Palestina

“Una scelta di coscienza”. Intervista a Bassam Bounenni

Storico corrispondente dalla regione del Nord Africa e del Medio Oriente per numerosi canali internazionali, Bassam Bounenni è stato il volto della BBC in Tunisia per anni. A ottobre ha rassegnato le proprie dimissioni dall’azienda di Stato britannica come forma di dissenso verso la copertura mediatica della situazione a Gaza. OrientXXI Italia lo ha incontrato in Tunisia.

Bassam Bounenni
Wikimedia Commons

Bassam Bounenni è un giornalista tunisino che ha lavorato per decenni con i principali media internazionali all’interno della regione del Nord Africa e Medio Oriente. Ha coperto la Rivoluzione egiziana del 2011, è stato corrispondente in Siria, Yemen e Iraq. Ha lavorato per Al Jazeera, Sky e infine per la BBC in Tunisia.

Proprio durante questa ultima esperienza, il 18 ottobre scorso ha presentato le proprie dimissioni dall’azienda di Stato britannica a causa della narrativa e dell’impostazione dell’informazione nel narrare la guerra israeliana contro Gaza. Il suo gesto non è isolato, diversi hanno seguito l’esempio di Bounenni per le stesse ragioni. Ragioni che sono morali ed etiche prima ancora che professionali, come ha chiarito sui suoi account: “Questa mattina ho rassegnato le dimissioni dalla BBC, come richiesto dalla mia coscienza”.

La distorsione della narrativa, così come il forte bias dei media occidentali nel coprire i crimini israeliani, rappresentano di fatto scelte comunicative precise che tendono a disumanizzare una parte quasi a giustificare le tragedie a cui stiamo assistendo. Bassam Bounenni è stato uno dei primi giornalisti a prendere questa radicale decisione che, per quanto possa essere stata denigrata dai media occidentali, rappresenta un ulteriore atto di coraggio per contrastare una narrativa che risente pienamente di un approccio ancora fortemente coloniale.

MATTIA GIAMPAOLO Bassam, tu sei stato uno dei primi giornalisti a denunciare la narrativa dei media mainstream su Gaza e lo hai fatto attraverso un gesto forte e radicale, quello delle dimissioni dall’azienda per cui lavoravi come giornalista. Come è andata?

BASSAM BOUNENNI — Da quel fatidico 7 ottobre ho notato, in prima battuta, un certo bias che ovviamente stava emergendo dall’utilizzo delle parole e più precisamente nel definire le vittime sul campo. Gli israeliani venivano “uccisi”, mentre i palestinesi erano “morti”. Morti per mano di? Come? Nessuno lo sapeva. Questo è stato il primo elemento alla base delle mie dimissioni. Un secondo caso è stato durante unna protesta in solidarietà con la popolazione palestinese di fronte alla sede della BBC. Una protesta che, come tutte, conteneva elementi politici e sociali. Tuttavia, la BBC nel riportare la notizia affermava che la protesta fosse una dimostrazione pro-Hamas. Questo fatto ha scatenato proteste e segnalazioni da parte dei partecipanti costringendo l’azienda a scusarsi e ammettere che la manifestazione non sostenesse effettivamente Hamas, anzi affermava che dire il contrario era fuorviante e falso. Poi c’è stato un terzo caso, segnato da un’inchiesta contro i giornalisti della BBC Arabic arrivata dopo la pubblicazione di un rapporto rilasciato dal Telegraph basato sui risultati di un’inchiesta del gruppo pro-israeliano CAMERA (Center for Accurancy of Middle East Reporting in America). In poche parole, questo rapporto era il risultato di un “monitoraggio” effettuato sull’uso dei social media da parte dei giornalisti la cui conclusione era che molti di loro – tutti arabi – fossero sostenitori di Hamas. Questo veniva affermato sulla base dei loro like e retweet su post di proteste o eventi simili.

