Dalla nostra inviata speciale.
Mentre si intensificano i viaggi degli inviati europei in Libano nella speranza di evitare una guerra con Israele, Beirut continua a vivere. Non si deve dimenticare che il sud del paese è a ferro e fuoco dall’8 ottobre. Chi è espatriato all’estero fa volentieri rientro nel proprio paese natale, del resto i voli di ritorno per Beirut registrano solo un calo del 5% rispetto a giugno 2023. I caffè e i bar di Hamra, il quartiere storico della sinistra intellettuale, sono sempre pieni, anche se il dollaro è diventato ormai la moneta corrente. Bisogna però sempre ricordarsi di avere qualche mazzetta di lire libanesi (LBP) in tasca, anche per un semplice caffè, dato che il biglietto verde è ormai stabilizzato a 89.000 LBP, rispetto ai 1.500 prima della crisi. Sono molte le attività commerciali e le società locali che ormai pagano gli stipendi in dollari, contribuendo così a una sensazione generale di ripresa economica. Una ripresa che avviene al ritmo del ronzio sordo e ininterrotto dei generatori, presenti ad ogni angolo di strada, che servono a limitare le quotidiane interruzioni di corrente, dato che la compagnia nazionale Électricité du Liban (EDL) arriva a fornire appena 4 ore di elettricità al giorno.
Si tratta davvero di un ritorno alla quasi-normalità, come ripetono molti abitanti? Non per tutti,: la povertà esiste, è reale, dolorosa, soprattutto per chi, di sera, è costretto a rovistare tra i bidoni dell’immondizia facendosi luce con una lampada frontale; o per chi decide di camminare a piedi per non prendere più un “service”, il taxi collettivo, che un tempo costava 2.000 LBP (1,19 euro), mentre ora ne costa 200.000 (2 euro); o ancora, per i lavoratori precari pagati in lire che sono costretti a contrattare con i conducenti degli autobus il prezzo di un viaggio da Beirut a Tripoli a 100.000 LBP (1 euro) invece dei 150.000 (1,5 euro) previsti, nella speranza di non rosicchiare troppo i loro già magri stipendi.
“L’elefante nella stanza”
In questo contesto, la questione palestinese sembra avere un peso relativo. Chiaramente, qua e là, si vedono bandiere o graffiti in segno di solidarietà con le vittime della guerra genocida a Gaza. I negozi espongono in vetrina kefiah o vestiti con ricami palestinesi ben riconoscibili. Ma gli appelli a manifestare per la Palestina dopo il 7 ottobre, in particolare davanti all’ambasciata francese o egiziana, due governi percepiti come complici degli israeliani, non hanno avuto una grande partecipazione. “La gente è stanca, impelagata nelle difficoltà della vita quotidiana e anche per questo non crede più nel valore della mobilitazione”, spiega Mohamed (nome di fantasia), un ventiseienne che ha preso parte alle rivolte studentesche durante il periodo 2019-2020. Eppure, ci saremmo aspettati di vedere i giovani manifestanti di piazza dei Martiri scendere in prima linea a manifestare per la Palestina:
Dopo le grandi mobilitazioni, non c’è stata una struttura politica in grado di inquadrare quel movimento. E poi tutte le persone che all’epoca erano molto attive, oggi hanno lasciato il paese. Altri sono profondamente delusi, e, di conseguenza, hanno abbandonato ogni attività politica.
Walid Sharara, editorialista di Al-Akhbar, quotidiano vicino a Hezbollah, ricorda la situazione politica in Libano, che è senza un Presidente della Repubblica da quasi due anni:
Una parte della popolazione crede che il vero scontro con Israele avvenga nel sud, cosa che rende di secondaria importanza le manifestazioni a Beirut. E poi manifestare contro chi? In Libano, non c’è uno Stato a cui la gente può chiedere di mobilitarsi per Gaza.
Una giusta osservazione, ma non bisogna dimenticare però l’“elefante nella stanza” ogni volta che si parla di Palestina in Libano: Hezbollah, che ha un ruolo fondamentale nella resistenza armata contro Israele e negli scontri nel sud del paese. Come giustamente ricorda Mohamed:
Sul fronte interno, ciò che sta accadendo in Palestina ci costringe a posizionarci in relazione all’Asse della resistenza e della guerra. Perché, se qualcuno prende pubblicamente una posizione chiara su Gaza, viene subito catalogato come un sostenitore di Hezbollah.
