Palestina. Se in Italia per parlarne serve “un alieno”

Nell’edizione 2024 del Festival di Sanremo, la più importante kermesse della canzone italiana, il vincitore morale è Ghali: rapper nato e cresciuto in Italia da genitori tunisini, è l’unico a portare la parola “genocidio” sul palco più osservato del paese. L’attacco dell’ambasciatore di Israele, la posizione della tv nazionale e la repressione del dissenso mostrano con evidenza i limiti della libertà di espressione raggiunti in Italia sotto il governo di ultradestra di Giorgia Meloni.

Il rapper Ghali insieme al pupazzo-alieno Rich Ciolino sul palco del teatro Ariston di Sanremo, 10 febbraio 2024.
Fotogramma

Ogni giorno i nostri telegiornali e i nostri programmi raccontano e continueranno a farlo, la tragedia degli ostaggi nelle mani di Hamas oltre a ricordare la strage dei bambini, donne e uomini del 7 ottobre. La mia solidarietà al popolo di Israele e alla Comunità Ebraica è sentita e convinta.

Finisce così, con un comunicato stampa senza precedenti letto in diretta sul canale principale della televisione pubblica italiana1, la polemica sollevata come da tradizione dal Festival di Sanremo, evento capace di polarizzare gli animi del pubblico come neanche le elezioni politiche riescono a fare. Non un comunicato bipartisan, che pur partendo dalla condanna del 7 ottobre – premessa ormai ineludibile per qualsiasi presa di parola su Gaza – facesse poi menzione delle vittime palestinesi, nominando almeno i bambini, in uno slancio di compassione umanitaria. No: quella ascoltata a reti unificate è stata una dichiarazione di incondizionato sostegno a Israele, alle sue vittime, ai suoi ostaggi. Non una parola sugli oltre 27mila civili palestinesi uccisi, di cui 10mila bambini, spazzati via dall’offensiva militare israeliana. Morti invisibili, inesistenti. A Gaza, per la Rai, da quattro mesi non sta succedendo niente.

Un comunicato firmato da Roberto Sergio, che della Rai è amministratore delegato, diffuso a seguito della protesta dell’Ambasciatore di Israele in Italia, Alon Bar, dopo quello “stop al genocidio” scandito da Ghali, amatissimo cantante “un po’ italiano un po’ tunisino”, come lui stesso si definisce, nella serata finale del Festival. Quella che ottiene storicamente il picco di ascolti. Quella che tutti, in Italia, seguono anche quando dicono di non farlo. Su cui si accendono i riflettori più pesanti, quest’anno rimasti definitivamente spenti sul massacro di esseri umani che proseguiva indisturbato tra televoti e classifiche.

“Ritengo vergognoso che il palco del Festival di Sanremo venga sfruttato per diffondere odio e provocazioni in modo superficiale e irresponsabile”, aveva scritto Bar su X la mattina dell’11 febbraio, poche ore dopo che su Sanremo era calato il sipario. E rendendo chiaro che chiedere di non uccidere persone innocenti, bombardare strutture sanitarie, scolastiche, civili, senza neanche nominare il colpevole, rappresenta comunque per Israele “un incitamento all’odio, una provocazione”. Un mondo alla rovescia, in cui colpevole è chi denuncia il carnefice.

“E per cosa avrei dovuto usarlo, quel palco?”, ha risposto Ghali. “Parlo di questo tema da quando sono bambino. Questa cosa non è iniziata il 7 ottobre, va avanti già da un po’. La gente ha sempre più paura” – ha aggiunto – “e il fatto che l’ambasciatore dica così non va bene. Continua questa politica del terrore, la gente ha sempre più paura di dire ‘stop alla guerra’, ‘stop al genocidio’. Siamo in un momento storico in cui le persone sentono di rischiare qualcosa se dicono di essere a favore della pace, è assurdo”.

Due pesi, due misure, due dirette

Un palco quanto mai politico quello di Sanremo, cartina tornasole degli umori nazional-popolari. Come, probabilmente, qualsiasi palco nel mondo oggi, posto sotto a riflettori che aspettano di accendersi su parole di giustizia pronunciate da chi abbia il privilegio di tenere in mano un microfono. Ma un palco sempre più spesso attraversato da stili e note – come il paese lo è da temi e istanze – di una nuova, “seconda” generazione ancora profondamente esclusa, ancora ampiamente incompresa.

