A seguito della guerra siriana, che ormai imperversa da quasi un decennio, gran parte dell’attenzione mediatica, scientifica e culturale si è rivolta al dislocamento umano. Oltre il 60% della popolazione mondiale rifugiata - e oltre il 30% della popolazione vittima di dislocamento interno - si trova nella regione mediorientale, soprattutto a causa di conflitti armati di larga scala. Il conflitto siriano, iniziato a seguito delle rivolte popolari nella primavera 2011, ha portato, secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, a mezzo milione di morti, 7 milioni di sfollati - di cui il 70% vive tuttora nella regione mediorientale - e 14 milioni in bisogno di assistenza.
Il dislocamento animale, di altrettanta importanza, è stato a malapena ricercato ed è stato discusso quasi esclusivamente in funzione del sostentamento umano.
Con alcune eccezioni. L’agenzia di stampa Reuters, ad esempio, nel 2012 aveva già dedicato una galleria fotografica ad animali come tartarughe e gatti che tentavano di sopravvivere sotto le bombe, cercando di procacciarsi cibo e talvolta ricevendolo dai gruppi armati che si trovavano nelle aree abbandonate e distrutte.
La scarsa attenzione che è stata prestata agli animali colpiti dalla guerra e costretti a spostarsi ha anche portato a ignorare un tassello fondamentale della vita dei profughi al di fuori della Siria: quello delle ferite inguaribili provocate dalla necessità di abbandonare i propri animali domestici o, per chi abitava in campagna, del proprio bestiame.
In molti casi, di cui sono stata testimone, l’abbandono dell’animale - fosse anche una mucca da cui estrarre latte o pollame da cui ottenere uova - ha generato ulteriore dolore e spaesamento emotivo. Gli abbandoni erano dovuti alla necessità di lasciare il paese devastato dalla guerra e di costruire una vita altrove.
La maggior parte dei rifugiati siriani che ho incontrato nei villaggi del nord del Libano - e che spesso lavoravano in poderi libanesi - provenivano da zone rurali. Capitava spesso che parlassero del bestiame che possedevano e di come se ne prendevano cura quando vivevano in Siria. Molti di loro mi hanno detto che continuavano a chiedere regolarmente ai propri ex-vicini della sorte dei propri animali, in genere per scoprire che la maggior parte di quelli che non erano stati venduti ad altri proprietari erano in seguito morti di disidratazione, stenti e malattie.
Altre volte, ma sempre in misura limitata, il dislocamento animale è stato trattato in relazione al suo impatto sulla sussistenza e quindi all’importanza di riesumare la produzione agricola siriana che, prima del conflitto, era solita esportare bestiame e impiegava il 15% della manodopera interna.
Quanto agli animali da allevamento e da soma, molti sono stati uccisi come parte del bottino di guerra, altri venduti, rubati, spostati, o uccisi dai bombardamenti. La conseguenza è che il tasso di proprietà privata del bestiame all’interno del paese è sceso al 60% dall’inizio del conflitto. Molti allevatori hanno così dovuto abbandonare il loro mestiere e stile di vita, uscire dal paese o migrare verso altre località in Siria in cerca di nuovi mezzi di sostentamento.
La retorica umanitaria, ampiamente utilizzata dalla comunità internazionale e da gruppi di attivisti nelle campagne per i diritti umani, ha finito per ignorare la dignità delle altre specie. È emblematico come solo alcuni dei progetti umanitari (per esempio Animals Lebanon) approccino l’essere umano come parte di un intero ecosistema distrutto dal conflitto, pertanto remando contro la tendenza generale all’antropocentrismo.
Gli animali e la violenza sugli animali sono stati invece ampiamente utlizzati come strategia di soft power per plasmare le relazioni tra attori politici, e come strumento teso all’acquisizione di credibilità presso le comunità locali e internazionali e, allo stesso tempo, per screditare i nemici politici.
In relazione alla Siria, il materiale mediatico in tal senso è facilmente accessibile su rete. Alcuni video, ad esempio, mostrano i leader degli shabbiha - fedeli al presidente Bashar al-Asad - che gettano in pasto ai propri leoni un cavallo arabo “purosangue”, come precisato nel Tweetdi un oppositore politico siriano. Molti di questi video, accessibili su YouTube, mostrano l’uccisione di bestiame da parte di gruppi armati o il furto di bestiame. Non necessariamente milizie governative o gruppi dell’opposizione sono chiaramente chiamati in causa, ma spesso i video sono utilizzati per accusare i propri avversari politici e, allo stesso tempo, per pubblicizzare il proprio rispetto verso gli animali. Al di là dell’autenticità di questo tipo di materiale, che è continuamente oggetto di dibattito, il trattamento dell’animale ha un ruolo fondamentale nella formazione della retorica politica di ognuna delle parti in conflitto. Emblematico è anche il recente decreto governativo No. 221, tramite cui Bashar al-Asad assegna il Ministero dell’Educazione al direttore del progetto sulla “Protezione degli animali in Siria”.
