Palestina. Le parole per dirlo

Gli ultimi eventi in Palestina sono stati raccontati nei media italiani con un linguaggio e delle narrative che non permettono né di identificare le reali responsabilità né di comprendere le realtà storiche e quotidiane che hanno portato alla situazione attuale.

Una “disputa sulle case”. Poco più di una scaramuccia burocratico-amministrativa combattuta a colpi di “sfratti”. A questo si è ridotta per la gran parte dei media italiani la motivazione alla base di una nuova puntata della “irrisolta” (o anche “annosa”, “infinita” o “irrisolvibile”, purché comunichi un senso di estrema “complessità”) “guerra” tra israeliani e palestinesi. Anzi, tra “Israele e Hamas”, assurto oggi a esclusivo rappresentante della totalità dei palestinesi (generalmente solo “arabi”).

Si torna a parlare di un “conflitto” in cui Israele, messo “sotto attacco”, viene sempre in qualche modo costretto a “rispondere” ad una “pioggia di missili” lanciati dalla Striscia di Gaza, con una serie di “operazioni mirate” volte ad “eliminare obiettivi militari”, che questa volta hanno avuto come “effetto collaterale” la “morte” di oltre 217 persone di cui 63 bambini.1

Una “battaglia” che si è dunque riaccesa dopo gli “scontri” che hanno investito Gerusalemme nei giorni scorsi, e che oggi vede un nuovo “fronte” nella “guerra civile” che si sta consumando nelle città israeliane in cui fino a ieri “arabi e israeliani” vivevano in “pacifica convivenza”. Una questione di “sfratti” quindi, in un’area “contesa”. E poco importa che si tratti piuttosto dell’ultimo atto in linea temporale di un sistematico tentativo di annessione territoriale – prassi tradizionale del colonialismo d’insediamento - condotto dalle autorità israeliane su tutti i territori palestinesi occupati. Poco importa che Sheikh Jarrah sia un sobborgo ben noto alle cronache, poiché strategico per Israele da un punto di vista urbanistico e politico, il cui controllo attraverso l’espulsione delle famiglie palestinesi che ci vivono permetterebbe di consolidare l’annessione di fatto della parte est della città, portando a termine ciò che gli esperti definiscono la “de-arabizzazione dello spazio urbano” di Gerusalemme.

Eliminare il contesto

“È complicato”: questo il leitmotiv dominante nella presa di parola sulla questione israelo-palestinese, doverosa premessa, inevitabile incipit. Adottato con uno scopo preciso: mettere chi ascolta o legge nelle condizioni di non voler neanche provare a capire, tanto sarà inutile. E così, di fatto, allontanare l’opinione pubblica dal rischio che comprenda, anestetizzandone la coscienza critica. Sarà poi sufficiente adottare una narrazione del tutto decontestualizzata: di fatto, una delle strategie più efficaci operate da gran parte della stampa internazionale – e da quella italiana in particolare, caratterizzata anche da una certa dose di ignoranza sulla questione – per restituire un’immagine strumentalmente parziale della situazione.

Come una fotografia che inquadri un particolare, dalla quale sia stato tagliato via lo sfondo. Perennemente sfocata, perché non sia possibile capire esattamente cosa ritrae. È così che un’operazione di espulsione forzata, frammento di un quadro estremamente più vasto, diventa una “disputa catastale” ; è così che l’irruzione dell’esercito israeliano nel terzo luogo sacro per l’Islam durante il mese di Ramadan, e l’attacco armato ai fedeli riuniti nella Moschea di al-Aqsa, da crimini di guerra diventano “incidenti tra polizia e arabi”.

In questo modo, dal racconto giornalistico del lancio di razzi da parte di Hamas scompare la Striscia di Gaza assediata da 15 anni, enclave sovrappopolata dalla quale è preclusa ogni via di fuga, in cui è impossibile distinguere tra “obiettivi” militari e civili in quella “risposta” israeliana che, dinanzi a un’improvvisa e inspiegabile aggressione, diviene non solo legittima, ma inevitabile. Le vittime civili dei bombardamenti di conseguenza “muoiono”, e i palazzi – come quello della stampa internazionale, intenzionalmente colpito da Israele il 15 maggio scorso – “crolla”.

È così che la sollevazione popolare palestinese nelle città israeliane e le violenze di gruppi di coloni organizzati, per i nostri media diventano“il nuovo fronte della guerra tra Israele e la Striscia di Gaza”. A Lod, Jaffa, Haifa o Bet Yam, investite dalla violenza degli estremisti di ultra-destra israeliani e dall’inedita esplosione di rabbia tra le comunità palestinesi, si assiste quindi per deduzione ad una “guerra civile”, del tutto inaspettata nelle città della “pacifica convivenza”. Ancora una volta, dallo sfondo scompaiono le discriminazioni strutturali cui è sottoposta dal 1948 la comunità palestinese residente in Israele, la cui espressione di dissenso viene velatamente sovrapposta al lancio di razzi da parte di Hamas. Le parole per dire diversamente tutto quello che è accaduto ci sono e ci sarebbero state. Così come la possibilità di lasciare che fosse l’opinione pubblica, correttamente informata sui fatti, a farsi una propria opinione. Solo che i media italiani hanno preferito ancora una volta il più sintetico ed efficace “Israele è sotto attacco”.

