La notte del 26 febbraio la spiaggia di Steccato di Cutro, un piccolo borgo di pescatori della Calabria ionica, è stata illuminata da decine di candele: una folla silenziosa, composta da superstiti, familiari, attivisti e cittadini, si era riunita per commemorare il secondo anniversario del naufragio della Summer Love.
L’imbarcazione, salpata da Smirne il 22 febbraio 2023 con circa 180 persone a bordo, perlopiù afgane e iraniane, dopo una violenta collisione con una secca stagionale era andata distrutta a pochi metri dalla riva. Furono 94 le vittime, di cui 34 bambini, e 11 i dispersi. Tra loro, anche Atiqullah, il cugino diciassettenne di Alidad Shiri, un giornalista afgano arrivato in Italia 18 anni fa che ha fatto da interprete ai parenti per il riconoscimento delle salme dopo l’incidente. Non avere neanche un corpo su cui piangere crea un tipo particolare di dolore, ha spiegato Shiri, che ha da poco trovato il coraggio di dire alla zia che suo figlio non è stato ancora ritrovato. “Ma lei non si rassegna. Prega ogni giorno. Viviamo quotidianamente con questa angoscia, con un dolore che ci consuma, nella speranza che il corpo di mio cugino sia riportato a casa, ma anche con una ferita che non si rimargina”.
Quello della famiglia Shiri, purtroppo, non è un caso isolato. Secondo Julia Black, funzionaria del Missing Migrants Project , delle quasi 70mila persone morte e scomparse sulle rotte migratorie di tutto il mondo dal 2014 al 20251 più di 30mila sono state registrate come disperse o presunte morte. Il progetto, creato dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM ) dopo il naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 che causò 368 vittime, è l’unico database online che documenta i decessi globali, elabora report e infografiche dei dati raccolti, calcola i rischi dei tragitti più pericolosi e pubblica informazioni utili per chi cerca i propri cari.
Solo nella regione mediterranea, sono quasi 32mila i morti e i dispersi: di questi, più di 20mila sono dispersi in mare”, precisa Black, confermando che è il Mediterraneo centrale la rotta più letale, con quasi 25mila decessi registrati in 11 anni.
“Ciò è dovuto a rischi reali, perché spesso vengono usate imbarcazioni sovraccariche e poco affidabili per una traversata che richiede diversi giorni anche nelle migliori condizioni”, spiega. “Inoltre, qui c’è una forte presenza di monitoraggio, con ONG e guardie costiere che pattugliano e conducono operazioni SAR con relativa regolarità. Rispetto ad altre rotte, come quella atlantica, quella delle isole Canarie o ai viaggi in mare verso Mayotte, il Golfo del Bengala o i Caraibi, i nostri dati nel Mediterraneo centrale sono molto più completi, anche se ancora altamente imperfetti: ogni anno registriamo centinaia di casi di resti che affiorano sulle coste nordafricane non collegati ad alcun naufragio noto”.
Il Missing Migrants Project raccoglie le proprie informazioni da registri ufficiali, resoconti di media e ONG , sondaggi e interviste ai migranti.
Abbiamo una rete di centinaia di attori tra governi, società civile, giornalisti e agenzie delle Nazioni Unite che ci segnalano regolarmente quando vengono a conoscenza della morte di un migrante, prosegue Black.
“Purtroppo, però, non esiste alcun governo che riferisce sugli scomparsi a livello federale quindi i nostri dati si basano su fonti diverse. Sappiamo che molti dati sfuggono e cerchiamo di essere il più trasparenti possibile pubblicando ogni caso che registriamo citando le nostre fonti. Siamo sempre aperti a ricevere nuove informazioni di qualsiasi provenienza, ma indaghiamo comunque su ogni caso: si tratta di un processo piuttosto laborioso e delicato, sia in termini di triangolazione delle informazioni tra attori con sensibilità diverse sia per l’impatto psicologico che le indagini su questi decessi hanno sul nostro personale”.
Famiglie spezzate
Migliaia di corpi senza nome giacciono sotto lapidi anonime o in fosse comuni nei cimiteri delle località costiere dell’Europa meridionale. Per ognuno di loro c’è una famiglia in attesa di notizie che vive sospesa tra disperazione e speranza: una condizione, talvolta, persino peggiore di quella di chi almeno ha una tomba su cui piangere. Ogni religione prevede specifici rituali per onorare i propri defunti rispondendo a un bisogno ancestrale dell’essere umano nel difficile percorso dell’elaborazione del lutto: non sapere se un parente sia vivo o deceduto può causare gravi disturbi neuropsichiatrici e comportamentali. “Oltre alle difficoltà psicologiche e al dolore infinito, ci sono molti ostacoli pratici, come questioni legali, impatti economici e stigmatizzazioni sociali, che derivano da un caso non risolto di persona scomparsa”, aggiunge Black. Senza certificati di morte, per esempio, è estremamente complicato gestire le prassi burocratiche inerenti beni e proprietà o procedere con affidamenti, adozioni e ricongiungimenti dei minori rimasti orfani.
