Egitto. Cosa non dicono i prigionieri “radicalizzati”

Uscito di prigione dopo sette anni, durante i quali è venuto a contatto con altri prigionieri politici, Ismail Alexandrani, collaboratore di Orient XXI, rievoca la sua esperienza in carcere con l’occhio clinico dell’osservatore. Secondo lui, la riabilitazione psicologica è l’unico modo per contrastare il ricorso alla violenza da parte degli ex detenuti.

Carcere di Tora al Cairo, 22 marzo 2014. Un giornalista di Al-Jazeera nel box degli imputati durante il processo intentato contro di lui e i suoi colleghi per presunto sostegno ai Fratelli musulmani.
Mahmoud Khaled/AFP

Se ci soffermiamo su una personalità disturbata come quella di Shukri Ahmad Mustafa, fondatore della “Società dei musulmani”, gruppo fondamentalista ribattezzato dalle autorità egiziane “Scomunica ed esodo” (Attakfir wal hejra), viene da chiedersi in che misura il suo squilibrio sia da attribuire alle sue idee o allo stato deplorevole della sua salute psichica e mentale.

Allo stesso modo, se avessimo dati attendibili su capi terroristi come Shadi Al-Mani’i o Kamal Allam1 in misura sufficiente da poter presentare i loro profili a degli specialisti, a porre problema sarebbero le loro idee oppure le motivazioni psicologiche soggiacenti a quella che è in fondo una patina ideologica?

Il martirio come suicidio

Una docente universitaria che faceva contemporaneamente da madre e da educatrice ai suoi studenti ufficiali e non, superando di gran lunga il suo ruolo di insegnante, mi ha raccontato che uno dei suoi “figli”, un simpatizzante dello Stato islamico, era andato a trovarla in condizioni pietose dopo la dispersione dei manifestanti di Rabaa nel 2013 per confidarle di essere gravemente depresso e di avere pensieri suicidari.

Questa “madressoressa”, come l’ho soprannominata, ha fatto del suo meglio con quel “figlio”. Lo ha consolato e ha tentato di scacciare le sue idee suicidarie. Lui si è chiuso nel silenzio ed è tornato a trovarla dopo varie settimane per dirle addio: andava a fare la guerra santa in Siria. Al che lei ha risposto: “Lascia stare il jihad. Non hai avuto il coraggio di suicidarti qui nel tuo paese, e così vuoi morire come martire in un paese straniero”.

Questa storia illustra come siano innanzitutto le motivazioni psicologiche a spingere un individuo verso la violenza. Solo in un secondo tempo, si cerca di apporre una patina ideologica che giustifichi un atto mosso essenzialmente da un desiderio di vendetta.

Mi è tornata in mente quando, in circostanze confuse, fui trasferito nella sezione dei prigionieri e detenuti politici coinvolti nel programma di “revisione ideologica” istituito dal dipartimento di sicurezza nazionale del Ministero degli Interni. Avevo già passato 78 mesi a contatto con criminali che versavano in condizioni nemmeno paragonabili alle mie. Ero fermamente intenzionato a recarmi da uno psichiatra non appena fossi uscito di prigione. Ritenevo di aver bisogno quanto meno di una valutazione, affinché il medico decidesse se era necessaria una terapia o se mi sarebbero bastati dei consigli e un po’ di supporto, senza delle visite regolari.

Nella stanza riservata al programma di revisione ‒ dal quale io ero ovviamente escluso – mi sono ritrovato per la prima volta in compagnia di prigionieri politici. Pochi di loro avevano fatto ricorso alla violenza e in molti volevano, partecipando a quel programma, manifestare di non essere in alcun modo legati alle organizzazioni islamiste, di matrice jihadista o politica che fossero.

Si trattava di un piccolo campione di prigionieri “politici”, un’ampia categoria “securitaria” che include anche i terroristi, sebbene questi ultimi ricevano un trattamento diverso. Lì ho capito che il mio bisogno di valutazione psicologica non era in nessun modo paragonabile al loro, di gran lunga più impellente.

