Sunniti contro Sciiti? Una griglia analitica ingannevole

Definire in maniera errata le lotte che devastano il Medio Oriente conduce all’adozione di rimedi inappropriati. È ciò che ha fatto l’amministrazione Trump analizzando i conflitti di questa regione attraverso il prisma dell’antagonismo sunnismo-sciismo.

Lo spettro del confessionalismo si aggira per il Medio Oriente. È considerato responsabile del caos, dei conflitti e dell’estremismo. Gli si attribuisce quella che viene considerata essere la principale linea di frattura della regione: sunniti contro sciiti. Possiede la potenza e l’eleganza di una grande teoria che sembra poter spiegare ogni cosa. I sunniti, resi furiosi dalle ambizioni sciite, si radicalizzano numerosi, si uniscono ad Al-Qaeda o si arruolano nell’Organizzazione dello Stato Islamico (ISIS). Gli sciiti, spinti dall’ansia che attanaglia le minoranze, cercano un potere troppo vasto rispetto alle loro ridotte dimensioni.

Le tensioni passate e presenti tra i due principali rami dell’Islam giocano incontestabilmente un ruolo all’interno della dinamica regionale. Ma la maggior parte delle violenze che hanno recentemente apportato rovina e desolazione in una vasta parte del Medio Oriente non hanno molto a che vedere con queste tensioni. I conflitti più sanguinosi, i più feroci e i più significativi si svolgono esclusivamente all’interno della sfera sunnita. Il confessionalismo è una finzione politica molto utile, che serve a camuffare le classiche lotte di potere, la persecuzione delle minoranze, e dei metodi totalitari crudeli.

Malgrado tutti i suoi discorsi anti-sciiti, l’ISIS, l’attore sunnita più implacabile e più violento della regione, rivendica in maggioranza vittime sunnite. Le feroci battaglie per la città irachena di Mosul o per la città siriana di Raqqa hanno visto contrapporsi dei sunniti ad altri sunniti. Gli attentati dell’ISIS in Egitto, in Somalia, in Libia, in Nigeria ed altrove hanno praticamente tutti avuto per obiettivo dei sunniti. Ci sono pochi esempi di omicidi di sciiti perpetrati su grande scala dal movimento.

Fratelli Musulmani, Neo-Ottomani, Salafiti

Le rivolte arabe — il rivolgimento politico più importante che abbia scosso la regione da una generazione — hanno generalmente dato vita a delle battaglie tra sunniti: in Tunisia dove le insurrezioni sono cominciate; in Egitto, dove sono proseguite; e in Libia, dove persistono. Lo stesso è accaduto durante la straordinariamente brutale e sanguinosa guerra civile in Algeria durante gli anni Novanta. Tutti questi episodi di disordini sono stati caratterizzati da scontri violenti e alleanze mutevoli tra i Fratelli Musulmani, i Neo-Ottomani, i salafiti, gli wahhabiti (nella loro versione saudita e qatarina) e i jihadisti. Delle forze più moderate — Al-Azhar al Cairo, gli hascemiti giordani e la grande maggioranza dei sunniti pacifici – sono rimasti in disparte in qualità di spettatori impotenti, nella speranza che il tumulto passasse, e nell’attesa impaziente dell’occasione per poter fare udire la propria voce.

Nella tragedia siriana, la divisione tra sunniti e alawiti è presentata regolarmente come un sottoinsieme di un più vasto confronto sunniti-sciiti, e come un elemento centrale per comprendere la violenza. Tuttavia, il regime di Asad non è esclusivamente alawita, essendosi costruito attorno ad un’alleanza tra alawiti, membri della classe media sunnita, e una moltitudine di minoranze religiose. È difficile immaginare che il regime possa essere sopravvissuto senza almeno un parziale sostegno sunnita. Durante una buona parte della sua storia, esso ha potuto contare sul sostegno finanziario e politico delle monarchie del Golfo sunnite, in primis l’Arabia Saudita. All’inizio dell’occupazione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti nel 2003, il regime siriano ha permesso il transito verso quel paese di combattenti islamisti sunniti radicali che attaccavano gli Americani e soprattutto gli sciiti sostenuti dall’Iran.