Non so cosa farò. Le mie speranze e i miei sogni sono andati via con lei. […] Ogni volta che qualcuno bussa alla porta, corro ad aprire sperando che sia mia figlia che è tornata. So che non è morta perché la vedo nei miei sogni. Il mio cuore mi dice che è viva”, racconta la madre di una giovane etiope sparita durante il viaggio. “Non sappiamo quale istituzione sia responsabile di fornire informazioni relative ai migranti scomparsi”, lamenta una sua connazionale, alla disperata ricerca del figlio. “Non so dove andare o a chi chiedere nel governo. In secondo luogo, è impossibile andare nel paese in cui [lui] è scomparso perché non posso permettermelo. Quello che posso fare è ottenere notizie dal delala [trafficante] che ha facilitato il suo viaggio […] Inoltre, ho paura di andare all’ufficio governativo perché ho sentito di famiglie che hanno mandato i loro figli tramite mezzi illegali e che sono state arrestate e imprigionate. Quindi quello che posso fare è continuare a pregare, sperando che un giorno il mio Dio mi annunci buone notizie.2
Completamente abbandonate dalle istituzioni, queste famiglie possono contare sono solo su qualche professionista che sostiene la loro causa e su alcune associazioni della società civile. La Croce Rossa Internazionale consente a chi ha smarrito un parente di pubblicare la propria fotografia nella galleria virtuale Trace the Face per permettere alle persone sparite di sapere che qualcuno le sta cercando. Il servizio è gratuito e attivo in diversi paesi grazie alla collaborazione della Mezzaluna Rossa e di decine di volontari che ogni mese affiggono nei principali luoghi di transito, stazioni di treni e bus o centri di accoglienza, un poster con il ritratto di chi vuole riconnettersi con i migranti svaniti nel nulla. L’archivio contiene 7018 immagini e finora ha permesso 299 ricongiungimenti.
Il diritto di sapere
Negli ultimi anni la migrazione è diventata una delle principali cause di scomparsa delle persone, oltre ai conflitti armati, alla violenza e ai disastri naturali. Il fenomeno è così diffuso che il 30 agosto si celebra la giornata mondiale delle vittime di sparizioni forzate. Oltre a rispecchiare il profondo anelito di chi resta, il diritto di conoscerne la sorte è sancito dalla Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata approvata dall’Assemblea generale dell’ONU nel 2006, che per la prima volta definisce questa condizione una violazione dei diritti umani.
Anche l’identificazione delle salme è un obbligo civile, penale e umanitario menzionato nella Convenzione di Ginevra e nel Diritto Umano Internazionale, benché nessun paese europeo imponga per legge il riconoscimento di quelle dei migranti morti in mare. A differenza dei cadaveri rinvenuti in altri contesti, infatti, per quelli trovati lungo le coste a seguito di un naufragio non viene aperta alcuna indagine né vengono prelevati campioni di DNA per risalire alla loro identità.
Il contributo della scienza
Il laboratorio di antropologia e odontologia forense dell’Università degli studi di Milano Labanof è una delle rare eccezioni. Dal 1995 lavora incessantemente “affinché tutti i corpi senza nome siano riconosciuti” collaborando con diversi ambiti: criminale, giudiziario, storico-archeologico e umanitario. Negli ultimi dieci anni, infatti, la sua equipe di medicina legale si dedica anche al delicato compito di recuperare, catalogare e ricomporre i resti dei migranti deceduti nel Mediterraneo.
Dopo Lampedusa, l’Italia è stato l’unico paese europeo a portare avanti un lavoro tecnico sulle spoglie delle vittime grazie all’impegno congiunto dell’Ufficio del Commissario Straordinario per le Persone Scomparse, dell’Università degli Studi di Milano, della Marina Militare, dei Vigili del Fuoco, della polizia scientifica, delle prefetture, delle procure e della Croce Rossa Internazionale, italiana e svizzera. Circa 300 persone in cerca dei loro cari deceduti in quella tragedia si mobilitarono da vari paesi, ricorda Cristina Cattaneo, docente di medicina legale e del lavoro presso l’Università degli Studi di Milano, presidente e cofondatrice di Labanof.
