Il suo viaggio è passato inosservato mentre l’intero pianeta teneva gli occhi puntati sugli Stati Uniti che erano col fiato sospeso in pieno scrutinio elettorale. Il 5 novembre 2020, il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha effettuato un viaggio di qualche ora al Cairo dove ha incontrato il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi. Si è trattato, spiega Bruxelles, di consultare uno dei più importanti leader arabi, nel momento in cui, in Francia, la ravvivata crisi delle caricature del Profeta rischiava di offuscare le relazioni tra Occidente e Oriente. Dalla capitale egiziana il belga twitta: “I recenti attacchi in Europa hanno preso di mira i nostri valori fondamentali, la nostra libertà di coscienza e religione. Pur essendo assolutamente determinati a combattere il terrorismo, dobbiamo anche promuovere il dialogo con i nostri partner. Oggi sono in Egitto per unire le nostre forze”. Questo episodio illustra bene tutta l’ambiguità delle relazioni tra l’Unione Europea (UE) e la Repubblica Araba d’Egitto. L’unione delle forze tra un’entità europea che esalta i suoi “valori fondamentali” e uno stato a sud del Mediterraneo che per più di mezzo decennio ha lavorato, con successo, per meritarsi la sua reputazione di dittatura spietata solleva infatti molte domande se non addirittura dei sospetti. La realpolitik domina, in maniera travolgente, intaccando considerevolmente l’applicazione dei valori rivendicati dagli europei.
La storia recente mette in evidenza un incremento delle priorità tra egiziani ed europei. “Credo che negli anni le relazioni tra l’Unione Europea e l’Egitto si siano evolute«, spiega Koert Debeuf, ricercatore presso la VUB (l’Università fiamminga di Bruxelles) e redattore capo del sito euobserver.com, che ha trascorso cinque anni al Cairo tra il 2011 ed il 2016 come inviato del gruppo liberale del Parlamento europeo.»Molto formali prima del 2011 e focalizzate su piccoli progetti senza speranza di grandi progressi, tali relazioni sono poi passate a una fase di intensa cooperazione non appena il vento del cambiamento democratico ha soffiato nella regione. Infine, in questi ultimi anni, si sono ridotte all’utilità: la lotta all’immigrazione clandestina e al terrorismo. Dopo il 2011, i rapporti sono migliorati, dunque, ma non in maniera sostanziale. In ogni modo, c’erano alcune possibilità di investire non solo nell’economia locale ma anche nella società e nella democrazia. La leadership egiziana, tuttavia, non ha mai voluto affrontare quest’ultima dimensione”.
LA TORTURA DIVENTA SISTEMATICA
Ma c’è di peggio. Sotto la bacchetta autoritaria di Al-Sisi, il partner egiziano degli europei è sprofondato, dal colpo di stato del luglio 2013 che ha posto fine a un anno di governo dei Fratelli Musulmani, in una gestione del paese basata sulla soppressione delle libertà e quindi nella repressione delle proteste. “La crisi dei diritti umani in Egitto è evidente«, osserva dal suo ufficio di Tunisi l’egiziano Hussein Baoumi, ricercatore di Amnesty International per il Nord Africa.»La tortura è diventata sistematica, le forze di sicurezza usano le leggi antiterrorismo per reprimere gli oppositori politici, le voci critiche e persino gli attivisti per i diritti umani. Migliaia di persone subiscono questa repressione e si trovano detenuti, a volte torturati ed in seguito giudicati: dei giornalisti che non fanno altro che fare il loro lavoro, degli avvocati, delle persone che hanno fatto il solo errore di criticare la gestione della pandemia di Covid-19, ecc. Le violazioni della libertà d’espressione diventano la regola, in particolare online, per esempio, le persone si trovano in arresto per “fake news” solo per aver espresso la loro opinione sui social. Allo stesso modo anche gli LGBT rischiano la prigione. Si verificano anche delle sparizioni forzate e, ultimo ma non meno importante, continuano le esecuzioni di detenuti.