Un Festival che nell’edizione del 2023, mentre le bombe russe cadevano su Kiev, non si ebbe timore ad aprire con la lettura pubblica di un messaggio del presidente Zelensky. In cui si rese ripetutamente omaggio, con simboli e canzoni, al dramma della popolazione ucraina. Ma in cui si è vietato l’ingresso, quest’anno, a qualsiasi riferimento sul massacro di quella palestinese compiuto da Israele.

Un Festival che è stato, dunque, rappresentazione plastica e metafora viva di quella politica del doppio standard che caratterizza i governi occidentali da sempre, e con evidenza dirompente dal 7 ottobre. L’edizione di quest’anno è stato il velo caduto – se mai ci fossero ancora dubbi – su ciò che nello spazio pubblico dominato dalla narrazione di un governo neofascista, è possibile o impossibile dire e nominare. Il genocidio di Gaza è stato l’elefante nella stanza di una settimana di kermesse festosa, mai tanto stridente se alternata ai massacri trasmessi nelle stesse ore sui social network da Gaza. Due dirette parallele, distopia del nostro tempo.

Una “presenza assente”, dunque, quella del popolo palestinese a Sanremo, che solo due artisti sui 30 in gara hanno tentato di incrinare. Prima Dargen D’amico, che nella serata inaugurale aveva fatto riferimento a generici “bambini che muoiono sotto le bombe nel Mediterraneo”, ribandendo poi la richiesta di “cessate il fuoco”. E rendendo evidente che le parole “Palestina”, “Gaza”, “Israele”, fossero impronunciabili.

E poi Ghali Amdouni, classe 1993 e in arte solo “Ghali”, nato in Italia da genitori tunisini, cresciuto in una periferia difficile e liberato dal successo – non certo dal paese – che con un timido timore nello sguardo si è mosso nella serata finale interrogando l’alieno “Rich”, un pupazzo che ha accompagnato la sua performance. “Abbiamo qualcosa da dire?”, gli domanda. Ed è proprio l’alieno – efficace metafora di chiunque oggi in questo paese tenti di prendere parola contro il massacro – a suggerirgli quello “stop al genocidio” che ha fatto stupire e commuovere, tanto è parso inaspettato, imprevisto, impossibile. Nonostante i versi della canzone che Ghali aveva portato in gara – “Casa mia” – fossero abbastanza espliciti, la lettura tra le righe si era resa comunque necessaria, chiarendo il clima generale di censura rispetto all’attualità palestinese.

Di alzare un polverone non mi va (va)
Ma, come fate a dire che qui è tutto normale
Per tracciare un confine
Con linee immaginarie bombardate un ospedale
Per un pezzo di terra o per un pezzo di pane
Non c’è mai pace

Davanti a lui, in platea, un pubblico che applaude ma non accoglie, che con sguardo paternalista osserva “quello che ce l’ha fatta”, purché resti un caso isolato. Dietro le quinte e tutto intorno, il governo più a destra della storia italiana, guidato da una premier che in Tunisia è andata, ma per siglare con il presidente Kais Saied un “partenariato strategico”. Un nome altisonante per quello che è, in fin dei conti, solo un accordo per limitare la migrazione verso l’Italia di cittadini dal continente africano in cambio di denaro. Un governo che in nome del politically correct tollera una “quota non-bianca” sulla televisione di Stato, ma che continua ad opporsi fieramente alle modifiche di legge necessarie a riconoscere automaticamente la cittadinanza italiana a chi nasce in Italia da genitori “stranieri”, in nome di un nazionalismo identitario mai stato così forte.

Una discriminazione, questa, da sempre denunciata nei testi di Ghali, con la leggerezza di chi è consapevole dell’ingiustizia persino paradossale in cui è costretto. “Il giornale ne abusa/parla dello straniero/come fosse un alieno”, aveva cantato in uno dei suoi brani più popolari, “Cara Italia”. E lo ha ribadito nel brano portato in concorso a Sanremo quest’anno.

La strada non porta a casa
Se la tua casa non sai qual è
Casa mia
Casa tua
Che differenza c’è? Non c’è
Ma qual è casa mia
Ma qual è casa tua
Dal cielo è uguale, giuro

Un “italiano vero” che canta in arabo

Ed è nell’intersezione esistente tra razzismo e islamofobia, tra nazionalismo e incondizionato sostegno a Israele, che si può leggere la portata dei versi cantati da Ghali a Sanremo. In un paese che si percepisce ancora molto più bianco di quanto non sia davvero, e che delle sue “radici giudaico-cristiane” ha fatto uso politico, Ghali – con il suo volto non bianco e il suo accento marcatamente milanese – sale sul palco e canta in arabo. Di più: lo mescola all’italiano, per mandare un messaggio ancora più forte.

