Letteratura

Palestina. Stupro di guerra, terra di memoria.

N.D.R. La Fiera del Libro di Francoforte prende la scioccante decisione di sospendere il premio previsto per la scrittrice palestinese Adania Shibli per il suo romanzo «Un dettaglio minore», di fatto punendola per il solo fatto di essere palestinese. In segno di solidarietà con la scrittrice, ripubblichiamo questa recensione, originariamente uscita nel 2021 in occasione della traduzione in italiano del romanzo per la traduzione di Monica Ruocco e i tipi di La nave di Teseo.


Nell’agosto del 1949, i soldati israeliani violentano ed uccidono una giovane beduina del Negev. Settant’anni dopo, Adania Shibli trasforma questo fatto di cronaca in un romanzo dissacrante diviso in due parti: la prima tratta lo stupro come arma di guerra, l’altra la memoria e l’oblio.

Il museo viene improvvisamente chiuso, sei auto della polizia bloccano la strada e una palestinese, con portatile e taccuino in mano, viene arrestata dai servizi segreti israeliani. Non è l’inizio di un romanzo, ma è ciò che è accaduto a Adania Shibli mentre svolgeva le sue ricerche per la stesura del suo ultimo romanzo Un dettaglio minore. Accusata di spionaggio per conto dell’Iran, alla fine viene rilasciata, dichiarando tra l’altro che sta lavorando ad «una storia d’amore finita male».

Un dettaglio minore non è una storia d’amore. Il romanzo si apre con uno stupro collettivo, poi con l’omicidio di una ragazza beduina da parte dei soldati israeliani di stanza nel deserto del Negev nel 1949. Il romanzo prende spunto da un articolo pubblicato nel 2003 da Haaretz,1 che racconta questo crimine compiuto dall’esercito israeliano, solo di recente reso pubblico, per il quale venti soldati e un ufficiale hanno scontato il carcere.

La prima parte del romanzo è incentrata su questa storia. Un ufficiale ordina ad un’unità israeliana di stanza nel Negev di «rastrellare la zona sud-occidentale [...] per ripulirla dagli arabi che vi erano rimasti» (p. 8). Durante una missione, i soldati incontrano un gruppo di beduini, li uccidono tutti tranne una ragazza che viene condotta nel loro campo. Al crepuscolo, i soldati festeggiano l’evento e l’ufficiale chiede loro di decidere cosa fare della giovane prigioniera: se dovrà essere d’aiuto nelle cucine o se i soldati potranno violentarla a turno. I soldati scelgono la seconda opzione. La precisione, la ripetizione e le descrizioni donano un aspetto chirurgico e glaciale ad ogni scena di questa prima parte.

La seconda parte invece si svolge ai giorni nostri e racconta il percorso di una palestinese che vuole indagare su questo crimine per restituire il punto di vista della vittima. Leggendo l’articolo, la ragazza palestinese, di cui non si conosce né il nome né la professione, s’interessa alla vicenda, non tanto per un senso di ribellione verso il crimine, ma perché la data della morte della ragazza beduina coincide, venticinque anni dopo, con quella della sua nascita. È questo il «dettaglio minore» che dà il titolo al romanzo.

Se è vero che Un dettaglio minore riprende i grandi temi della letteratura palestinese come la cancellazione della storia e della geografia o l’occupazione israeliana, si allontana però dai grandi classici impegnati della resistenza per esplorare un’altra forma di narrazione più complessa che tiene insieme storia e presente e che interroga ognuno di noi. Ma soprattutto va oltre il contesto del conflitto israelo-palestinese per inserirsi nel filone di una letteratura universale, che ricorda il capolavoro di J.M. Coetzee Aspettando i barbari, in cui una «barbara» è prigioniera dei soldati di stanza al confine delle frontiere desertiche di uno Stato lontano.

Confini molteplici

Un dettaglio minore è il romanzo dei molteplici confini. Il confine tra la finzione e la realtà. Il romanzo riporta episodi di violenza realmente accaduti che l’autrice racconta alla sua maniera, talvolta con sensibilità e poesia, altre volte con freddezza e precisione. Ogni frase, ogni dettaglio ha valore perché riporta aspetti reali che dimostrano la situazione d’apartheid vissuta dai palestinesi, e anche perché alimentano la vicenda narrativa. E poi ci sono ovviamente i confini geografici rappresentati dal deserto che segna i limiti dello Stato d’Israele nel 1949 e gli attuali posti di blocco a cui devono fra fronte i palestinesi. L’autrice denuncia l’impossibilità di muoversi per molti palestinesi, condannati alla reclusione permanente in territori dalle dimensioni ridotte sotto il controllo dell’esercito israeliano. Oltre i confini fisici ci sono anche i confini psicologici, ciò che una palestinese può fare o non può fare:

Ad esempio, quando una pattuglia militare ordina al minibus che prendo per andare al mio nuovo lavoro di fermarsi, e la prima cosa che si infila attraverso lo sportello è la canna del fucile, io chiedo al soldato, balbettando, molto probabilmente per la paura, di metterlo di lato quando parla con me oppure quando mi ordina di mostrargli il documento d’identità. A questo punto, il soldato comincia a prendermi in giro perché balbetto, mentre gli altri passeggeri attorno a me si mettono a protestare perché la mia reazione è esagerata, e non è il caso di creare tutta questa tensione (p. 67).

