
I crescenti massacri di palestinesi che si sono precipitati verso i centri di distribuzione degli aiuti alimentari (516 morti, 3.799 feriti e 39 dispersi al 25 giugno)1 rivelano, ancora una volta, il grande disprezzo dell’IDF per la vita umana. Un disprezzo espresso anche dalla creazione di questi centri: Israele ne ha realizzati solo quattro per oltre due milioni di persone, invece dei duecento che erano stati previsti da organizzazioni internazionali con esperienza nel settore. È così che si affamano e si umiliano i sopravvissuti.
Anche la collocazione dei centri è molto significativa: uno si trova al centro della Striscia di Gaza e gli altri tre sono all’estremo sud, a ovest di Rafah. Nella mappa pubblicata (qui in basso) dal portavoce dell’IDF, si nota che non vi è alcuna corrispondenza tra la collocazione di questi centri e i bisogni della popolazione. L’obiettivo è quello di incoraggiare lo “spostamento della popolazione” verso sud, preferibilmente verso le “zone di concentrazione”. Ma era necessario adottare delle misure per nascondere ciò che rientra nel campo dei crimini contro l’umanità. Per farlo, bisognava innanzitutto far fuori le organizzazioni umanitarie che potevano fornire cibo agli abitanti (e produrre una documentazione affidabile al riguardo) affidando la distribuzione a organizzazioni senza esperienza, che sono strumenti nelle mani dell’esercito.

L’11 maggio, il quotidiano israeliano Maariv ha riportato le parole pronunciate dal premier israeliano Benyamin Netanyahu nel corso di una riunione a porte chiuse della Commissione parlamentare per gli Affari Esteri e la Sicurezza: “L’erogazione degli aiuti sarebbe subordinata al fatto che i gazawi beneficiari non facciano ritorno nei luoghi da cui sono partiti per recarsi nei centri di distribuzione”. È questa la speranza che ha spinto il ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich ad appoggiare la proposta, sebbene in precedenza si fosse opposto a qualsiasi forma di aiuto.
La logica dell’operazione è stata confermata anche da Tammy Caner, direttrice del dipartimento Diritto e Sicurezza nazionale presso l’Istituto per gli studi di sicurezza nazionale di Tel Aviv (INSSI). L’istituto è un think tank dell’establishment della sicurezza, molto vicino all’esercito. In un’intervista pubblicata sul canale YouTube dell’Istituto, la Caner ha confermato la decisione di vietare il ritorno alle proprie case e alle proprie famiglie a tutti coloro che dal nord si recano nel sud.
Insieme alla sua collega, l’avvocata Pnina Sharvit-Baruch, ex capo del Dipartimento di Diritto Internazionale nella Procura Generale Militare dei reparti dell’IDF e incaricata dal Ministero della Difesa di fornire una copertura legale a misure illegali, hanno avvertito: “L’evacuazione e lo sfollamento della popolazione”, così come la promozione del programma di “emigrazione volontaria”, possono essere considerati crimini contro l’umanità2. Non c’è alcun dubbio che alcuni esponenti di spicco temono un giorno di essere portati davanti alla giustizia...
L’arma della fame
Il punto centrale qui è che Israele vuole avere il controllo esclusivo della distribuzione degli aiuti umanitari per usarlo contro la popolazione civile. La fame e la distribuzione degli aiuti subordinata a condizioni imposte dall’occupante sono due mezzi complementari per usare il cibo come arma.
L’arma della fame adoperata sistematicamente contro le popolazioni civili durante le guerre totali è una pratica che ha una lunga storia. Ma lo “spostamento forzato della popolazione” attraverso la creazione o lo sfruttamento di gravi carenze, così come l’uso degli aiuti approvvigionamenti come misura coercitiva, non sono una novità in Israele. In uno studio non ancora pubblicato, ho scoperto che, negli anni ‘50, le autorità israeliane avevano utilizzato la privazione di beni essenziali come mezzo di pressione contro i palestinesi sfollati per impedirne il ritorno, ma anche, in misura minore, contro gli ebrei (soprattutto mizrahim, ebrei originari dei paesi arabi) che lo Stato cercava di trasformare in coloni nelle regioni di confine. La privazione dei beni di prima necessità e la loro fornitura condizionata sono armi efficaci proprio perché non implicano né spari né bombardamenti.
