Gaza. Gli Stati arabi e musulmani di fronte al piano Trump

Nonostante il cessate il fuoco abbia fermato i massacri, il piano per la fine della guerra proposto dal presidente americano non lascia ben sperare il popolo palestinese a Gaza e in Cisgiordania. Il piano ideato da Trump, infatti, non mette fine alla politica avventurista di Israele nella regione. Una realtà che però non spinge gli Stati regionali a riconsiderare il loro modo di trattare con Donald Trump.

Gruppo di leader con bandiere nazionali sullo sfondo, momento per la pace in Medio Oriente.
Sharm el-Sheikh, Egitto, lunedì 13 ottobre 2025. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump al «vertice di pace» a Gaza, che presiede insieme al presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi.
Daniel Torok / Foto ufficiale della Casa Bianca / Flickr

Cominciamo col dire apertamente ciò che tutti pensano in segreto: il piano Trump, dal nome del presidente degli Stati Uniti, non ha come obiettivo quello di instaurare una pace duratura nella regione. Il piano non mira nemmeno a ricostruire Gaza, né a difendere gli interessi della sua popolazione, né a creare uno Stato palestinese, né a concedere ai palestinesi, legittimi proprietari di questa terra, i diritti di una piena cittadinanza all’interno di un unico Stato binazionale, democratico e laico, che risponda agli ideali dei sistemi occidentali.

A breve termine, il piano intende raggiungere tre obiettivi principali: il primo è la liberazione degli ostaggi in cambio di un certo numero di prigionieri palestinesi. Il secondo obiettivo – che nel frattempo è fallito – era quello di far vincere a Donald Trump il premio Nobel per la pace. Il terzo, e senza dubbio il più importante, è quello di salvare la reputazione di Israele, macchiata da due anni di massacri nei territori occupati.

A medio e lungo termine, il piano mira a quattro obiettivi. Il primo è quello di stabilire l’egemonia di Tel Aviv sulla regione, rendendo obsolete le frontiere tradizionali e garantendo a Israele la libertà di movimento per colpire chi vuole, quando vuole e dove vuole. A tal fine, il Paese beneficerà della copertura logistica e dell’assistenza di tutti i Paesi della regione che ospitano basi americane o che intrattengono relazioni militari strategiche con gli Stati Uniti.

Il secondo obiettivo consiste nello sfruttare maggiormente i fondi del Golfo per finanziare il Consiglio di pace che sarà presieduto da Donald Trump1, la forza di stabilizzazione internazionale che lo accompagnerà e preparare il piano di sviluppo economico di Trump per Gaza, che sarà attuato dallo stesso consiglio2. È senza dubbio a questo piano che il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich si riferiva nel settembre 2025, definendo Gaza una “bonanza” immobiliare, ovvero un’occasione d’oro per arricchirsi in modo facile e veloce. Smotrich aveva allora dichiarato che Israele aveva messo a punto dei piani, in coordinamento con gli Stati Uniti, che si trovavano sulla scrivania di Trump, in attesa di essere attuati. Una sorta di progetto “Riviera +”. Un comitato consultivo economico nominato da Trump, sempre nell’ambito del suo piano di pace, consentirà di trasformare Gaza in una città simile alle città miracolose del Golfo, con la partecipazione di magnati del mondo immobiliare e degli affari.

Il terzo obiettivo è l’eliminazione di ogni forma di resistenza nei territori occupati, la liquidazione della causa palestinese e lo sfollamento forzato della popolazione che non può essere arruolata come manodopera nei progetti di costruzione di Trump e dei suoi collaboratori. Lo scopo è quello di sradicare l’idea stessa di resistenza nella regione e di ottenere un cambio di regime in Iran, attraverso strategie di isolamento internazionale e regionale – e di disarmo – diretto o impedendo qualsiasi sostegno politico e finanziario.

Quarto e ultimo obiettivo: normalizzare la presenza di Israele nella regione e le sue relazioni con tutti i Paesi arabi, in particolare l’Arabia Saudita. L’obiettivo è quello di fornire a quest’ultima una via d’uscita per tornare sulla sua astuta posizione che fa della creazione di uno Stato palestinese la condizione preliminare per la sua normalizzazione con Israele.

