Fotografia

Raed Bawayah, l’occhio sensibile della Palestina

Nulla lasciava presagire che Raed Bawayah sarebbe diventato un fotografo. Nato in una famiglia di contadini nella Cisgiordania occupata, da bambino ha fatto il pastore, poi il manovale e l’addetto alle pulizie. All’età di 29 anni, si lancia nel campo della fotografia, riscattandosi dalla sua condizione sociale e culturale.

Serie Le vene della terra, Palestina, 2012
© Raed Bawayah

Raed Bawayah nasce nel 1971 a Qatanna, un villaggio palestinese vicino alla “Linea Verde”, a 12 chilometri da Gerusalemme. Da bambino, dopo la scuola, porta a pascolare le sue capre sulle colline del paese. Durante le vacanze scolastiche, raccoglie ciliegie nella cooperativa agricola Shoresh, vicino Gerusalemme. Per tutta l’estate, si reca ogni giorno nella Città Vecchia per vendere i bei grappoli d’uva che crescono in abbondanza sul terreno di famiglia. Nel 1980, si può raggiungere ancora agevolmente la capitale in autobus. Per integrare le magre entrate economiche della famiglia e non provocare la rabbia di sua madre, deve vendere molte cassette d’uva ad ogni viaggio.

Quando ha finito di lavorare, si mette a guardare le vetrine nelle stradine tortuose di Gerusalemme Est. Davanti alle insegne dei negozi, alle frotte di turisti e pellegrini, all’andatura sinuosa delle passanti dai capelli biondi, rossi, castani, sente il desiderio che gli scorre nelle vene. Almeno qui succede qualcosa. E soprattutto, il suo sguardo è attratto da questa piccola scatola magica nera appesa al collo di qualche viaggiatore che scatta fotografie di continuo. Vorrebbe prenderla in mano, esaminarla con molta attenzione.

Serie ID925596611, lavoratori palestinesi in Israele, 2003
© Raed Bawayah

Nulla è impossibile per un palestinese

Nasce così la sua intensa passione per la macchina fotografica. Ma cosa fare quando l’oggetto del desiderio è proibito? Quando abiti in un villaggio palestinese sotto l’occupazione israeliana, e per giunta sei povero e senza padre, non puoi permetterti di sognare. Devi lavorare per sfamare la famiglia. Dopo gli studi, fa il manovale e l’addetto alle pulizie a Gerusalemme. Ha ormai già 29 anni quando la fotografia ripiomba nella sua vita per non lasciarla mai più. Nulla è impossibile per un palestinese.

Il suo percorso artistico dimostra che, con tenacia e determinazione, è possibile cambiare il proprio destino e liberarsi dalle catene sociali, culturali e nazionali. Senza una caparbietà di ferro e un feroce istinto di sopravvivenza, Raed non sarebbe mai stato in grado di superare gli ostacoli che hanno costellato il suo percorso verso la fotografia e la libertà.

Fa amicizia con Efrat e Orna, due donne ebree di Gerusalemme Ovest che gli danno un lavoro. Dopo aver finito le pulizie, gli offrono un caffè e si mettono a chiacchierare. «Non farai i lavori domestici per tutta la vita» gli sussurrano... Efrat lavora per la Jerusalem Foundation, un’istituzione creata dal sindaco Teddy Kollek, che trasformerà la città in una metropoli moderna tra il 1965 e il 1993. Determinata ad aiutare Raed, Efrat non sa che vive nella Cisgiordania occupata: per lei e per tutti gli altri, abita a Gerusalemme Est, una condizione più accettabile agli occhi degli israeliani.

La Jerusalem Foundation ha stretto una partnership con una scuola di fotografia che ha sede nel quartiere povero di Musrara, culla delle Pantere Nere israeliane. Fondata nel 1987, la Naggar Multidisciplinary School of Art and Society ha come obiettivo d’integrare gli studenti vittime di discriminazioni sociali in Israele, compresi gli arabi. Per Raed quindi si apre una possibilità. Avi Sabag, il preside della scuola, ebreo di origine marocchina e diplomato alla scuola Bezalel di Gerusalemme, lo riceve e gli chiede: Dipingi? Stai leggendo? Hai già praticato la fotografia? No, niente di tutto questo, risponde Raed. Ho preso il diploma di maturità. Sono orfano di padre, lavoro nell’edilizia per aiutare la mia famiglia. Raed gli confessa anche che vive a Qatanna, nei Territori occupati palestinesi . Un dettaglio importante.

Avi sente subito che deve aiutarlo. Gli affida una reflex digitale e il compito di tornare la settimana successiva con delle foto. Quando prende la macchina fotografica, Raed viene colto da un fremito di piacere indescrivibile. Ma il compito assegnato da Avi non dà i frutti sperati. Ai suoi scatti manca la dimensione artistica. La foto dev’essere anche creazione, gli spiega il direttore. Perché non scrivi un breve testo di una pagina su un argomento a tua scelta? Scrivere? Per parlare di cosa? Di poesia, di politica? È un compito impossibile per Raed. Non ha niente da dire e ancor meno da scrivere. Si sente come un guscio vuoto.