L’Iran e Hezbollah sono giunti in soccorso di Bashar Al-Asad per delle ragioni politiche e strategiche, e non nel nome di un’identità confessionale comune. In effetti, in materia di orientamento religioso, il regime siriano è praticamente agli antipodi rispetto alla Repubblica islamica. In larga misura la guerra in Siria è diventata una battaglia tra gruppi islamisti sunniti di obbedienza mutevole e con diversi referenti, che hanno consacrato più tempo, vite umane e risorse a combattersi gli uni con gli altri piuttosto che a combattere il regime.

La singolarità del conflitto siriano

Spiegando il conflitto siriano prima di tutto come uno scontro sunniti-sciiti, si finisce col dimenticarsi di altre importanti questioni. I gruppi ribelli sunniti hanno preso di mira più sunniti che alawiti. I gruppi islamisti hanno attaccato le comunità cristiane, hanno profanato i loro simboli, razziato i loro villaggi, assassinato i loro leader religiosi e le hanno scacciate dalle loro terre ancestrali. Nel momento in cui la Russia ha salvato il regime di Damasco uccidendo un gran numero di sunniti, i dirigenti arabi sunniti non hanno respinto Vladimir Putin ; si sono piuttosto lanciati in ripetuti pellegrinaggi a Mosca, portandosi al seguito offerte per l’acquisto di armi, di contratti commerciali e di alleanze strategiche

L’Egitto, il paese arabo sunnita più popoloso e dove ha sede il centro di insegnamento sunnita più rispettato, ha mantenuto aperti dei canali di comunicazione con il regime di Asad e mantenuto le distanze con l’opposizione. Il Cairo non ha visto delle minacce sciite o alawite da parte del regime, ma una minaccia islamista da parte dell’opposizione. L’Algeria, il più grande stato del Maghreb, ha agito nella stessa maniera. Non è sorprendente che alla fine della guerra, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein abbiano deciso di ristabilire le loro relazioni diplomatiche con il regime siriano. Entrambi sono preoccupati dalla lotta contro la Turchia e il Qatar, e condividono la paura nei confronti dell’islamismo sunnita. L’Arabia Saudita potrebbe presto seguirli.

La storia complicata dello Yemen contiene degli aspetti confessionali, ma sarebbe ingannevole descrivere la guerra civile come una semplice divisione sunniti-sciiti. Gli Huthi sono persuasi che la loro identità sia minacciata, e questa è una delle cause principali della ribellione. La rivoluzione iraniana è un modello da imitare, e un alleato che bisogna corteggiare. Ma al cuore delle rimostranze degli Huthi, ci sono delle rivendicazioni sociali. Si indignano per la perdita del loro status e per il disinteresse crescente di cui soffre la parte nord del paese, il loro bastione. Non sono degli antichi e durevoli conflitti identitari che hanno trasformato la guerra in scontro per procura tra Arabia Saudita e Iran. Dopo aver ottenuto un supporto limitato da parte dell’Iran, gli Huthi hanno cercato sempre di più l’aiuto di Teheran per poter affrontare l’attacco della coalizione saudita. Un’occasione inattesa per l’Iran, che ha risposto favorevolmente. Si tratta più di geopolitica che di confessionalismo, di rivalità strategica piuttosto che di concorrenza religiosa. Il conflitto tra gli Huthi e la coalizione diretta dai sauditi è solo una delle diverse guerre che rischiano di lacerare lo Yemen. Quando questa guerra giungerà al termine, le tensioni intorno ai secessionisti del sud, ad Al-Qaeda, all’ISIS e ai salafiti — tutti sunniti — esploderanno sicuramente, esacerbate dalle ambizioni, le divergenze e la rivalità tra sauditi e gli Emirati.

