quella in corso nella Striscia di Gaza (2023-2025).

Ci siamo soffermate su questi due contesti, analizzando campagne di advocacy, di fundraising, o semplici dichiarazioni ufficiali da parte di attori umanitari eminenti e ricchi di risorse, come Oxfam e Save the Children, varie agenzie delle Nazioni Unite come UNICEF e OCHA, o la British Red Cross.

Ne sono emersi due approcci narrativi profondamente diversi. Se nel caso siriano ha prevalso un linguaggio cauto e apolitico, anche quando i media occidentali si mostravano apertamente ostili al regime di Bashar al-Assad, Gaza è molto gradualmente diventata un campo di battaglia discorsivo molto più esplicito, dove la neutralità è apertamente messa in discussione da un numero crescente di attori umanitari.

Siria: la trappola del silenzio

Durante la lunga guerra iniziata nella primavera 2011 in Siria a seguito di sollevazioni popolari anti-governative, le organizzazioni umanitarie si sono mosse in un campo minato politico. Tra fronti mobili, fazioni ribelli, forze del regime e interventi stranieri, molte organizzazioni non-governative hanno scelto un linguaggio vago e “neutro”. Persino di fronte a orrori come l’attacco chimico nella Ghouta Orientale, parte della periferia damascena, nel 2013, le dichiarazioni ufficiali parlavano di “crisi” o “conflitto”, evitando di nominare i responsabili.

Le Nazioni Unite raramente hanno indicato i colpevoli in modo diretto, preferendo focalizzarsi sulla sofferenza umana generalizzata. L’obiettivo? Mantenere l’accesso al campo, proteggere il personale umanitario, non inimicarsi i donatori. Ma il prezzo, come sostiene una delle autrici di quest’articolo sulla base delle sue ricerca antropologica in Libano1, è stato alto: una neutralità politica dei fornitori degli aiuti che tende a cancellare l’identità politica dei siriani, riducendoli a vittime passive.

Gaza: le diverse sfumature della neutralità

Con Gaza il copione cambia. Dell’escalation militare israeliana del 2023, organizzazioni come Oxfam e Médecins Sans Frontières (MSF) hanno progressivamente abbandonato i giri di parole. MSF ha denunciato apertamente gli attacchi israeliani agli ospedali come “incessanti”, mentre Oxfam ha parlato di “punizione collettiva”. Funzionari ONU, tra cui la Special Rapporteur per i diritti umani in Palestina Francesca Albanese, hanno usato senza esitazioni il termine “genocidio”. Alcuni alti funzionari ONU si sono addirittura dimessi, in segno di protesta per l’eccessiva cautela dell’istituzione nei media nei confronti della violenza israeliana.

Questo cambio di rotta è stato battezzato come “massimalismo” da Thomas Weiss2, per indicare un discorso umanitario che rifiuta il distacco dai beneficiari degli aiuti, al fine di abbracciare la solidarietà e la chiarezza politica. A differenza della Siria, dove le divisioni interne e le ambiguità dell’opposizione siriana hanno offuscato il giudizio morale sulle violenze a larga scala commesse dal regime di Assad, Gaza viene percepita da gran parte della sinistra internazionale come uno scontro binario: colonialismo di insediamento contro la resistenza popolare palestinese.

Generalmente, tali inquadramenti geopolitici influenzano direttamente la mobilitazione e gli allineamenti politici internazionali. Tuttavia, il settore umanitario, che si serve degli stessi social media per emettere comunicati e fare advocacy, resta fortemente intrecciato a quello che avviene in seno ai movimenti opinionistici.

Perché il discorso umanitario sembra evolversi proprio a Gaza?

Cosa ha reso Gaza, e non la Siria, il detonatore di questa trasformazione discorsiva in seno al settore umanitario? In tale contesto, a parte la natura stessa delle violenze israeliane commesse a Gaza (classificabili secondo l’ONU come genocidio di massa), tre fattori chiave hanno inciso in misura determinante. Innanzitutto, come accennato, l’inquadramento geopolitico gioca un ruolo importante: la causa palestinese ha da tempo una posizione centrale nei movimenti anti-coloniali e anti-imperialisti. Al contrario, l’opposizione al regime di Assad era divisa anche in ambito internazionale, con alcune fazioni legate a potenze straniere e altre compromesse da violazioni dei diritti umani. Il secondo fattore riguarda la sfera della comunicazione: mentre la guerra in Siria è stata raccontata per lo più dai media tradizionali, quella di Gaza si svolge sotto i riflettori dei social. In Italia, come altrove, i social hanno moltiplicato la pressione sulle Ong e le Nazioni Unite da parte di sopravvissuti, attivisti della diaspora e influencer. Infine, è una questione di solidarietà transnazionale: i network pro-Palestina sono riusciti a mobilitare un sostegno diffuso e continuo, esercitando un’enorme pressione morale sulle organizzazioni umanitarie. Nulla di simile è accaduto per la Siria.