La conseguenza è stata la sospensione per alcune settimane dei principali imputati e, successivamente, l’obbligo di frequenza di training aziendali sull’uso dei social network. Nonostante ciò, uno dei giornalisti si è rifiutato, respingendo le accuse e accusando la BBC di non proteggere i propri dipendenti. Un altro caso: a metà ottobre la BBC, e in particolare la sezione online inglese, ha iniziato a ricevere domande dal pubblico rispondendo in diretta. Una delle domande è stata: “Davvero Hamas ha costruito tunnel sotto ospedali e scuole”? La risposta data dal corrispondete internazionale della Tv è stata: “Non posso escluderlo”. Sappiamo benissimo che una delle regole alla base della copertura di conflitti è che non si possono fornire determinate informazioni. Mi spiego. Per esempio, se sei in diretta e viene lanciato un missile giusto dietro di te, non puoi dare la tua posizione precisa perché potrebbe compromettere la tua sicurezza. Quindi, anche nella sezione dedicata alle domande e risposte non c’è l’obbligo di rispondere a tutto. BBC invece ha scelto di farlo, affermando di “non poter escludere che Hamas avesse tunnel sotto ospedali e scuole”.

Dopo 24 ore, abbiamo visto scuole e ospedali bombardati con più di 500 vittime. Il giorno dopo ho iniziato a considerare di dimettermi. Il bombardamento dell’ospedale1 fu effettuato il 17 ottobre, il 18 l’azienda ha rilasciato un comunicato dicendo che alcuni di noi erano stati colpiti dalle uccisioni di israeliani inermi da parte di Hamas. Per me quello ha rappresentato una presa di posizione formale che mi ha portato a dare dimissioni irrevocabili.

M. G. Cosa ti hanno detto i tuoi superiori rispetto alla tua decisione? E i tuoi colleghi?

B.B. In realtà mi hanno chiesto più e più volte di riconsiderare la mia decisione, ma sono rimasto fermo sulla mia posizione. Ho anche spiegato che le proteste in tutta la regione, compresa la Tunisia, paese in cui lavoravo come corrispondente per la BBC, mi portavano a pensare che anche la mia incolumità, nel coprire quelle mobilitazioni, potesse essere messa a repentaglio. Inoltre, anche ora non è che sia poi così tanto tranquillo. Dal momento in cui ti dimetti per ragioni etiche e morali la tua reputazione è messa in dubbio comunque.

M. G. In una recente conferenza hai affermato, senza mezzi termini, che la parola suprematismo è più centrale che mai per affrontare la questione palestinese sotto il punto di vista narrativo e giornalistico. Questo sembra ricollegarsi in primo luogo alla disumanizzazione dei palestinesi e, in seconda battuta, alla concezione colonialista occidentale che da decenni ormai occupa il dibattito pubblico nei nostri media. È così o c’è dell’altro?

B.B. Se conduciamo un qualsiasi studio sul campo nella regione del Medio Oriente e Nord Africa ci accorgiamo che la popolarità e la reputazione dell’Occidente è in condizioni davvero pessime, più di quanto Israele pensi. Le persone ormai sanno cosa Israele è capace di fare e cosa ha fatto in passato sin dalla sua creazione. Tuttavia, con la guerra contro Gaza oggi, stiamo vedendo un’isteria generale nei media, una sorta di normalizzazione dell’estremismo in Occidente. Basta leggere alcuni commenti, come quello di Thomas Friedman che ha voluto insegnarci il Medio Oriente attraverso la similitudine con gli animali, descrivendoci come serpenti e vespe2. Viviamo in un periodo di estrema deumanizzazione che ci riporta indietro nel tempo. La censura la fa da padrone: abbiamo visto scrittrici escluse da Fiere del Libro3. Il problema è che è difficile avere uno spazio per una voce alternativa e, purtroppo, stiamo ancora al livello di descrivere i palestinesi come animali o associarli a gruppi come l’ISIS o i nazisti. Tutto questo rappresenta ancora bene la concezione prevalente in Occidente da decenni, e per ora sembra non essere superata.

