Intervista

Quando il camerino mostra le rughe. Intervista con Bissane Al Charif

La scenografa e artista visiva palestinese-siriana Bissane Al Charif, residente in Francia dal 2012, ha debuttato alla regia teatrale con Dressing Room, un’opera presentata nella primavera del 2024. Astrid Chabrat-Kajdan l’ha incontrata per Orient XXI a Napoli, in occasione della sua partecipazione al Campania Teatro Festival, diretto da Ruggero Cappuccio, nell’ambito del Focus “Now Med, Beyond Swana”, coordinato da Brunella Fusco.

Una donna legge appunti davanti a un tavolo con piante e oggetti, su uno sfondo neutro.
©Agnès Mellon

Bissane Al Charif si presenta come ideatrice del progetto, ma va ricordato che Dressing Room è il risultato di una scrittura collettiva realizzata insieme all’attrice siriana Hala Omran e all’autore e regista teatrale Wael Ali, responsabile della drammaturgia. Lo spettacolo è inoltre basato su numerose video-interviste condotte con donne che vivono sulle due sponde del Mediterraneo. L’opera indaga l’intreccio profondo tra gli effetti del tempo e quelli della Storia sulle donne arabe. Sono proprio queste rughe, insieme intime e collettive, che la regista decide di portare allo scoperto, fuori dal camerino.

ASTRID CHABRAT-KAJDAN – È scenografa e artista visiva da oltre vent’anni. Con Dressing Room firma la sua prima regia teatrale. Cosa l’ha spinta a decidere di creare uno spettacolo?

BISSANE AL CHARIF – Penso che ogni tema che mi coinvolge debba trovare una forma espressiva propria. Non mi piace essere incasellata in etichette come “artista visiva” o “scenografa”… Mi interessano piuttosto l’apertura e il dialogo tra arti e discipline molto diverse. Inoltre, Dressing Room è nato come un progetto collettivo con Hala Omran, l’attrice in scena, e Wael Ali, con cui avevo già collaborato come scenografa. Era evidente, fin dall’inizio, che questa volta si trattava di un lavoro da portare in scena. È il contenuto stesso, per me, a determinare la forma.

Una donna versa acqua in un bicchiere accanto a piante aromatiche su un tavolo.
©Agnès Mellon

A.CK. – Quando si assume il ruolo di regista, si diventa anche responsabili del progetto. Potrebbe raccontare come avete gestito la produzione? E perché i festival si sono tanto mobilitati per sostenervi?

B.AC. – Il progetto è nato più di tre anni fa. Tutto è cominciato da un problema fisico: ho iniziato a scrivere un piccolo testo, che ho fatto leggere subito a Wael e Hala. Poi abbiamo detto: “Dobbiamo portarlo in scena!”. Abbiamo fatto richiesta per delle borse, la prima in Francia, ma ci hanno rifiutato senza spiegazioni. Allora ho fatto domanda per borse del mondo arabo, che mi avevano già sostenuta per altri progetti visivi o per spettacoli dove ero scenografa. Anche i dossier di candidatura sono stati scritti collettivamente. Poi abbiamo avuto il sostegno dell’associazione palestinese e con sede a Lione Karabib, che ci ha offerto la prima residenza. Ci hanno dato lo spazio, il minimo indispensabile, e abbiamo coperto gli altri costi con i finanziamenti arabi. L’obiettivo era filmare una prima versione, una sorta di “pilota” di quindici minuti, per costruire il dossier di produzione.

Julie Kretzschmar, direttrice del festival Les Rencontres à l’Échelle, ci ha poi proposto una vera residenza alla Friche La Belle de Mai. È stata la nostra residenza principale, ed è durata quindici giorni, con buone condizioni tecniche. Quella di Lione, invece, è durata solo cinque giorni e avevamo davvero il minimo indispensabile.

Tengo molto a presentare lo spettacolo in Francia perché la maggior parte delle donne che ho intervistato vive qui. Sono loro il mio primo pubblico. Ho mandato molte candidature, ricevuto molti rifiuti. Devo dirlo, anche se forse non piacerà: lo spettacolo è intimo, sì, ma siamo siriani, e nel periodo in cui ho proposto il progetto la Siria non era più “di moda”. Se fosse stato nel 2011 o 2014, sarebbe stato diverso.

Oggi la cultura è in crisi, non ci sono soldi – forse è questa la vera ragione, ma Dressing Room debutterà comunque in Francia in autunno al festival Les Francophonies di Limoges, e sarà anche al festival Dream City a Tunisi a ottobre. Sono solo festival. Ma non tutti…

Non voglio criticare Avignone e il suo rapporto con la lingua araba, ma… ad Avignone l’arabo non è presente per davvero. Ci sono spettacoli in piccoli formati, ma non veri spettacoli teatrali, come se il mondo arabo non avesse un teatro. È insultante. È una questione economica, politica, culturale. Stanno sempre più marginalizzando questa parte del mondo.

A.CK.Dressing Room è frutto di una collaborazione con Hala Omran e Wael Ali, con cui avete scritto il testo. Avete anche condotto interviste video con donne siriane, palestinesi, libanesi ed egiziane. Come le avete integrate nel progetto? Avevate una lista fissa di domande?

B.AC. – Ho cominciato con delle amiche di mia madre, tra cui l’attrice e critica teatrale Minha Bat Rawi, che parla anche francese. Cercavo donne bilingui, perché la questione linguistica è al centro dello spettacolo: in che lingua lo si presenta? Noi tre viviamo in Francia, siamo arabo-francesi. Usiamo l’arabo, il francese, una combinazione delle due lingue? L’inglese?