“Distruggiamo sempre più case”
Non è ancora chiaro se il programma “affamare-trasferire” raggiungerà i suoi obiettivi. Secondo i rapporti provenienti dalla Striscia di Gaza, solo i più forti riescono a raggiungere i centri di distribuzione, quelli che possono camminare per chilometri per poter trasportare un pacco per un’intera settimana. Finora Israele non è riuscito a convincere le centinaia di migliaia di palestinesi che erano nel nord della Striscia di Gaza a compiere il lungo viaggio verso sud, né a impedire loro di tornare indietro. Chi partirebbe nel caldo torrido per un lungo viaggio per portare del cibo senza poterlo consegnare ai propri cari che si trovano lì dove sono? I palestinesi hanno dimostrato ancora una volta il loro attaccamento alla loro casa, anche quando è in rovina. D’altra parte, il cibo, come ci si può aspettare in condizioni di estrema carestia, finisce nelle mani di bande violente, spesso sostenute da Israele.
Questo significa che ci sono meno pericoli o che il piano di trasferimento attraverso la fame non sta funzionando? È troppo presto per dirlo, ma, alla fine, la miseria finirà per avere i suoi effetti. La risposta all’inusccesso delle misure coercitive adottate ha già avuto come conseguenza l’intensificarsi delle distruzioni e dei morti, come sta avvenendo nel nord. Secondo gli ultimi rapporti, come quelli raccolti da Meron Rapoport e Oren Ziv33, che citano le testimonianze dei soldati israeliani, lo scopo della distruzione sistematica e indiscriminata di tutte le infrastrutture vitali e del maggior numero possibile di edifici è quello di costringere gli abitanti a partire senza poter fare ritorno.
Una conferma esplicita di ciò si trova nelle dichiarazioni di Netanyahu trapelate:
Stiamo distruggendo sempre più case, i palestinesi non hanno più un posto dove tornare. L’unica conseguenza logica sarà che i cittadini di Gaza sceglieranno di emigrare fuori dalla Striscia. Ma il nostro problema principale è trovare paesi che li accolgano.
Per procedere a una deportazione definitiva, non basta espellere le persone. Bisogna sradicarli e privarli di ogni possibilità di ritorno, come già avvenuto dopo il 1948. Ciò sarà possibile grazie ai raid sistematici che proseguono le ondate di distruzione dei mesi precedenti. Il grande progetto israelo-americano di trasferimento rimane ancora attuale con il coinvolgimento di diverse correnti della destra israeliana, sia interne che esterne al governo.
Tre “zone di concentrazione”
Dove finirà chi non sopporta una tale pressione? Da mesi Israele ha aperto delle trattative con i “paesi di accoglienza”, anche se quelli citati (Congo, Ciad, Ruanda) hanno smentito. Nel frattempo, le autorità israeliane parlano di tre “zone di concentrazione” nell’enclave palestinese. Tre di queste zone sono indicate sulla mappa pubblicata dal Times e dal Sunday Times il 17 maggio, sulla base di fonti diplomatiche. Tuttavia, la mappa è fuorviante: non tiene conto del fatto che un’intera zona lungo il confine è già stata evacuata e che gli edifici sono stati sistematicamente distrutti. Secondo le dichiarazioni ufficiali, gli abitanti di Gaza non saranno autorizzati a viverci.

Sulla mappa pubblicata dal quotidiano Haaretz (25 maggio), le “zone di concentrazione” sono ancora più piccole. Secondo una stima approssimativa, l’area intorno alla città di Gaza misura circa 50 km²; quella dei campi nel centro circa 85 km² e quella di Al-Mawasi, lungo la spiaggia meridionale, circa 8 km², per un totale di meno di 150 km², mentre la Striscia di Gaza si estende su 365 km². Prima della guerra, la densità di popolazione (5.935 abitanti per km²) era paragonabile a quella di Londra (5.598 abitanti per km²). Le zone identificate dalle organizzazioni umanitarie che operano sul posto sono ancora più ristrette4. Se questo piano israeliano verrà realizzato, la densità potrebbe raggiungere i 15.000 abitanti al km², ovvero una densità simile a quella di isole ricche e lussuose come Macao (20.569 abitanti al km²) e Singapore (8.128 abitanti al km²). Considerando le dimensioni ridotte di queste “zone di concentrazione”, il divieto di poter uscire, l’assenza di mezzi di sussistenza e di infrastrutture è legittimo parlare di campi di concentramento.