C’era un grande scetticismo e tutti ci ripetevano: nessuno verrà a cercarli. Noi lanciammo una chiamata attraverso le ambasciate e, nonostante fosse passato già un anno dal naufragio, si presentarono ben ottanta famiglie. C’era gente che dormiva sulle panchine, in macchina, fuori dall’Istituto pur di venire a darci qualcosa. Era commovente, portavano ciocche di capelli, frammenti di unghie e tutto ciò che pensavano potesse essere utile per identificare un figlio, un fratello, una moglie. Grazie a quelle famiglie riuscimmo a restituire l’identità a cinquanta persone. Un risultato incredibile, che potrebbe diventare una regola se solo si mettessero in comunicazione le banche dati che raccolgono le informazioni dei morti in mare con quelle delle segnalazioni degli scomparsi fatte nei vari paesi europei. Basterebbe poco, è solo una questione di volontà.
Insieme a 13 università italiane, Labanof da dieci anni tenta di ridare un nome anche agli oltre mille passeggeri dell’imbarcazione affondata il 18 aprile 2015 nel Canale di Sicilia: guardando nelle loro tasche, Cattaneo prova a ricostruirne l’identità. In “Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo” (2018), un bestseller internazionale tradotto in numerose lingue, la Dottoressa racconta alcune di queste storie, come quella del giovane eritreo che viaggiava portando con sé un sacchetto di terra del suo paese o del bambino che nel giubbotto aveva cucito la pagella scolastica, scritta in francese e in arabo. “Abbiamo visto un rotolo di carta intriso di acqua marcia e, stendendolo e facendolo asciugare, abbiamo visto che era una pagella con i voti della scuola secondaria che seguiva: ti cuci addosso quello che è più caro per te stesso e per il tuo futuro”, ha commentato in un’intervista .
Dal 30 settembre al 3 ottobre 2024 il Comitato a Lampedusa si è svolto il progetto “Protect People Not Borders”, un ciclo di eventi rivolto a studenti degli istituti secondari europei. I molti workshop, dibattiti, spettacoli e tavole rotonde hanno ospitato persone sopravvissute ai naufragi, parenti delle vittime, giornaliste e giornalisti, rappresentanti di ONG , agenzie ONU e delle istituzioni italiane ed europee. Le quattro giornate si sono concluse con la commemorazione delle vittime del naufragio del 2013.
Fonte: dalla pagina Facebook del Comitato.
Un’altra figura chiave di questo meticoloso processo è Tareke Brhane, l’attivista eritreo che, dopo Lampedusa, ha creato il gruppo Facebook Comitato 3 ottobre , poi trasformato nell’omonima organizzazione senza scopo di lucro , e che negli anni ha organizzato molte iniziative a sostegno dei parenti delle vittime. Insieme alla specializzanda in medicina legale dell’Università Statale di Milano Annalisa D’Apuzzo, Brhane è da poco stato in Uganda per prelevare campioni di DNA dalle famiglie dei naufraghi e spera di poter organizzare altre missioni simili in Africa nel futuro.
La sua associazione ha recentemente lanciato una petizione online per chiedere all’Europa di creare database nazionali per raccogliere indicazioni sulle spoglie senza nome e sugli scomparsi, istituire un ente transnazionale per confrontare i dati sui cadaveri di ignoti delle diverse agenzie locali con quelli sui migranti dispersi e predisporre hub dove le loro famiglie possano fornire e ricevere notizie rendendo obbligatoria la condivisione delle informazioni ante mortem e post mortem.
Un’ecatombe senza fine
I brandelli dei corpi che il mare restituisce ogni giorno sulle nostre coste testimoniano i continui naufragi che il governo italiano tenta vergognosamente di nascondere all’opinione pubblica. Lo scorso aprile un pescatore ha trovato i resti di un bambino sulla spiaggia di Sant’Eufemia, nella Calabria tirrenica: era salpato il 6 febbraio da Bizerte su un gommone diretto in Sardegna e affondato al largo della Sicilia. Una donna tunisina aveva denunciato alle autorità locali di aver perso il marito e il figlio durante la traversata e questo ha permesso agli investigatori di scoprire le generalità della vittima: aveva sei anni e si chiamava Anàs. Altri due cadaveri sono riaffiorati a marzo al largo delle isole Eolie ma i restanti 15 membri dell’equipaggio risultano tuttora dispersi.
Il 17 giugno 2024 una barca proveniente da Bodrum con 76 persone a bordo si è inabissata a circa 120 miglia dalle coste di Roccella Jonica e il disastro è stato per mesi occultato dalle autorità: non c’è stata trasparenza sul numero delle salme recuperate, trasportate di notte in porti distanti tra loro centinaia di chilometri, i 12 superstiti sono stati smistati in quattro diversi ospedali e non sono state fornite informazioni né alla stampa né alle famiglie.
Mentre migliaia di esseri umani continuano a essere trattati come merce di scambio dai trafficanti e come pacchi indesiderati da rispedire al mittente dalle polizie di frontiera, nel 2024 in tutto il mondo hanno perso la vita almeno 8.938 persone in movimento. Un numero in crescita per il quinto anno consecutivo, secondo l’OIM .