Non è la prima volta che la neutralità viene messa in discussione. Il fallimento3 della Commissione Internazionale della Croce Rossa nel denunciare l’Olocausto in tempo reale resta una macchia indelebile. Negli anni ’60, durante la guerra del Biafra4 (1967–1970), alcune Ong sfidarono i propri governi per garantire aiuti aerei, anteponendo la solidarietà al silenzio diplomatico.

Oggi, ciò che cambia è la scala e la velocità di tale trasformazione, spinta non dagli stati, ma dalla pressione pubblica – anche e soprattutto online. In Olanda, per esempio, una filiale di Oxfam ha portato il governo in tribunale per fermare l’esportazione di armi a Israele. Le Nazioni Unite appaiono spaccate: alcune agenzie usano un linguaggio diretto, altre – come l’Office for the Coordination of Humanitarian Affairs delle Nazioni Unite – preferiscono utilizzare termini vaghi come “ostilità”. Invece, la Croce Rossa britannica continua a restare nel solco della neutralità classica.

Una metamorfosi del linguaggio o una metamorfosi dell’azione?

Tuttavia, parole forti non significano necessariamente cambiamenti concreti. Nonostante il linguaggio si sia caricato di maggiore esplicitezza politica, i comportamenti istituzionali sono rimasti in gran parte invariati. Le Ong continuano a dipendere da fondi statali, da vincoli legali e dalla necessità di mantenere l’accesso operativo.

Emblematica è la poesia “Don’t Say It”, pubblicata sui social5 dal medico umanitario nonché studioso James Smith, che racconta la frustrazione di alcuni attori umanitari, i quali, pur volendo denunciare apertamente i crimini israeliani, sono costretti a usare eufemismi: “Il sistema sanitario è crollato” al posto di “Israele ha bombardato gli ospedali”.

Per di più, la neutralità è spesso più una strategia di sopravvivenza finanziaria che una scelta morale. In Siria, i governi occidentali hanno evitato una condanna esplicita del regime di Assad, lasciando poco margine alle Ong. Nel caso di Gaza, il crescente dissenso verso Israele nel settore umanitario ha allentato progressivamente i vincoli linguistici. Ma basta una parola “di troppo” perché i fondi vengano tagliati. In questo senso, la neutralità è un calcolo economico, più che un principio etico. Non si tratta di eroi pronti a perdere tutto: nel contesto attuale Trumpiano, molti operatori umanitari stanno già perdendo i propri impieghi a causa dei tagli globali6 al settore.

Inoltre, Gaza è diventata una cartina di tornasole per la credibilità morale delle organizzazioni umanitarie. A questo stadio storico, chi tace rischia di essere considerato complice, come recentemente discusso da Marina Calculli7 e Gjovalin Macaj8. Ma chi parla rischia di scomparire. Una situazione senza vie d’uscita, a meno che il settore non ridefinisca in modo più chiaro il proprio orizzonte etico. In un mondo dove la supremazia occidentale mostra tutta la violenza di cui è capace, mentre le voci dal basso guadagnano forza, non si può più fingere che la neutralità equivalga alla virtù. Il silenzio, un tempo rifugio sicuro, oggi appare come negligenza morale inaccettabile.

La fine di un’epoca?

Il passaggio dalla Siria a Gaza rappresenta molto più di un semplice confronto regionale. È un colpo profondo al DNA dell’umanitarismo occidentale. Anche se le pratiche operative non sono cambiate, il linguaggio sta ridefinendo i confini dell’etica professionale. La neutralità non è più un valore aprioristico. È una scelta consapevole, e sempre più spesso controversa. Ma siamo di fronte a un vero risveglio etico o a una mera performance di indignazione? Ad oggi, solo questo è diventato più chiaro: fare umanitarismo non può limitarsi a portare aiuti. Che si scelga di tacere o di schierarsi apertamente, è inevitabilmente anche una scelta politica, mentre il mondo osserva.