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Cosa dicono i risultati delle elezioni in Turchia

Contrariamente alle previsioni e ai sondaggi, il presidente uscente Erdoğan ha chiuso in vantaggio il primo turno delle elezioni presidenziali e politiche del 14 maggio e se la vedrà al ballottaggio del 28 maggio con lo sfidante Kemal Kılıçdaroğlu. Come si spiega questo risultato elettorale? Tre domande di Sarra Grira, giornalista di OrientXXI, a Yohanan Benhaim, ricercatore presso l’Istituto francese di studi anatolici (Ifea) di Istanbul.

Sostenitori davanti al quartier generale dell’AKP dopo la chiusura dei seggi elettorali durante le elezioni presidenziali e politiche ad Ankara, il 14 maggio 2023.
Adem Altan/AFP

Sarra Grira - Si dice che chi vince le elezioni a Istanbul, le vince in tutta la Turchia. Eppure, questa volta non è stato così.

Yohanan Benhaim – È un modo di dire che sottolinea l’enfasi eccessiva che si dà al voto di Istanbul rispetto all’esito delle elezioni a causa della sua enorme popolazione: 98 deputati su 600 dell’Assemblea Nazionale vengono eletti a Istanbul. Per fare un paragone, Ankara, che è la seconda città più popolosa, è rappresentata all’Assemblea “solo” da 36 deputati. Ma serve anche a ricordare che è proprio dalle città che è cominciata la conquista del potere da parte del movimento islamista, come nel caso di Erdoğan, sindaco di Istanbul tra il 1994 e il 1998, prima che il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) vincesse le elezioni nel 2002.

Nelle ultime amministrative del 2019, l’opposizione si è aggiudicata le due grandi metropoli, Istanbul e Ankara, grazie alle candidature di Ekrem İmamoğlu e Mansur Yavaş. Si prevedeva quindi un buon risultato per l’opposizione nelle due città. Ma, anche con un vantaggio di Kemal Kılıçdaroğlu su Erdoğan di uno o due punti, era lecito aspettarsi un risultato migliore, visto che i comuni sono amministrati oggi dall’opposizione, cosa che avrebbe dovuto avere una maggiore incidenza sul voto. Può anche darsi che questa candidatura non abbia permesso di capitalizzare al massimo l’esperienza delle amministrative. Ekrem İmamoğlu e Mansur Yavaş potevano forse attirare elettori tra i conservatori e i nazionalisti oltre al solo elettorato del Partito Repubblicano del Popolo (CHP); al contrario, Kemal Kılıçdaroğlu, malgrado gli sforzi, viene associato all’ideologia kemalista del partito di cui è presidente e fa più fatica a pescare voti da altri elettorati.

L’analisi delle elezioni politiche a Istanbul attesta il vantaggio della coalizione di governo, pur con una perdita di voti rispetto alle precedenti elezioni del 2018. Voti che però non sono stati intercettati dall’opposizione che invece resta stabile, mentre una parte degli elettori delusi dal governo si è orientata verso la coalizione di estrema destra guidata da Sinan Oğan, il terzo candidato alla presidenza. Anche ad Ankara la coalizione di governo ha perso voti, che sono andati alla coalizione guidata da Oğan.

Quindi anche se l’opposizione è in vantaggio nelle due grandi città alle elezioni presidenziali, alle politiche la coalizione di governo rimane in testa. Ciò è dovuto senza dubbio al fatto che le reti di relazioni nella pubblica amministrazione dell’AKP sono ancora molto presenti in entrambe le città dove è vero che, dal 2019, c’è un sindaco metropolitano di opposizione, ma nei consigli comunali prevale ancora l’AKP. È un dato che spiega anche la difficoltà dell’opposizione a livello nazionale: la coalizione al governo continua a beneficiare di questa importante rete di relazioni.

Un paese ricco contro un paese povero?

SG - Guardando la mappa dei voti, si nota che, a parte Ankara, le regioni interne hanno votato per il presidente uscente, e quelle costiere per l’opposizione. Se escludiamo il Kurdistan, dove non stupisce il voto di protesta, è un risultato elettorale che riflette la disparità economica tra le regioni costiere e quelle interne? Come si spiega che le zone più povere abbiano votato per Erdogan, malgrado la crisi economica?

YB - In effetti quando si guarda la mappa è la prima cosa che colpisce, anche se è un dato che va relativizzato. Innanzitutto, le regioni più povere del paese, le regioni curde del Sud e dell’Est, ma anche non curde nel Nord-est, hanno votato per l’opposizione. Mentre le province più sviluppate come Bursa, o fortemente industrializzate come Konya, o Kayseri hanno votato per Erdoğan. Un dato che si conferma anche alle politiche dove si è vista un’affermazione della coalizione al governo anche nelle metropoli come Ankara o Istanbul.