Mappe che devono servire per le indicazioni, anche se le linee possono cambiare a seconda delle condizioni, delle pressioni e delle iniziative locali. Indicano il piano complessivo. Per i generali e i politici, la divulgazione delle mappe ha anche un altro ruolo: testare l’opinione pubblica, valutare se l’indignazione della gente porta a delle proteste, vedere fino a dove si può arrivare senza sanzioni. Forse riusciranno a radunare i sopravvissuti palestinesi in tre “zone di concentramento”, o l’esito finale sarà diverso. Ma vogliamo davvero aspettare l’esito finale?
Purificazione etnica - o peggio ancora
I palestinesi hanno sempre ribadito che la Nakba non è un evento, ma un processo continuo, per cui la fase attuale è particolarmente pericolosa.
Nel corso della storia, l’espulsione e l’espropriazione dei palestinesi hanno avuto un ritmo altalenante, con periodi di escalation, altri meno intensi e persino anni di stabilizzazione. Ci sono stati persino momenti in cui si è avuto un modesto ritorno, in particolare dopo l’espulsione di massa del 1948, ma anche dopo l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza nel 1967. Allo stato attuale, però, si assiste a un’accelerazione senza precedenti del processo, che sta portando a livelli di crudeltà mai visti prima.
Il passaggio dalla repressione all’espulsione, dalla pulizia etnica allo sterminio sta avvenendo mentre sembra che nulla sia in grado di fermare le forze armate che accelerano il processo. In tempo di guerra, in assenza di controlli internazionali e nel caos degli scontri, un trasferimento interrotto può degenerare in un massacro.
Il ripetuto spostamento da un luogo all’altro nel territorio ristretto della Striscia di Gaza mira a sradicare la popolazione distruggendo il tessuto sociale della loro vita. Alcuni muoiono “da soli”, mentre altri diventano un “problema” che deve essere risolto con mezzi sempre più brutali. La distruzione sistematica crea una nuova situazione: zone inadatte alla vita che possono giustificare per “motivi umanitari” l’espulsione e il trasferimento forzato verso “zone di concentramento”.
Se i palestinesi vogliono sfuggire a questa pressione insopportabile, gli viene aperta la porta per andare via. Si tratta però di un viaggio senza ritorno. Allo stesso modo, le condizioni di vita insopportabili nelle “zone di concentramento” possono, a un certo punto, spingere la popolazione a resistere con ogni mezzo. Gli scontri potrebbero di conseguenza dare luogo a operazioni di “mantenimento dell’ordine” o azioni di rappresaglia, se non addirittura a massacri in grado di accelerare ancor di più il processo. È probabile che, di fronte al fallimento dei tentativi di confinare la popolazione in enormi recinti, si possa verificare una nuova escalation di violenze.
Il XX secolo offre molti esempi terribili della rapida radicalizzazione delle forze armate nelle loro azioni contro la popolazione civile nel contesto di guerre totali. È questa dinamica che porta ai vertici di comando e direzione uomini determinati a sterminare, come il colonnello Yehuda Vach, un colono radicale che pensa che “non ci siano innocenti a Gaza”5. L’uomo è stato anche accusato di crimini di guerra: il 21 marzo 2025 avrebbe ordinato alla 252ª divisione, l’unità di cui aveva il comando, la distruzione dell’ospedale per le cure oncologiche a Gaza6. Per passare dal fallimento di un’operazione di trasferimento a una pulizia etnica sanguinosa, per arrivare a un disastro ancor più grave di quanto visto finora, non c’è bisogno di un piano elaborato. Basta il silenzio.
Desidero ringraziare Amira Hass, Liat Kozma, Lee Mordechai, Alon Cohen-Lipschitz, Gerardo Leibner e Meron Rapoport per il loro prezioso aiuto e le loro osservazioni pertinenti.
1Dati forniti dall’Ufficio governativo per l’informazione di Gaza
2“Operation ‘Gideon’s Chariots’. Crossing Red Lines”, INSS, 4 maggio 2025.
3“Render it unusable: Israel’s mission of total urban destruction”, +972, 15 maggio 2025.
4Gaza Population Movement Monitoring, CCM Cluster, Flash-Update, n° 16, 3 giugno 2025.
5Yaniv Kubovich, “’No Civilians. Everyone’s a Terrorist’: IDF Soldiers Expose Arbitrary Killings and Rampant Lawlessness in Gaza’s Netzarim Corridor”, Haaretz, 25 maggio 2025.
6Yaniv Kubovich, “IDF Investigating if Commander Demolished Nonfunctioning Hospital in Gaza Without Authorization”, Haaretz, 24 marzo 2025.