Quando il 13 settembre 1993, Yasser Arafat, presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e Yitzhak Rabin, premier israeliano, firmarono ufficialmente i cosiddetti “accordi di Oslo” nel cortile della Casa Bianca alla presenza del Presidente americano Bill Clinton, c’era un clima di generale ottimismo con pochissime voci fuori dal coro. È pur vero che il mondo viveva nella bolla della “fine della guerra fredda” e del crollo dell’URSS, il sogno di un nuovo ordine mondiale internazionale che non era stato scalfito dalla guerra del 1990-1991 contro l’Iraq. Una dopo l’altra, le grandi guerre civili sembravano risolte in Angola come in Mozambico, in Nicaragua fino a El Salvador. Inoltre, il sistema d’apartheid in Sud Africa stava per essere smantellato con la liberazione l’11 febbraio 1990 di Nelson Mandela.
E allora perché non in Palestina con la fine del “conflitto arabo-israeliano”? Tanto più che i negoziati vertevano sul futuro del popolo palestinese. Ci vorranno dieci anni di trattative, repressioni, colonizzazione, attentati perché il cosiddetto “processo di pace” affondi del tutto. Sono molte le ragioni dietro il fallimento dell’accordo, ma la principale è il secco no del governo israeliano a riconoscere l’uguaglianza dei palestinesi. In ogni fase del negoziato, sono stati sempre gli interessi israeliani a prevalere a discapito di quelli dei palestinesi; e, malgrado il rapporto di forze sfavorevole tra le due parti, in ogni frangente, gli Stati Uniti e i governi europei hanno fatto pressione sull’interlocutore più debole per fare maggiori concessioni.
Nella sua autobiografia1, dove racconta dei colloqui avuti con il primo ministro Frederik De Klerk, Mandela ricorda che la sua unica richiesta non negoziabile era stata quella dell’uguaglianza tra cittadini, un uomo, una donna, un voto. Di recente, sono molti i leader occidentali a dirsi indignati per le dichiarazioni del ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir che ha detto a chiare lettere che gli israeliani hanno maggiori diritti sulla terra di Palestina rispetto agli “arabi”. Ma non è forse l’intera politica israeliana ad essersi basata per decenni sul rifiuto della piena uguaglianza?
Gli accordi di Oslo sono stati un fallimento, decretando la fine di una possibile una soluzione a due Stati. Tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo, oggi c’è un solo Stato, come riconoscono quattro eminenti accademici statunitensi sull’autorevole rivista dedicata alle relazioni internazionali Foreign Affairs2. In questo Stato – spiegano –vivono due popolazioni soggette a leggi, tribunali e regole diverse. Un’ottima sintesi di quella che può essere definita una situazione di apartheid che la comunità internazionale, ma soprattutto l’Occidente dovrà prima o poi riconoscere.
Focus Oslo
1Lungo cammino verso la libertà, Feltrinelli, Milano, 1995
2Michael Barnett, Nathan Brown, Marc Lynch et Shibley Telhami, «Israel’s One-State Reality»,, Foreign Affairs, New York, maggio-giugno 2023.