M. G. Cosa pensi del lavoro che stanno portando avanti i tuoi colleghi nel mondo occidentale, e quanto credi che il loro approccio sia informato da posture ancora fortemente coloniali, che oggi dovremmo considerare complici di quanto sta accadendo?

B.B. Una parte del problema è che da un lato c’è la cornice dei media e dall’altra un’agenda che imposta la teoria della narrazione. I gruppi pro-israeliani hanno gestito e sono riusciti ad imporre un’agenda tale da convincerci che criticare Israele oggi sia qualcosa di immorale. Non mi riferisco solo all’accusa di antisemitismo, anche perché quello sì che è immorale. E’ invece un qualcosa di più sottile. Io so per certo che dentro i giornali e le redazioni televisive in Occidente c’è resistenza a queste imposizioni. Certo, esprimersi pubblicamente è rischioso, basti pensare a quanto successo alla CNN con il licenziamento di alcuni giornalisti, o al caso di Antoniette Lattouf4 della radio pubblica australiana, un caso questo che ha sollevato sgomento tra i colleghi che si sono opposti alla decisione dell’azienda. Io penso che molte delle cose che ascoltiamo e guardiamo siano legate molto al finanziamento di questi canali e al legame politico che soprattutto le televisioni pubbliche hanno con i gruppi pro-Israele. Pensiamo alla CNN dove da luglio nessuna notizia può essere trasmessa su Israele se non passa dall’ufficio di controllo di Gerusalemme. Hanno persino adottato un codice interno chiamato “Second Eyes”, che di fatto risulta essere un modo per filtrare e censurare i contenuti. Nonostante ciò, resto ottimista perché queste cose stanno emergendo, questa situazione non può durare per sempre, ci sono voci di resistenza.

M. G. La questione palestinese è sempre stata il motore di proteste globali, e soprattutto nei paesi arabi. Tu vivi in un paese, la Tunisia, che ha avuto forti legami storici con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) in passato, e che si è sempre contraddistinto per la sua solidarietà al popolo palestinese. Come sta reagendo il tuo paese in questa fase storica?

B.B. Il problema è che, non solo in Tunisia naturalmente ma in tutta la regione, soprattutto nei paesi non produttori di petrolio come Giordania, Tunisia, Libano ed Egitto, si sta affrontando una crisi sociale ed economica senza precedenti. La Palestina è per i regimi un’occasione per far sfogare la rabbia e, allo stesso tempo, mostrare il loro opportunismo. Non è un caso che molti governi arabi diano la colpa dei loro fallimenti alle lobby sioniste. Certo esistono queste lobby, ma i fallimenti non sono di certo tutti collegabili ad essa. Sono le loro politiche ad aver causato questa situazione di crisi. È curioso, in questo senso, quanto alcuni partiti politici siano preoccupati per la situazione dei diritti umani in Palestina, condannino i soprusi dell’occupazione in Iraq per denunciare gli Stati Uniti e la loro invasione, ma non dicano mezza parola per la violazione dei diritti umani in Tunisia o in Egitto.

M. G. Stai scrivendo un libro giusto? Di cosa ci parlerai?

B.B. Sto cercando di scrivere qualcosa su quello che sta succedendo. Naturalmente non sotto il punto di vista degli eventi che sono ancora in corso, ma sul linguaggio e sulla narrativa alla base della cornice narrativa dei media, l’ideologia sottostante alle loro agende, e come questa si presenta al pubblico. Non dico di più.

1al-Shifa’[NdR].

3Il riferimento è alla scrittrice palestinese Adania Shibli, la cui premiazione per il romanzo “Un dettaglio minore” è stata sospesa in occasione della Fiera del Libro di Francoforte. [Ndr].

4Giornalista australiana di Radio Sidney, Lattouf è stata licenziata in seguito alle pressioni della lobby pro-israeliana. https://www.bbc.com/news/world-australia-68064851