Stati consapevoli degli obiettivi di Israele

Diversi Stati arabo-musulmani3 hanno accolto con favore il piano Trump, cercando di mettere in evidenza agli occhi delle loro popolazioni gli obiettivi raggiunti: il cessate il fuoco, l’arrivo degli aiuti umanitari, il rifiuto dello sfollamento forzato e dell’annessione, il ritiro completo delle forze israeliane e la creazione di uno Stato palestinese. Ciò non toglie che siano consapevoli degli obiettivi citati in precedenza. Sono costretti però ad accettare il piano Trump e persino a fare pressione su Hamas, sulla resistenza e sull’Autorità palestinese affinché accettino il piano Trump, viste le richieste e le minacce, esplicite o velate, che essi stessi subiscono. Si possono citare, a titolo non esaustivo, il raid israeliano contro Doha, il continuo richiamo alle difficoltà economiche dell’Egitto, i problemi causati dalla Diga della rinascita (GERD), che l’Etiopia ha appena terminato di costruire e che rischia di compromettere la quota di acque del Nilo spettante all’Egitto, e le lamentele di Tel Aviv nei confronti del Cairo, presso gli Stati Uniti, per aver schierato nel Sinai un numero di soldati e di armi superiore a quanto previsto dagli accordi di pace di Camp David. Infine, gli Stati del Golfo non dimenticano il discorso di Donald Trump durante il suo primo mandato (2017-2021), in cui ha menzionato una telefonata con il re dell’Arabia Saudita, Salman bin Abdul Aziz Al-Saud, al quale aveva chiesto di pagare per la protezione americana4. In caso contrario...

Per trattare con Trump, gli Stati arabo-musulmani seguono lo stesso approccio adottato dai paesi europei: lo adulano, evitano di contraddirlo pubblicamente e non lesinano sulle offerte. Cercano poi di fargli cambiare opione, o almeno di interpretarla a posteriori alla luce delle loro priorità: se non riescono a realizzarle, cercano almeno di salvare la faccia davanti alla loro opinione pubblica.

È un approccio che pone però due problemi fondamentali nel contesto attuale. Durante la conferenza stampa con Donald Trump alla Casa Bianca lunedì 29 settembre 2025, Benyamin Netanyahu aveva definito le priorità di Israele, chiedendo: la liberazione degli ostaggi, il disarmo e lo sradicamento di Hamas, lo smantellamento di ogni capacità militare a Gaza, la garanzia della libertà di movimento e del controllo securitario israeliano su Gaza e il mantenimento di una presenza militare permanente intorno a Gaza. Priorità stipulate in modo chiaro e inequivocabile nelle clausole del piano, a cui Trump assicura il suo sostegno incondizionato. Le priorità dei Paesi arabo-musulmani, benché siano menzionate nel piano, sono invece vaghe e ambigue perché dipendono da negoziati dai contorni indefiniti e subordinate al raggiungimento di obiettivi quasi impossibili da realizzare, come la smilitarizzazione di Gaza. La loro valutazione è lasciata alla discrezione del Consiglio di pace presieduto da Trump, che sarà affiancato da Tony Blair, l’ex primo ministro britannico coinvolto in una serie di scandali finanziari, nonché uno degli artefici dell’invasione dell’Iraq nel 2003.

Come resistere agli Stati Uniti? Come l’Europa o come la Russia?

Il secondo problema, più importante ma anche più semplice da comprendere, è che questo approccio servile e questi tentativi di seduzione e interpretazione si sono rivelati vani da parte europea, sia sul dossier ucraino che in materia di guerre commerciali e dazi doganali.

In realtà, l’unico approccio che finora ha dato risultati con Trump è quello adottato dalla Russia: perseguire i propri obiettivi senza dare alcun peso alle parole e alle posizioni del presidente americano, per poi trarre vantaggio dai suoi continui cambiamenti di posizione, che gli sono valsi il soprannome di TACO da parte dei suoi oppositori, acronimo di “Trump Always Chickens Out” “ (“Trump si tira sempre indietro”). Lo stesso vale per la Cina, dove la reciprocità è d’obbligo di fronte alle minacce economiche e commerciali, pur dimostrando di essere pronta a un confronto militare, se necessario.

Ironia della sorte, lo stesso Trump ha raccomandato di adottare questo approccio per affrontare gli atti di intimidazione. L’ha sostenuto durante il famoso incontro con il re Abdullah II di Giordania alla Casa Bianca nel febbraio 2025, dove ha esortato il re ad accogliere i palestinesi sfollati dalla Cisgiordania, dopo avergli ricordato gli aiuti degli Stati Uniti nei confronti del suo Paese. Durante l’incontro, Trump aveva dichiarato che, di fronte ai tentativi di intimidazione di Hamas, era necessario porre dei limiti, perché qualsiasi concessione sarebbe stata controproducente.