Operare rimozioni

Il sistematico ricorso ad un linguaggio bellico, così come la narrazione costruita intorno al concetto di “guerra”, è profondamente - ed intenzionalmente - fuorviante. Non solo perché cela la totale asimmetria di forze in campo, restituendo l’illusione che si sia dinnanzi ad uno scontro tra pari; ma perché rimuove consapevolmente il contesto coloniale nel quale quello scontro avviene. Confonde le carte e le scambia, rendendo punto di partenza ciò che è solo un esito. Così come deviante è la narrazione sulla “disputa immobiliare”, che rimuove il contesto di pulizia etnica ed espulsione forzata nel quale migliaia di famiglie palestinesi sono costrette a vivere ogni giorno, in ogni luogo dei territori occupati. “Non sono sfratti: non abbiamo smesso di pagare l’affitto. Queste case ci appartengono e ci vengono tolte con la forza”, spiega Mohammed El Kurd, portavoce del movimento di resistenza abitativa a Sheikh Jarrah. E profondamente fuorviante è d’altronde la narrazione sulla “guerra civile” nelle città israeliane, perché “rimuove il contesto coloniale nel quale la violenza contro i palestinesi viene esercitata”, scrive l’analista Lana Tatour. “Non stiamo assistendo a scontri tra due parti uguali, ma alla guerra che Israele ha dichiarato fuori e dentro i suoi confini”.

Operare continue de-contestualizzazioni, procedere per metodiche rimozioni, non può che essere considerata una scelta politica. Il discorso mediatico dominante sta di fatto scendendo in campo, confondendo giornalismo e propaganda. Se c’è uno “scontro” o un “conflitto”, sembra essere quello sulle parole che si sceglie o meno di utilizzare. Le vittime di questa guerra sono molte, e tutte gravi. La prima è una popolazione palestinese de-umanizzata, oggetto (e mai soggetto) di una ricostruzione parziale degli eventi che la riguardano, nella quale viene sistematicamente ridotta al silenzio e resa invisibile. E se il punto di partenza è una distorsione, non ci sarà niente che potrà essere fatto per raddrizzare l’ordine del discorso. La seconda vittima, non meno grave, è l’opinione pubblica, privata del diritto ad una informazione completa e obiettiva (non equidistante, non imparziale: obiettiva), infantilizzata e disorientata perché, in fondo, “è tutto molto complicato”.

Nominare per esistere

E non è quindi un caso che una nuova generazione di palestinesi oggi stia insistendo proprio sull’uso delle parole come elemento politico primario nella ridefinizione della propria lotta di resistenza. Per riappropriarsi del linguaggio e risignificarlo, scegliendo di nominare essa stessa la propria oppressione, rifiutando di adottare le categorie di chi la esercita e la perpetua.

Tra gli elementi fondativi del dispositivo coloniale israeliano c’è infatti la frammentazione imposta non solo allo spazio e alla geografia palestinesi, ma anche al linguaggio. Nella divisione terminologica operata tra i diversi territori - Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme, diaspore, campi profughi - si riflette anche il tentativo di dispersione dell’unità del popolo palestinese, non più percepito come corpus unico, ma come un insieme frammentato di oppressioni – e relative resistenze - diverse e separate, a volte persino non comunicanti, certamente gerarchizzate.

Ma se c’è una cosa che emerge con assoluta chiarezza da questa crisi, è al contrario l’unità del popolo palestinese. “Israele non è riuscito nel suo intento di dividerci”, scrive il giornalista Amjad Iraqi. “Il fatto che i palestinesi abbiano preso le strade ovunque è un promemoria che, nonostante gli innumerevoli strumenti adottati contro le sue vittime, la politica coloniale israeliana non ha avuto successo” . La rivolta popolare ha investito dopo decenni le città miste interne ad Israele, quelle dei Territori Occupati, Gerusalemme, le diaspore, con migliaia di persone che si sono riversate ai confini con il Libano e la Giordania, e le piazze europee e del resto del mondo che si sono riempite di palestinesi di seconda generazione che reclamano oggi la parola.

È così che anche il linguaggio imposto dalla diplomazia e dai mass media internazionali viene rifiutato e riscritto: “conflitto”, “scontro”, “guerra”, “resilienza”, lasciano spazio a “colonialismo”, “apartheid”, “pulizia etnica”, “resistenza”. Parole che sono state deprivate del loro senso originario, trasfigurate, sovrapposte. Fino a renderle quasi inutilizzabili per timore di dire l’indicibile. “Siamo all’ultimo respiro, l’unica opzione che ci resta è essere noi stessi. E l’unica opzione per il mondo è quella di accettarci”, afferma Mariam Barghouti. E se ciò che non viene nominato non esiste, è proprio dalla scelta delle parole usate per raccontare che forse occorre ripartire.

1Si veda: “Notte di combattimenti: da Gaza partiti 250 razzi, raid dell’esercito su 130 obiettivi”, La Repubblica, 11 maggio 2021, https://www.repubblica.it/esteri/2021/05/11/news/israele_gaza_scontri_raid_razzi-300395275/; “Israele, da Gaza partiti 250 razzi, raid dell’esercito su 140 obiettivi”, Il Messaggero , 11 maggio 2021, https://www.ilmessaggero.it/mondo/bombardamenti_gaza_razzi_israele_cisgiordania_cosa_succede_ultima_ora-5952637.html; “Israele-Gaza, il conflitto si allarga: i razzi di Hamas anche su Tel Aviv”, Corriere della Sera, 11 maggio 2021, https://www.corriere.it/esteri/21_maggio_12/israele-gaza-guerra-si-allarga-razzi-hamas-anche-tel-aviv-3d885d00-b2a6-11eb-ad37-20fbbce36b88.shtml