Poi ho cercato altre donne aperte a questo tipo di scambio, guidata molto dal mio intuito. Le interviste non sono servite solo come video da proiettare, ma anche come base per la scrittura. Ho iniziato da qualcosa di concreto: la menopausa, con i sintomi che vivevo io stessa. Molte donne li avevano già attraversati. E così il mio sguardo si è allargato. Avevo un canovaccio di domande, ma lasciavo che seguissero il loro desiderio di parlare, perché non si trattava solo di me. La crisi personale del corpo è collegata a una crisi più ampia, politica.

A.CK. – Hala dice in scena che Randa, una delle intervistate, vi ha fatto notare che, se aveste voluto raccontare tutte le storie raccolte, lo spettacolo sarebbe durato tre giorni. Quante ore di registrazioni avete accumulato? E come avete selezionato e organizzato il materiale?

B.AC. – Ho cercato di mantenere le interviste in formato breve, di circa un’ora e mezza, ma complessivamente si tratta ore e ore di registrazioni. Volevo che ogni donna fosse presente, anche solo per trenta secondi. Spesso sentiamo una frase e poi si passa a un’altra. Volevo mostrare tutto. Cosa succede quando metti insieme frasi provenienti da paesi e dialetti diversi?

La selezione è la grande questione del teatro documentario. Cerco i momenti forti, senza censurare, ma non posso mostrare più di venti minuti di video. Ho già corso un rischio così: mostriamo circa venticinque minuti durante i quali Hala non parla. Era frustrante anche per lei.

Taglio i tempi morti per far emergere “il momento”. Ho girato tutto con il telefono, da sola o al massimo con una persona che mi accompagnava. Non volevo un’estetica formale. Anche questo è importante.

A.CK. – Il tema dello spettacolo è molteplice: si parte dagli effetti dell’età sulle donne e si arriva agli effetti della Storia e della politica. Il filo conduttore sembra essere la trasmissione. Penso al momento in cui Hala prepara in scena un rimedio della nonna mentre dietro di lei scorrono le interviste. Le donne sembrano partecipare alla preparazione…

B.AC. – Sì, la questione della trasmissione è ciò che collega tutto. La trasmissione da una generazione all’altra è centrale per noi e particolarmente per Wael. Tutto il discorso sulle erbe e i rimedi è legato a questo, ma è anche un’ossessione condivisa con Hala. Abbiamo paura di cosa succede al corpo con l’età. Hala, come attrice, si chiede fino a quando potrà lavorare.

Abbiamo trovato un libro con ricette magiche: lo zafferano ha un ruolo centrale. Ho letto che può aiutare contro la menopausa e la depressione. Lo zafferano vero, non quello delle tisane da farmacia. Abbiamo continuato a cercare, parlando anche di salvia, geranio…

A.CK. – Lo spettacolo propone anche una riflessione sul teatro stesso, sulla sua pratica e sulla sua funzione. Minha dice che per lei è difficile affermare che si possa ancora creare arte, oggi. Voi integrate queste riflessioni nello spettacolo, senza fornire per forza risposte. È questa l’idea del formato “aperto”?

B.AC. – La domanda è: come parlare di noi, di ciò che accade intorno, con tutti questi eventi violenti? Come possiamo lavorare a teatro mentre ascoltiamo le notizie dalla Palestina e dalla Siria?

Non volevo realizzare un progetto sulla guerra. Dopo 14 anni in Francia, ero stanca di essere la palestinese-siriana che parla sempre di guerra. Volevo parlare del mio corpo, della menopausa. Ma era tutto più grande di me, e mi ha travolta. Mi è successo anche in altri progetti.

Stava lavorando a un’installazione sull’amore con l’artista libanese Chrystèle Khodr, e alla fine si è trasformata in una riflessione sull’amore in tempo di guerra. È così dal 2012.

E poi sono le donne stesse che ci hanno riportati alla guerra. Avevano bisogno di parlarne. Non sarebbe stato giusto ignorarlo. Ora, vorrei integrare nel progetto anche l’esperienza di altre donne, tramite laboratori prima delle repliche. L’abbiamo fatto in Egitto, non a Napoli. Vorrei che il progetto restasse vivo, che evolvesse.

Donna in abbigliamento scuro, esprime emozione mentre parla, con gesti e sguardo intenso.
©Bissane Al Charif

A.CK. – Modificare lo spettacolo in base al luogo in cui si rappresenta sembra funzionale. Avete previsto che potesse essere adattabile per il pubblico arabo come per quello europeo?

B.AC. – Sì, doveva essere flessibile. Fin dall’inizio volevamo che fosse presentabile nel mondo arabo e in Europa, o altrove. Per fortuna Hala parla arabo, francese e inglese. Vogliamo sperimentare con le lingue. Hala deve “agganciare” il pubblico all’inizio. Cambiamo anche le battute, lasciamo margine d’improvvisazione. Può dire ciò che vuole, bloccare i soprattitoli, passare da una lingua all’altra. Lo spettacolo cambia ogni volta. Immaginate se una delle donne intervistate fosse presente tra il pubblico: lo spettacolo cambierebbe. L’unica ad averlo visto è stata Minha al Cairo. All’inizio era scioccata. Poi, dopo un giorno, mi ha scritto un bellissimo messaggio per incoraggiarmi. La trasmissione continua. Questo progetto mi ha insegnato tanto a livello personale. La distanza che queste donne hanno rispetto a ciò che viviamo con tanta intensità… mi ha calmata. Credo sia questo il frutto principale di questo lavoro.