«Forte del suo sostegno a Washington, Riyadh, Abu Dhabi e Tel Aviv, il regime egiziano si mostra sempre più insensibile alle critiche sulla questione dei diritti umani poiché, sebbene i suoi»valori" siano sotto feroce assalto sulle rive del Nilo, la stessa UE chiude un occhio o si riduce a fare qualche commento di circostanza. L’argomento della sacrosanta necessaria stabilità dell’Egitto, imposto dalle più influenti capitali europee, costituisce, quindi, la base delle relazioni bilaterali tra questo Paese e l’UE. Dal canto suo, il regime egiziano non esita a curare la sua immagine di partner valido: a Bruxelles, ad esempio, alcuni apprezzano il suo operato che lo rende un modello di efficienza contro gli imbarchi clandestini. Lo dimostra la dichiarazione del 20 settembre 2018 del cancelliere austriaco Sebastian Kurz, il cui Paese ha ricoperto la presidenza dell’UE, che ha lodato l’Egitto per essere "l’unico Paese nordafricano che dal 2016 è riuscito a impedire le partenze dei migranti” via mare.
AIUTI BLOCCATI DAL CAIRO
Questi buoni rapporti non hanno mancato di stimolare l’autostima, se non le pretese, di un regime sicuro di sé. Infatti, alcuni programmi di cooperazione previsti da Bruxelles non hanno potuto essere avviati per due anni, in quanto Il Cairo ha richiesto che dalle condizioni generali degli accordi che formalizzano questi aiuti venga cancellato l’articolo 26 - sempre lo stesso - che prevede la possibilità di una sospensione per gravi violazioni dei diritti umani. Dal 2018, il ministero degli Affari Esteri egiziano ha informato la Commissione Europea che non accetta, o non accetterà più, la clausola 26. Sconcertati, gli europei cercano un compromesso, giacché si preoccupano di mantenere almeno alcuni dei programmi di sostegno relativi ai settori socioeconomici e alla società civile, senza curare i legami diretti con i diritti umani, come nel caso del rinnovamento degli insediamenti informali. Il braccio di ferro continua, con l’Egitto che ne fa una questione di principio. Tuttavia, al Cairo, gli osservatori informati sanno che anche gli Affari Esteri sono sotto l’influenza dei servizi di sicurezza mentre i ministeri tecnici diventano le vittime. In sostanza, la cooperazione si trova ostaggio delle tensioni politiche.
Il regime egiziano non sta correndo rischi. Le somme in gioco non lo impressionano. L’importo dell’attuale disponibilità finanziaria per i sussidi è di 1,3 miliardi di euro. Si tratta di aiuti di bilancio e settoriali, di contributi alle agenzie di sviluppo, delle sovvenzioni a partner pubblici o delle ONG. Questo strumento della politica europea di vicinato rappresenta, ogni anno, circa 115 milioni di euro destinati all’Egitto. Non è un importo considerevole trattandosi di un paese di 100 milioni di persone. Il Marocco riceve 200 milioni, la Tunisia 300 e così anche la Palestina (compresi gli aiuti dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione per i rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente, UNRWA).
Questi 115 milioni sfigurano in confronto agli aiuti statunitensi o a ciò che sta facendo il Fondo Monetario Internazionale (FMI). Tuttavia si tratta di donazioni e non di prestiti. Per motivi di efficienza, l’UE si sta concentrando su alcuni settori come l’acqua, l’energia, l’accesso ai finanziamenti per le PMI, i programmi di sviluppo per gli insediamenti informali nella Grande Cairo. Senza dimenticare l’assistenza più discreta ad alcune ONG. Nonostante ciò, quindi, non è in grado di impegnare queste somme. I principali paesi europei probabilmente non sono in ogni caso turbati. Per loro, la posta in gioco nell’ambito del commercio, della migrazione e dell’antiterrorismo è molto più alta. Ad esempio, Francia, Germania e Italia hanno prediletto la firma di contratti di “armamento”, rispettivamente cacciabombardieri, sottomarini e fregate, che si calcolano in miliardi di dollari. Pertanto, per quanto questi paesi mantengano ufficialmente una posizione retorica morale nel Consiglio europeo, le loro banche o agenzie di sviluppo non pongono una clausola sui diritti umani quando firmano un accordo o un prestito con questo paese e le loro ambasciate bilaterali al Cairo non mostrano la stessa fermezza poiché ciascuno gioca i propri interessi nazionali.