Ma, al di là della geografia elettorale, ciò che colpisce, in realtà, è che la terribile crisi monetaria ed economica che sta attraversando il Paese non ha inciso sul governo in carica. Dal canto suo, l’opposizione non ha saputo trasformare in consenso questa crisi. La colpa, senza dubbio, è da attribuire all’ampia coalizione di partiti che la compongono, dove troviamo, da una parte, partiti conservatori dall’orientamento economico liberale e, dall’altra, un partito kemalista d’impronta socialdemocratica. È una coalizione che ha trovato quindi il suo comune denominatore nell’opposizione al regime presidenziale, reclamando un ritorno a uno Stato di diritto. Di conseguenza, anche se alcuni dei suoi leader potevano vantare una legittimità in campo economico, l’opposizione ha insistito soprattutto su un ritorno al rispetto delle istituzioni, in particolare a una maggiore indipendenza della Banca centrale. Ma non c’è stata nessuna significativa proposta dal punto di vista economico che era invece fonte di grande preoccupazione per gli elettori, soprattutto tra le classi medie e popolari.

Al contrario, l’AKP ha potuto approfittare dei lunghi anni al governo per utilizzare i mezzi dello Stato nella campagna elettorale: qualche giorno prima delle elezioni è stato annunciato un ulteriore aumento del salario minimo e delle pensioni, nonché la fornitura gratuita di gas per le famiglie. Misure concrete, anche se temporanee, che hanno avuto un certo impatto sul voto delle classi più esposte alla precarietà. Inoltre, uno dei grandi slogan dell’AKP è stato quello di insistere sull’idea che queste elezioni, che coincidono con il centenario della Repubblica, avrebbero proclamato “Il secolo della Turchia”. Uno slogan usato per mettere in luce i grandi progetti portati avanti dal governo, sia nel campo delle infrastrutture che nei progetti tecnologici all’avanguardia. Nonostante una vita quotidiana segnata da una grave crisi e da un’inflazione galoppante, lo slogan ha proiettato l’elettorato dell’AKP in un immaginario di sviluppo tecnologico di cui è molto fiero: auto elettriche, droni militari, satelliti, ecc. Tutti progetti presentati come prove tangibili del successo del paese e del suo radioso avvenire. I sondaggi però dicono che anche l’elettorato, pur non prendendo sul serio le ricette economiche dell’opposizione, non è più così fiducioso nella capacità dell’attuale presidente di far uscire il paese dalla crisi.

La capacità di Erdoğan di reinventarsi

SG - Malgrado la crescita dell’opposizione e il calo di voti per Erdoğan rispetto al 2018, il presidente uscente ha rischiato di vincere al primo turno. Come si spiega questo ampio consenso popolare di cui continua a godere, nonostante la svolta fortemente autoritaria? Si deve al suo controllo sui mezzi d’informazione? Cosa ci dice della società turca?

YB – Il presidente Erdoğan rimane agli occhi del suo elettorato il campione delle classi conservatrici, colui che è riuscito a mettere in discussione il dominio dell’élite kemalista sullo Stato. A suo merito va anche lo sviluppo del paese degli ultimi decenni e l’importanza assunta dalla Turchia a livello internazionale. Malgrado la crisi, gli scandali e gli anni al potere, la figura di Erdoğan è ancora quella di un politico che mette in discussione l’ordine stabilito a vantaggio degli oppressi, sia in Turchia che nel mondo, anche se governa da vent’anni.

Malgrado la continuità al potere, va riconosciuta a Erdoğan anche la sua capacità di reinventarsi con nuove alleanze politiche e coalizioni elettorali che gli hanno permesso di conservare il potere. Al suo debutto da leader si basava su un’agenda di riforme democratiche, poi dal 2015 e con la ripresa della guerra contro il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), Erdoğan ha suggellato la sua alleanza con l’estrema destra attraverso un linguaggio sovranista, statalista e nazionalista, che ha diviso la società criminalizzando le opposizioni, in particolare il movimento curdo.

Negli anni 1990, lo storico Etienne Copeaux parlava di “consenso obbligatorio” imposto al cittadino per aderire ai valori del kemalismo. Oggi ci troviamo di fronte a una tendenza simile, ma che si concentra solo sui valori di un esasperato nazionalismo che satura lo spazio mediatico e politico sotto varie forme: emarginazione del partito della sinistra curda al punto da renderlo un vero e proprio paria con cui è impossibile formare una coalizione, xenofobia contro i rifugiati, ecc. Ciò che colpisce è che questo non accade con partiti che fanno parte della coalizione di governo: ad esempio, l’Hüda-Par (acronimo di Hür Dava Partisi, Partito della giusta causa) è un partito islamista che difende il nazionalismo curdo, ma, in quanto alleato dell’AKP, non viene preso di mira.

Al contrario, invece di affrontare in maniera decisa la crisi economica con misure forti, il candidato dell’opposizione Kemal Kılıçdaroğlu è arrivato a questo ballottaggio con i voti dell’elettorato nazionalista, usando parole molto dure nei confronti dei rifugiati. Un modo pedissequo di catturare il consenso che si spiega con volontà di attirare i voti del terzo candidato presidenziale, Sinan Oğan, ma che, a lungo termine, andrà senza dubbio a vantaggio del governo e dei suoi alleati di estrema destra. Se l’esito del ballottaggio confermerà quello del primo turno, l’eventuale nuova vittoria di Erdoğan, con un’estrema destra in posizione di forza, rischia di costringere ad andar via molte persone, soprattutto tra i giovani e le classi medie, che vivono nell’ovest e nelle regioni curde del paese.