Resistere alla dimenticanza

Sono i dettagli che si trovano nella natura che creano ponti tra il dramma del passato e la ricerca del presente: un cane, un ragno, un ciuffo d’erba. La natura occupa un posto importante nella narrazione, perché rappresenta l’occupazione israeliana della terra e l’ossessione di controllare la natura. Maniaco dell’igiene, l’ufficiale israeliano stermina tutti i ragni che cerca minuziosamente in ogni angolo della sua tenda.

Un ragno dalle zampe sottili era attaccato sul lato posteriore. Allungò la mano destra e lo schiacciò, poi continuò a strisciare verso il letto. Alcuni piccoli ragni si erano acquattati lì sotto ed avevano intessuto con i loro fili sottili una ragnatela all’interno della quale era rimasto intrappolato uno scarafaggio grigio, ormai morto. Dopo averli tirati fuori con lo stivale, li calpestò. Si chinò nuovamente, avvicinò la testa al pavimento ispezionandolo con attenzione. Poi, improvvisamente, cominciò a saltare da un angolo all’altro, schiacciando i numerosi piccoli insetti che strisciavano dappertutto (p. 25).

Si comporta allo stesso modo quando insegue gli arabi nelle dune del Negev uccidendo tutti gli uomini che incontra, e anche il branco di cammelli che li accompagna. Ognuno di questi gesti rivela un carattere metodico e violento. La scena in cui spoglia con violenza la giovane prigioniera di fronte a tutti i suoi soldati, le taglia i capelli e la lava con la benzina dice molto di più di quanto Shibli potrebbe dire descrivendo uno stupro di gruppo. L’ufficiale israeliano si appropria dello spazio occupandolo e dei corpi sottomettendoli per farli sparire.

Una volta cancellati i corpi, resta da ricostruire la memoria e controllare il territorio. Il viaggio in macchina da Ramallah al Negev, passando per Giaffa, è una testimonianza delle trasformazioni del paesaggio. La distruzione dei villaggi e i nuovi nomi delle città sono i primi segni della cancellazione della presenza palestinese, che soltanto la mappa del 1948 e alcune rovine possono ancora rivelare. Si scopre così la pianificazione del territorio israeliano con gli insediamenti, le strade, il muro e la costruzione della memoria con musei e nuovi nomi dati ai luoghi. In maniera ironica, l’autrice trasforma perciò un colono australiano, appassionato di storia e fotografia, nel guardiano della memoria israeliana.

Nonostante tutti gli sforzi degli israeliani, sia la natura sia i palestinesi che vivono in queste terre non potranno mai scomparire. Le rovine dei villaggi distrutti perdurano nel paesaggio. Ma soprattutto la donna palestinese che vive ai giorni nostri è vista come una sorta di reincarnazione della donna beduina assassinata nel 1949:

In un certo senso, la cosa eccezionale di questo assassinio, che rappresenta l’atto finale di uno stupro di gruppo, è che ha avuto luogo una mattina che avrebbe coinciso, esattamente venticinque anni dopo, con la mattina in cui sono nata, e questo è tutto. Inoltre, non si può escludere del tutto una possibile connessione tra i due eventi, o l’esistenza di un collegamento misterioso, come quello che a volte lega gli individui alle piante, ad esempio, come quando si strappa una pianta dalle radici, e si pensa di essersi sbarazzati di essa una volta per tutte, ma la stessa pianta ricresce esattamente nello stesso punto, venticinque anni dopo (p. 74).

Al di là di ciò, si tratta anche di sanare il passato facendo sentire la voce delle vittime. La vittima del crimine del 1949 non ha potuto esprimere la propria. Tra l’altro, l’autrice la lascerà in silenzio. In compenso, la voce narrante della seconda parte riprende in mano la storia per due motivi: da una parte, decide di ridare la parola a colei che è condannata al silenzio e, dall’altra, racconta ciò che lei stessa subisce ogni giorno sotto l’occupazione israeliana. Condivide con il lettore i suoi sentimenti e soprattutto la paura che lei stessa prova. La paura di fronte ai posti di blocco, l’angoscia quando deve scegliere un posto per l’auto in un parcheggio vuoto. È lei che occupa la narrazione. Al contrario, il lettore non entrerà mai nella testa dell’ufficiale, come se l’autrice non potesse trasmettere i sentimenti e i pensieri del criminale. È per questo che lo stupro, seppur mostruoso e scioccante, non rappresenta il centro del romanzo. Il congegno narrativo, la forma e il linguaggio si rivelano così potenti che, mettendo maggiormente in luce i fatti antecedenti e le conseguenze del crimine anni dopo, consentono all’autrice di tratteggiare un ritratto sorprendente della Palestina d’oggi, in appena 144 pagine.

1Aviv Lavie, Moshe Gorali «I Saw Fit to Remove Her from the World», Haaretz, 20 ottobre 2003.