Sulla via del ritorno al villaggio, però, Raed ha un’idea. Racconterà la storia di suo nipote Ahmed, sballottolato tra il padre Khaled, un contadino di Qatanna, e la madre Rania, un’araba israeliana di Gerusalemme. Due classi sociali difficili da conciliare all’interno della società palestinese. La coppia infatti si è separata. Khaled lavora a tempo pieno nel settore alberghiero in Israele e non può occuparsi di Ahmed, che vive con sua nonna a Qatanna. Il bambino ha sei anni e viene educato alla scuola mista nel villaggio di Neve Shalom, la prima istituzione educativa binazionale ad accogliere bambini ebrei e palestinesi. È quindi Raed che ogni mattina porta il ragazzo sulle spalle arrivando fino al kibbutz Ma’ale Hamisha, dove Ahmed incontra suo padre che lo accompagna a scuola. Stesso copione la sera, Raed e Ahmed non arrivano mai prima delle 22 al villaggio. In classe, Ahmed si addormenta sempre sul suo banco. Il testo piace molto al direttore della scuola di fotografia, che accoglie Raed nella sua scuola, ma ad una condizione: nessuno deve sapere che è un palestinese della Cisgiordania. Inizia così per l’apprendista fotografo una vita da funambolo alla continua ricerca di un equilibrio sul filo. Raed s’inventa un domicilio sul Monte degli Ulivi e inizia a studiare fotografia nel 2000. Qualche mese dopo, Ariel Sharon va sulla Spianata delle Moschee e scoppia la Seconda Intifada. S’innesca un ciclo infernale di attentati, repressioni e rappresaglie.

Serie ID925596611, lavoratori palestinesi in Israele, 2003
© Raed Bawayah

Il sogno si rivela allora un incubo. Ogni giorno bisogna affrontare un lungo cammino a piedi fino a Musrara, facendo attenzione ad evitare soldati, proiettili vaganti e posti di blocco. In Palestina e Israele regnano l’odio e la violenza, gli attentati si moltiplicano e l’intero paese è messo a ferro e fuoco. Ma Raed ha un’idea fissa, continuare gli studi di fotografia. Non ci si arrende quando si è così vicini alla meta, e lui ha già atteso a lungo. Deve cogliere la sua occasione. Anche se sente un senso di profondo smarrimento, combattuto tra l’amicizia per i suoi colleghi israeliani, che lo hanno sempre aiutato, e la fedeltà ai suoi fratelli palestinesi. Inoltre ha dei problemi con la lingua ebraica, a volte fa fatica a seguire le lezioni. Nel pomeriggio fa le pulizie. Di sera, ricomincia l’incubo del domicilio. E dopo lunghi mesi, questa piccola armonia dissonante s’interrompe di colpo. Si trova inaspettatamente davanti ad un checkpoint, che la sera prima non c’era. I soldati non credono alla storia della scuola: come può essere sfuggito per così tanto tempo ai loro radar? Viene messo in carcere per dieci giorni nel centro di detenzione di Migrash HaRusim a Gerusalemme, da cui l’avvocato della scuola di fotografia e l’avvocato di famiglia riusciranno a tirarlo fuori. Con un lasciapassare fino alla fine degli studi.

Professione fotografo

La fortuna è di nuovo dalla sua parte. Arriva per caso all’Istituto francese di Gerusalemme, dove è in corso una mostra. Decide di entrare. E perché non esporre anche lui lì? Raed prende contatti con il custode della mostra e, pochi giorni dopo, presenta il suo book fotografico alla direttrice dell’Istituto e, alla fine, riesce ad organizzare due mostre sui bambini del suo villaggio e sui lavoratori clandestini palestinesi che ha incontrato nella sua cella a Migrash HaRusim. La direttrice gli propone allora una borsa di studi di sei mesi alla Cité internationale des arts di Parigi.

Il colore del sole, Romania, 2010

È a Parigi che inizia quindi la sua vita di fotografo. Al suo arrivo, nel 2005, espone una serie fotografica intitolata “Identificazione n. 925596611” sui palestinesi che lavorano clandestinamente in Israele. Nel 2006, partecipa con il fotografo israeliano Pavel Wolberg alla mostra “Ramallah–Tel–Aviv giorno per giorno” presso l’Hôtel de Ville di Parigi, commissionata dal sindaco di Parigi Bertrand Delanoë. Dopo questa mostra, ai due fotografi viene commissionato il progetto: “Paris by Day/Paris by Night”. Nel 2007, viene presentata la mostra personale “Vivere in Palestina” al festival Visa pour l’Image di Perpignan.

Il lavoro in bianco e nero di Raed Bawayah va sempre al di là dell’estrema attualità del conflitto israelo-palestinese. Per Raed è importante mostrare le condizioni di vita degli uomini e delle donne, negli ospedali, nei campi profughi palestinesi, negli orfanotrofi, nei campi rom. Nel 2009, ha presentato, nell’ambito del Premio Découverte des Rencontres di Arles, una serie di scatti sui pazienti dell’ospedale psichiatrico di Betlemme. Dal 2012 al 2017, ha diretto il festival internazionale di fotografia “La Quatrième image”, all’Espace des Blancs-Manteaux di Parigi, e nel 2011 al Vienna International Photo Award in Austria. Ha esposto in Malesia, Messico, Ucraina, Lussemburgo, alla Maison européenne de la photographie di Parigi, in Austria, ad Arles, a Gerusalemme, ad Haifa, al festival Visa pour l’Image di Perpignan.

Vincitore del premio Fondation des Treilles per la fotografia nel 2012 e finalista al premio di fotografia Marc Ladreit de Lacharrière in collaborazione con l’Académie des Beaux-Arts nel 2020, Raed Bawayah è un fotografo fuori dagli schemi tradizionali.