In generale, c’è un’idea diffusa che le società a maggioranza musulmana abbiano poco rispetto per gli animali, tanto che gli studiosi parlano di «ambientalismo islamico» solo quando si tratta di paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito, o in generale nel cosiddetto Nord globale. A questo proposito, alcune fatawa (plurale di fatwa) hanno ammonito i profughi siriani a non uccidere e a non cibarsi di gatti, asini e cani anche in situazioni di carestia e stenti. Le discussioni su questi temi sono numerose sui siti internet che spiegano i precetti dell’Islam e fungono da consultazione spirituale, legale e sociale per i credenti. Alcune autorità religiose hanno denunciatol’uccisione immotivata di animali, mentre altre invece permettono di cibarsene a patto che si tratti di animali già deceduti a causa dei bombardamenti.
In ogni caso è una pratica, questa, che nella Siria di oggi è stata a volte rilevata, a causa delle carestie e delle ristrettezze provocate dal conflitto. Allo stesso tempo, la cura e l’offerta di viveri ad animali come i gatti è spesso definita come lodata e apprezzata da Dio. L’argomento resta tuttora al centro di una discussione animataall’interno del mondo musulmano.
D’altro canto, l’asservimento dell’animale all’essere umano in condizioni di migrazione forzata è un fatto comune: basti pensare ai tanti profughi che hanno dovuto varcare il confine siro-libanese con pecore, capre e vacche non vaccinate. Sin dal 2011, molti profughi siriani mi hanno raccontato di aver attraversato il fiume al-Kabeer, tra il confine siriano e quello libanese, sul dorso di un asino, che poi hanno dovuto abbandonare perchè malato e stremato o perché non avevano i mezzi per mantenerlo.
Un altro problema è che le aree in cui i profughi si insediano vengono sottratte alla fauna locale: l’insediamento umano e i metodi massicci per produrre viveri portano spesso al disboscamento e all’erosione dell’habitat circostante. Queste situazioni generano un paradosso, in cui due condizioni di estrema vulnerabilità emergono come apparentemente in contraddizione, in un dibattito in cui i difensori dei diritti dell’ambiente e della fauna si ritrovano agli antipodi dei difensori dei diritti umani. L’antitesi tra questi gruppi di attivisti si è presentata per esempio nel 1994 in seguito all’insediamento di un milione di profughi ruandesi Hutu nel Virunga National Park, in Congo, dove dieci gorilla vennero uccisi. Tuttavia, come questo caso illustra, non sono necessariamente i profughi stessi a commettere violenze contro il territorio e la fauna. La presenza dei profughi, tuttavia, può diventare fonte di caos, rendendo più difficile controllare bracconaggio e razzie. In alcuni siti archeologici siriani si è presentata una simile antitesi tra i difensori dei diritti umani e i dfensori del patrimonio culturale e dell’ambiente: le rovine di Idlib sono diventate rifugi temporanei per gli sfollati locali che non intravedono luoghi alternativi di protezione e sopravvivenza. Una questione di cui si è fatto carico il Centro di Antichità di Idlib.
Nel contesto del conflitto siriano, il dislocamento animale inteso in senso lato resta una vicenda ancora tutta da indagare. Ho ritenuto importante evidenziare non solo l’utilizzo antropocentrico e violento che si fa dell’animale in condizioni di migrazione forzata, ma anche il legame affettivo che alcuni rifugiati avevano stabilito con gli animali che hanno poi dovuto abbandonare a causa dell’instabilità politica, economica e sociale. Nonostante i profughi siriani stessi abbiano dimostrato di essere attaccati a questo tema nelle conversazioni quotidiane, nei social media e persino nei libri illustrati per bambini, le relazioni intra-specie vengono taciute troppo spesso nella compagine mediatica e accademica.
Una motivazione immediata dietro allo scarso interesse verso il destino della fauna nei conflitti umani è indubbiamente la stigmatizzazione politica dei rifugiati. La politica globale e i cittadini “ospitanti” vedono questi ultimi come soggetti degni esclusivamente di sopravvivenza materiale e quindi come meri beneficiari di aiuti umanitari. Nel caso dell’esodo siriano, tale stigmatizzazione è amplificata, poiché le società a maggioranza araba e musulmana vengono considerate lontane da qualsiasi relazione emotiva intra-specie. Indagare sul destino della fauna nel conflitto siriano è certamente un modo efficace di abbattere tale stereotipo.