L’assassinio di Jamal Khashoggi

L’atto di violenza più recente, più mediatizzato e più scioccante è stato l’omicidio di Jamal Khashoggi; anche in questo caso, si tratta di una affare interno sunnita. Il giornalista assassinato era sunnita. Gli assassini erano sunniti. La Turchia, il paese dove ha avuto luogo l’omicidio e che ha giocato un ruolo determinante nella fuga di informazioni riguardo ai colpevoli, è anch’esso a maggioranza sunnita. Sullo sfondo di questo omicidio si trova la lotta senza quartiere tra le diverse varianti dell’Islam sunnita: i wahhabiti, ascetici, i Fratelli Musulmani, militanti, e i Neo-Ottomani, statalisti, che si contendono la leadership. L’Iran, il principale paese sciita della regione, è manifestamente assente da questo dramma già particolarmente sovraffollato

La lista non è esaustiva. Il primo ministro libanese detenuto dall’Arabia Saudita nel 2017 era un sunnita. Hezbollah ha aumentato il numero dei suoi alleati sunniti al parlamento e nel governo libanesi in seguito al suo intervento nella guerra civile siriana, contro i ribelli sunniti. Gli sciiti non sono implicati nella dolorosa scissione inter-palestinese tra Fatah e Hamas. Gli sciiti non sono implicati nel conflitto algero-marocchino intorno al Sahara Occidentale, né nelle tensioni in corso tra Arabia Saudita e Giordania, né nelle tensioni saudo-marocchine, né nella querelle tra Arabia Saudita e Qatar, né infine nella intensa lotta per l’influenza nel Corno d’Africa tra Arabia Saudita, Qatar e Emirati Arabi Uniti. La campagna turca contro i curdi è ugualmente un affare intra-sunnita. Il caos persistente in Libia, dove non c’è una linea di frattura confessionale, risulta piuttosto da rivalità etniche, tribali o regionali tra sunniti, esattamente come accade negli scontri nell’ovest dell’Iraq e nelle tensioni regionali tra la costa e l’entroterra tunisini.

Il campo di battaglia iracheno

In Iraq, le tensioni intra-sciite definiscono lo spazio politico attuale, e potranno giocare nel futuro del paese un ruolo più importante rispetto alla divisione confessionale. Non sono stati né la Turchia sunnita né i paesi del Golfo, i primi a fornire armi e a sostenere i curdi a maggioranza sunnita nel momento in cui sono stati minacciati dall’ISIS, ma l’Iran sciita. Il tentativo dell’Arabia Saudita di stringere dei legami con degli elementi sciiti in Iraq e i solidi legami tra l’Iran e alcuni gruppi sunniti iracheni non si iscrivono precisamente in una dinamica confessionale binaria. Sicuramente non di più del rifiuto del Pakistan, che conta una delle più importanti popolazioni sunnite al mondo, di rispondere alla chiamata alle armi dell’Arabia Saudita in Yemen. Nel mezzo dei recenti sovvertimenti in Iraq e in Libano, le enclave sciite del sud dei due paesi non hanno subito né attacchi né minacce serie da parte dei loro vicini sunniti. Esiste, ovviamente, un fossato tra sunniti e sciiti. L’Arabia Saudita e l’Iran lo utilizzano costantemente per mobilitare i loro rispettivi sostenitori nella lotta per l’influenza regionale. In maniera simile Al-Qaeda e l’ISIS attaccano gli sciiti in Iraq, in Pakistan e in Afghanistan per fomentare dei conflitti confessionali da cui sperano di riuscire a guadagnarci. Ma sono delle tattiche di guerra, non delle cause. Per una regione e una religione i cui giorni di gloria appartengono al passato, la storia è una leva potente con cui mobilitare le masse. I dirigenti politici evocano degli scontri lontani per ravvivare i ricordi di giorni migliori. Incapaci di fare appello a dei valori più elevati quali la libertà e la tolleranza, fanno ricorso al racconto di antichi conflitti per suscitare fervore e lealtà. C’è una ragione per la quale i combattimenti si svolgono più spesso tra sunniti che tra sunniti e sciiti. I sunniti sanno di rappresentare una maggioranza incontestabile, circa l’80% della popolazione della regione, e non rischiano di essere invasi dai loro fratelli sciiti. Gli sciiti hanno compreso da molto tempo che resteranno una minoranza in una regione prevalentemente sunnita. I sunniti di diversa obbedienza si contendono la supremazia e il controllo della loro branca dell’Islam; in questo scontro, c’è poco da guadagnare nel combattere contro gli sciiti.