Lo fa grazie alla collaborazione con Ratchopper, nome d’arte di Souhayl Guesmi, talentuoso artista originario di Jendouba, ingegnere del suono, compositore e producer, diventato celebre prima in Tunisia e poi all’estero, e che dal 2022 collabora con Ghali. In particolare, per la realizzazione del primo brano in lingua araba cantato da quel palco: Bayna, in arabo “vederci chiaro”. Canzone di apertura dell’album “Sensazione Ultra”, del 2022, “Bayna” è anche il nome scelto dall’artista per l’imbarcazione che ha donato alla ong Mediterranea, che in 2 anni ha salvato oltre 200 persone nel loro viaggio verso le coste italiane.

Mediterraneo
Tra me e te il Mediterraneo
Il volto familiare di un estraneo
Immagina il Corano nella radio
Non parlano bene di noi al notiziario
Tu sogni l’America io l’Italia
La nuova Italia

Bayna mi ha permesso di mantenere la promessa di cantare in arabo sul palco di Sanremo”, ha scritto Ghali sui suoi account. “Grazie a Bayna e a Mediterranea abbiamo salvato delle vite nel nostro mare. Amo e credo in questo paese che ripudia la guerra per Costituzione. Sono anch’io un italiano vero”.

Ed è in quest’ultima performance, nella riappropriazione e nel ribaltamento semantico di un brano come “Italiano vero” di Toto Cutugno, divenuto quintessenza del più provinciale approccio nazional-popolare, che Ghali lancia il suo messaggio più dissacrante. Con grazia prende quel testo e lo ribalta. Lo rovescia addosso al nazionalismo del governo di Giorgia Meloni, alle sue alleanze leghiste, a un ventennio di frontiere chiuse e politiche identitarie, alle recenti alleanze con governi oscurantisti e conservatori in cui l’Altro è sempre e comunque minaccia da contenere. Un indirizzo politico chiaro, reso evidente dai cambi al vertice imposti alla televisione di Stato dal governo, che ha nominato Giampaolo Rossi come Direttore generale della Rai. Direttore scientifico di Fondazione Alleanza Nazionale e aperto sostenitore di Israele, Rossi è anche editorialista de Il Giornale, per il quale porta avanti l’ideologia politica che tiene insieme antisemitismo e immigrazione, legando il primo fenomeno all’evidente “islamizzazione” delle città europee, la cui “cristianità” dovrebbe essere invece difesa.

“Il nuovo antisemitismo è legato al processo immigratorio e al radicamento di comunità islamiche irriducibili ai valori dell’Occidente, nei paesi europei. E non è un caso che la violenza contro gli ebrei cresce insieme a quella contro i cristiani” scriveva già nel 20182

È in questo quadro di crescente censura, in cui qualsiasi critica alle politiche israeliane diventa un’automatica accusa di antisemitismo, che si colloca anche la brutale repressione poliziesca dei giorni seguenti alla diffusione del comunicato Rai. Quando il 13 febbraio, davanti alle sedi locali della tv di Stato, prima a Napoli e poi a Torino, i manifestanti che avevano organizzato pacifici sit-in per protestare contro un’informazione divenuta ormai propaganda, sono stati violentemente malmenati e repressi dalla polizia3. I fatti sono stati per lo più riportati dalla stampa, naturalmente, come “scontri”.

In un tale contesto, è alieno Ghali quanto il suo pupazzo. Lo sono le persone che tentano di prendere parola sulla Palestina, di nominarla perché esista. Lo sono i giornalisti che cercano di restare ancorati ai fatti, ma che non trovano spazio nella televisione pubblica. E per scandire una parola di umanità come “fermare il genocidio”, è servito un italiano tunisino, alieno tra gli alieni.

“Qui parliamo di musica”, è stato il leit motiv ricorrente per fermare qualsiasi dibattito intorno all’attualità palestinese, e non solo, in queste ore. Ma la storia del cantautorato italiano – oggi attraversata dalla voce e dal posizionamento delle “seconde generazioni” - racconta molto altro. Perché quelle portate sul palco di Sanremo non sono, né saranno mai, “solo canzonette”.