Mostrarsi inoffensivi

Il principale relatore in questi programmi di revisione penitenziaria era Usama Al-Azhari, consigliere del presidente della Repubblica per gli affari religiosi. Non so granché dei tentativi fatti nelle altre carceri, ma so bene ciò che è stato fatto nel carcere di Tora tra il 2021 e il 2022, avendo raccolto io stesso le testimonianze delle persone coinvolte nell’ultimo programma.

Al-Azhari ha tenuto quattro conferenze. Alla prima è venuto ben preparato, pronto a fronteggiare coloro che gli erano stati descritti come degli illustri jihadisti o takfiristi2. La seconda volta, invece, c’era meno tensione, l’atmosfera era per sua stessa ammissione più rilassata, perché non aveva percepito tra i presenti nessuna volontà di contestazione né spirito polemico. Questi, anzi, facevano di tutto per dimostrare che non avevano niente a che vedere con i reietti dello Stato e con chiunque si fosse allontanato dalla retta via di Al-Azhar.

Nei documenti lasciati da alcuni partecipanti al programma – trasferiti improvvisamente in un altro carcere per motivi che non hanno niente a che vedere con il programma stesso ‒ ho letto un discorso simile a una dissertazione che lodava lo Stato egiziano e diceva tutto il male possibile dei Fratelli Musulmani, in termini che certamente meritavano, ma misti ad accuse che tuttavia non meritavano. Si trattava della bozza di un discorso declamato durante una delle conferenze di Al-Azhari. Ho vissuto con i partecipanti al programma rimasti a Tora, prima di essere trasferito insieme a loro nel carcere di Badr, dove ho passato i miei due ultimi mesi di prigione.

Ho visto gente con bisogni variabili di riabilitazione psicologica. Li ho sentiti prendere in giro Al-Azhari per il fatto che si aspetta da loro un discorso diverso da quello che lui propina. Selezionati con la massima cura dagli ufficiali del dipartimento di Sicurezza nazionale, i partecipanti erano tutti attentamente sorvegliati dai cosiddetti “collaboratori”, e ognuno di loro ha dovuto superare numerosi colloqui per poter essere inserito nel programma.

Inoltre, le conferenze erano registrate. I partecipanti si trovavano quindi in uno stato di sottomissione totale, anche se non condividevano in tutto e per tutto il discorso di Al-Azhari. La sola cosa a cui tenevano era che la sicurezza smettesse di sorvegliarli e li lasciasse in pace. D’altra parte, però, le loro non possono considerarsi storie “di successo” di prigionieri usciti dai “centri di correzione e riabilitazione”. Usciranno, anzi, con un disperato bisogno di essere seguiti sul piano psicologico.

La via della vendetta

La storia contemporanea dell’Egitto pullula di esempi di prigionieri politici. Ma il numero di prigioniere donne non è mai stato alto come in questo momento. Se è vero che la società egiziana è patriarcale nel suo insieme, ciò è ancor più vero negli ambienti islamisti. Per costoro, arrestare una donna è un attacco al loro onore, un’umiliazione per la loro virilità. Una volta fuori, la maggior parte delle prigioniere farà di tutto per non tornare dietro le sbarre. Non parteciperanno a nessuna attività, né prenderanno la parola sui social. Ma chi può dire come educheranno i loro figli? O in che modo inciteranno i loro fratelli? Chi può garantire come saranno le generazioni dei figli di prigionieri e detenuti in custodia cautelare che avranno passato anni e anni lontano dalle loro famiglie? Di questi bambini cresciuti come orfani, che hanno provato l’amarezza di una separazione forzata, chi può dire come si comporteranno da grandi? Chi li guarirà dall’incitazione alla vendetta e dal discorso virilista che li spingerà a prendersi la rivincita, a lavare il loro onore costi quel che costi, anche ricorrendo al discorso religioso?

I responsabili tra le fila delle autorità egiziane non si accorgono che, di questo passo, Daesh sarà stato solo un assaggio di quello che ci aspetta in futuro?

Chi è mosso dal desiderio di vendetta non indugerà a lungo sulla pertinenza o meno delle sue idee. Se non trova sbocco nell’ideologia jihadista, si farà strada tra l’estremismo nazionalista, o il nazional-fascismo, o ancora l’estremismo di sinistra. Cambia poco. Ciò che conta è che ha scelto la via della vendetta, e farà di tutto per attuarla.