Cattiva diagnosi, cattivi rimedi

Avanzando un’analisi errata delle lotte che devastano il Medio Oriente, si finisce con l’adottare dei rimedi inappropriati. Parlare di “Stati arabi sunniti moderati”, una tradizione notevolmente radicata nei circoli della politica estera americana, è un’operazione stupida. Coloro i quali invocavano un sostegno militare all’opposizione armata siriana ne hanno generalmente sottolineato la necessità al fine di evitare di alienarsi il “mondo sunnita”. Ma la decisione di armare e di aiutare l’opposizione siriana non riguardava il sostenere dei sunniti contro dei non-sunniti; voleva piuttosto dire partecipare a una lotta senza quartiere tra sunniti. Era una scelta fondata sulla convinzione errata che i sunniti siriani ordinari sperassero nella vittoria dell’opposizione islamista contro il regime di Asad, come conseguenza delle atrocità commesse da quest’ultimo.

L’interpretazione errata da parte dell’occidente ha ugualmente implicato il non riuscire a prevedere che l’Iran, lo stato sciita più potente, e la Turchia, lo stato sunnita più potente, sarebbero giunti a mettersi d’accordo malgrado le loro effettive profonde divergenze. Questo errore di percezione ha condotto a una erronea interpretazione della dinamica sottesa alle relazioni tra sciiti iraniani e iracheni, meno legata alla solidarietà confessionale quanto piuttosto motivata dalla comune preoccupazione rispetto al ruolo degli Stati Uniti. Se le truppe americane si ritirassero dall’Iraq, probabilmente si manifesterebbero le differenze tra il nazionalismo iraniano e quello iracheno e tra le varianti iraniana e irachena dominanti nello sciismo. Washington ha ugualmente finora mal valutato l’impatto del sostegno della Russia al regime siriano. Ben lontano dal creare problemi alle sue relazioni con gli stati arabi sunniti, Mosca ha ristabilito e legittimato la sua presenza in tutta la regione.

Ad oggi, il prisma sunniti-sciiti genera delle strategie illusorie. Il tentativo di stabilire una NATO araba, destinata a riunire gli stati arabi sunniti contro l’Iran, si è arenato sui battibecchi tra stati del Golfo. I sunniti della regione percepiscono l’Iran come una minaccia strategica. Ma gli Stati Uniti credono di poter riunire gli Arabi sunniti in un’alleanza anti-iraniana grazie a una retorica americana bellicosa nello stesso momento in cui i regimi sunniti sono sempre più assorbiti dalla sfida posta dalla Turchia. Il sogno neo-ottomano rappresenta una concorrenza molto diversa rispetto a quella dell’Iran. Le radici storiche della lotta tra Ottomani e Arabi rimontano a centinaia di anni fa: l’impero ottomano ha regnato su La Mecca e Medina per quattro secoli; la Persia non l’ha mai fatto. La nostalgia di un passato splendente non si esaurisce facilmente. L’adozione di teorie semplicistiche ha delle conseguenze reali, poiché fa perdere di vista le vere lotte che stanno modellando l’avvenire del Medio Oriente.