UN PARTNER “INDISPENSABILE”
Accanto agli interessi commerciali degli europei, il regime egiziano maneggia abilmente le carte a sua disposizione. «Almeno dal 2015», spiega a Bruxelles Leslie Piquemal, responsabile della difesa europea presso il Cairo Institute for Human Rights Studies, «le autorità egiziane sono state in grado di intraprendere un gioco politico-diplomatico a volte sottile, altre meno, ma molto efficace nel rafforzare il ruolo dell’Egitto quale partner ritenuto»indispensabile«nella strategia europea in Medio Oriente e nell’area mediterranea, oltre che nel controllo delle frontiere e nella lotta al terrorismo. Questo crea delle implicazioni nelle relazioni UE-Egitto, dato che l’UE e molti Stati membri non vogliono perdere la cooperazione egiziana scontrandosi con le autorità egiziane su questioni di democrazia, diritti umani, Stato di diritto.»
Dalla sua posizione privilegiata di osservatore di Bruxelles, Leslie Piquemal nota, da parte dell’Europa, “un binomio non necessariamente efficace o coerente: quello di una diplomazia pubblica che, sulle questioni che infastidiscono (diritti umani, status e peso dell’esercito egiziano, sostegno militare al maresciallo Khalifa Haftar in Libia...) è generalmente timida o limitata a canali formali con una visibilità mediatica molto bassa, come gli interventi orali al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, e che a volte è inesistente o invisibile di fronte a eventi allarmanti come la repressione delle manifestazioni nel settembre 2019 che hanno provocato 4.400 arresti e sparizioni forzate”. Allo stesso tempo “questa diplomazia è chiara, relativamente visibile e coerente sugli aspetti «positivi» del rapporto con l’Egitto (sostegno finanziario in ambito socio-economico, infrastrutture, cooperazione su questioni regionali come la Palestina, il gas ...)”.
IL PARLAMENTO EUROPEO PER SALVARE L’ONORE
Per salvare “l’onore europeo” ci rivolgeremo al Parlamento europeo, purtroppo privo di poteri reali, ma che, negli ultimi anni, ha emanato quattro risoluzioni di emergenza sui diritti umani in Egitto (la prima riguardava, nel 2016, il caso Giulio Regeni, che prende nome dal ricercatore italiano la cui morte al Cairo in circostanze atroci potrebbe essere opera dei “servizi” egiziani). Più recentemente, il 21 ottobre, 222 membri del Parlamento europeo e dei Parlamenti dei paesi europei hanno anche firmato una lettera aperta al presidente al-Sisi chiedendogli di liberare i prigionieri politici e di porre fine alle violazioni dei diritti umani. Molto più "business as usual” è, invece, il lavoro diplomatico degli organi esecutivi dell’UE, come evidenziato dall’ultima visita di Josep Borrell al Cairo, il 3 settembre 2020. L’Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza nel suo tweet ha commentato: “Un’importante visita al Cairo, iniziata con uno scambio approfondito con il presidente Al-Sisi. L’Egitto svolge un ruolo chiave nella regione e ci sforziamo di rafforzare le relazioni e continuare a cooperare su questioni di reciproco interesse”. L’UE e l’Egitto sono solidi partner. Chi ne dubita?