Una riabilitazione psicologica più che un approccio intellettuale

Credo che nessuno sappia che ho aiutato un ex jihadista detenuto dal 2005 a redigere uno studio al quale ha lavorato per molti anni, con cui intendeva rispondere ai jihadisti e ai takfiristi attraverso la loro stessa letteratura, citando nomi come Ibn Taymya e Ibn al-Qayyem e altri imam della tradizione [salafista]. Gli dissi in tutta sincerità che se non avessi pensato che i suoi sforzi meritavano di spenderci del tempo, mi sarei limitato a leggere la bozza e a fargli due o tre osservazioni a voce. Ma feci molto di più. Passai due settimane insieme a lui a rileggere le bozze, le ricopiai io stesso a mano, suggerendo modifiche e correzioni metodologiche o stilistiche, per farne un vero e proprio studio scientifico da destinare a un’eventuale pubblicazione, con l’accordo degli organi di sicurezza. Che il mio nome apparisse o meno come revisore contava poco.

Non avrei parlato di questa storia se la copia del testo non fosse andata smarrita mentre ci trasferivano dal carcere di Tora a quello di Badr. Non esistono altre copie. Quello che voglio dire è che, nonostante le profonde divergenze ideologiche con questo amico, ex jihadista e oggi semplice salafista, ho subito accettato di aiutarlo per un progetto che considero di pubblica utilità. E questo nonostante continuasse a fare un ragionamento che voleva assolutamente mettermi in una data categoria, finché non si è finalmente tranquillizzato sul fatto che non prendevo alla leggera la letteratura islamista, e che non ignoravo né le tradizioni né le questioni teologiche fondamentali, né le fonti da cui discendono. Con questo intendo dire che non sminuisco affatto l’importanza dell’ideologia e delle revisioni intellettuali. Ma sostengo che la riabilitazione psicologica è mille volte più importante di qualunque approccio intellettuale.

Aggiungerò inoltre che conosco brillanti psichiatri pronti ad aiutare – anche a titolo gratuito – o a seguire i detenuti da poco liberati. Alcuni sono addirittura disposti a dirigere dei programmi del genere all’interno stesso delle carceri, purché si manifesti una volontà politica di questo tipo.

La sola condizione che pongono è il rispetto dell’etica professionale, che non vengano rivolte loro domande legate all’intimità dei pazienti e che gli organi di sicurezza non li trattino come degli informatori. D’altra parte, si impegnano a rispettare i limiti della legge egiziana. Pertanto, segnaleranno qualunque paziente che esprima il desiderio di suicidarsi o di fare del male ad altri, o di aggredire sessualmente dei minori. Il resto è protetto sia dalle leggi nazionali che internazionali, oltre che dai codici deontologici.

Se l’apparato di sicurezza teme che l’inquadramento psicologico dei prigionieri si trasformi in un mezzo per recensire e documentare i casi di violazione [dei diritti] e tutto ciò che può scaturirne in termini di procedure legali e pressione mediatica, militante e politica, sappia che esistono tra gli psichiatri egiziani dei professionisti del tutto consapevoli di questi timori, pronti a separare il loro lavoro dal resto, per amore verso questo paese e per paura di quello che sarà il futuro dei nostri figli.

I traumi psicologici causati dall’esperienza del carcere, soprattutto in coloro che hanno sofferto durante gli interrogatori, sono una bomba sociale e umana pronta ad esplodere. Una minaccia per la pace e la sicurezza della società, che spazza via in un attimo quel concetto che bisognerebbe ridefinire “la sicurezza nazionale egiziana”.

1Entrambi leader di Ansar Bayt al-Maqdis (“I partigiani di Gerusalemme”), gruppo armato affiliato all’organizzazione dello Stato Islamico (IS) e presente nel Sinai.

2Da takfirismo, un movimento settario fondato nel 1971 da Shukri Ahmad Mostafa, che considera come minata dalla miscredenza tutta la società islamica e definisce eretici tutti gli islamici che non condividono il suo punto di vista.