Tutto ciò non dovrebbe spingere gli Stati arabi e musulmani a ripensare il loro metodo di fare pressione sulla resistenza palestinese affinché accetti il piano di Trump? L’apertura delle “porte dell’inferno”, come Trump continuava a minacciare, non avrebbe potuto rappresentare per i palestinesi un’occasione storica per sfruttare il crescente sostegno internazionale e uscire, attraverso quelle stesse porte, dall’inferno in cui Israele li ha fatti sprofondare con l’appoggio degli Stati Uniti, dal 7 ottobre 2023?

Ora che Hamas ha accettato l’attuazione della prima fase del piano – liberazione degli ostaggi in cambio di un cessate il fuoco, ingresso degli aiuti umanitari, liberazione di un numero consistente di prigionieri palestinesi e un ritiro limitato delle forze israeliane – si è tenuto a Sharm el-Sheikh un vertice mondiale su iniziativa dell’Egitto – a cui non hanno partecipato né il principe ereditario saudita né il presidente degli Emirati Arabi Uniti – per ottenere il riconoscimento internazionale del suo ruolo nella regione. Trump, che non ha osato invitare i leader arabi a firmare il suo piano durante la sua presentazione a Washington il 29 settembre, ha colto l’occasione del vertice per promuovere in fretta e legittimare a livello internazionale il suo piano machiavellico e ambiguo per un nuovo Medio Oriente. Trump non ha esitato nemmeno a inviare inviti ai vertici egiziani, una mossa insolita che rompe le regole del protocollo. Non sarebbe una sorpresa se poi venisse intrapresa un’azione presso le Nazioni Unite per far adottare il piano di Trump, sulla falsariga della dichiarazione di New York della Francia e dell’Arabia Saudita.

Non può esserci pace senza i palestinesi

Ricordiamo che questa dichiarazione è servita da base per introdurre l’idea del disarmo di Hamas e della riforma dell’Autorità Nazionale Palestinese come condizioni per qualsiasi futura azione internazionale5, omettendo però di chiedere conto a Israele dei crimini commessi.

Il problema di queste dichiarazioni, così come quello degli accordi di Abramo6, è che non affrontano mai i problemi di fondo. Tengono conto dei pareri di tutti senza tenere conto però di quella dei principali interessati, i palestinesi, né tantomeno li invitano a partecipare. Cercano poi di manovrare abilmente per realizzare progetti complessi, elaborati a migliaia di chilometri di distanza da dove si svolgono gli eventi, al fine di strumentalizzare la comunità internazionale o regionale per raggiungere obiettivi molto lontani da una soluzione giusta al conflitto, che rispetti l’equilibrio degli interessi delle parti e tenga conto della reale situazione sul campo. E poi ci si stupisce se non si riesce a risolvere il conflitto. È l’arte di continuare a usare sempre lo stesso modus operandi aspettandosi miracolosamente un risultato diverso.

1Un Consiglio di Pace, “Board of Peace”, che ricorda l’idea del Consiglio di Amministrazione Fiduciaria che ha accompagnato la creazione delle Nazioni Unite (ONU) e il cui ruolo era quello di monitorare l’amministrazione dei territori mandatari, al fine di accelerare il processo verso l’autonomia o l’indipendenza. Piuttosto ironico se si pensa alle conseguenze del mandato britannico sulla Palestina.

2È l’unica spiegazione per lo sviluppo di nuovi piani con logiche legate al business che ignorano il piano di ricostruzione supervisionato dall’Egitto in coordinamento con le Nazioni Unite e varie organizzazioni competenti, adottato al vertice straordinario della Lega Araba sulla Palestina nel marzo 2025 e accolto con favore dalle Nazioni Unite, dall’Unione Europea e persino dagli Stati Uniti.

3Si parla dei rappresentanti di otto Stati arabi e musulmani: Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Giordania, Qatar, Turchia e Pakistan hanno incontrato Trump durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite per discutere il suo piano.

4“Trump: Saudis need to pay if they want US troops to stay in Syria”, Al Jazeera, 4 aprile 2018.

5Michael D. Shear, Steven Erlanger and Roger Cohen, “Behind Europe’s Anguished Words for Gaza, a Flurry of Hard Diplomacy”, The New York Times, 10 agosto 2025.

6Vivian Nereim, “Why Trump’s Abraham Accords Have Not Meant Mideast Peace”, The New York Times, 13 luglio 2025.

Ti è piaciuto questo articolo? Orient XXI è un giornale indipendente, senza scopo di lucro, ad accesso libero e senza pubblicità. Solo i suoi lettori gli consentono di esistere. L'informazione di qualità ha un costo, sostienici

Fare una donazione