Cambiare le carte in tavola
È il caso di Walid Jumblatt, leader del Partito socialista progressista e della comunità drusa. “Noi sosteniamo la causa palestinese perché è una causa giusta. Questa è una terra araba che è stata violata e colonizzata”, ha dichiarato nel podcast Atheer di Al-Jazeera il 3 giugno 2024, esprimendo il proprio sostegno ad Hamas come movimento di resistenza nazionale. Lui che ha accentuato la dimensione confessionale del suo partito, quando ne ha ereditato la leadership dopo l’assassinio di suo padre, Kamal Jumblatt, nel 1977, insistendo sull’importanza per la sua comunità di radicarsi nel contesto arabo, oggi non esita a criticare i drusi di Israele che combattono al fianco dell’esercito coloniale a Gaza. Sul sud del Libano, Jumblatt si spinge fino a esprimere un cauto sostegno al partito di Hassan Nasrallah:
Hezbollah è riuscito a dirottare una parte dello sforzo bellico israeliano da Gaza vero il nord. […] Il mio timore è che il fronte però possa allargarsi. […] Finora, siamo ancora nei limiti di una risposta prudente, cosa impossibile nel caso in cui si venga trascinati verso una guerra aperta.
Siamo ben lontani dalla “Coalizione del 14 marzo”, formata all’indomani dell’assassinio di Rafiq Hariri1 nel 2005 contro gli sciiti di Hezbollah e Amal, e contro la presenza siriana in Libano. La coalizione contava tra le sue fila il leader druso, i sunniti del Movimento del Futuro oltre ai partiti cristiani delle Falangi e delle Forze libanesi.
Arrivati sulle alture di Bikfaya, a meno di un’ora da Beirut, roccaforte della famiglia Gemayel, il presidente del partito delle Falangi libanesi, veniamo accolti nell’ufficio di Samy Gemayel, che esprime critiche sia all’estremismo del governo israeliano sia all’assenza di una “legittima rappresentanza” da parte palestinese. Elie Elias, professore di storia politica all’Università maronita dello Spirito Santo a Kaslik (USEK), vicino a Jounieh, a nord di Beirut, e membro dell’ufficio politico delle Forze libanesi, condanna “la violenza da ambo le parti” in un conflitto che è diventato “il conflitto religioso per eccellenza, al di là di ogni logica politica”, arrivando a definire Hamas un “movimento estremista, islamista e iraniano”.
Più che di resistenza armata, le Falangi e le Forze libanesi preferiscono parlare di una “soluzione a due Stati” e di un ruolo “esclusivamente diplomatico” per il Libano, come se quanto che sta accadendo in Palestina non riguardasse in alcun modo il paese dei Cedri. Anche qui, è difficile non vedere che difendere a spada tratta Gaza significa inevitabilmente avallare l’azione del Partito di Dio nel sud. “In nessun caso il Libano deve entrare in un conflitto militare o prendere posizione. Il problema qui è che non è il Libano a decidere, ma Hezbollah, senza il parere di nessun altro”, dice Samy Gemayel, convinto che “Israele non abbia ambizioni territoriali in Libano, altrimenti avrebbe colonizzato il sud del paese quando l’esercito israeliano l’aveva occupato”. Si può apprezzare – o meno – la sottile sfumatura.
Identità araba o confessionalismo?
Se i due principali partiti cristiani si limitano ad esprimere un generico cordoglio per il numero dei morti civili a Gaza condannando sia l’esercito israeliano che Hamas, la situazione è ben più complessa tra i sunniti, per i quali la questione palestinese è storicamente, come per la maggioranza delle popolazioni arabe, l’unica causa in grado di unirli.
Ma come sondare il polso di una comunità senza il suo capo, in un paese dove domina l’ordine confessionale? Dal gennaio 2022, l’ex primo ministro Saad Hariri, leader del Movimento del Futuro, si è ritirato dalla vita politica e si è trasferito negli Emirati Arabi Uniti (EAU), lasciando la comunità sunnita senza un leader. Durante una visita a Beirut nel febbraio 2024 per commemorare il 19° anniversario dell’assassinio di suo padre, Hariri ha dichiarato in un’intervista esclusiva sui canali sauditi Al-Hadath e Al-Arabiya:
Per quanto riguarda ciò che il sud e il nostro popolo stanno subendo, è chiara l’intenzione di Israele, e in particolare di Netanyahu, nell’orientare la guerra verso il Libano usando vari pretesti. […] Ma l’Iran non vuole la guerra con Israele. Per quanto mi riguarda, dobbiamo essere tutti solidali con Gaza e con i bambini di Gaza, e non distogliere la nostra attenzione da ciò che sta accadendo. Perché è proprio quello che vuole Israele.
Una posizione chiara, pur senza criticare l’intervento di Hezbollah nel sud: è quella che Walid Sharara chiama “la neutralità positiva” di una parte dei sunniti.
Mentre Hariri continua ad avere un certo peso all’interno della sua comunità, la frangia religiosa non è meno rilevante. Venerdì 5 luglio, nella moschea sunnita dell’Imam Ali, nel modesto quartiere di Tarik el Jdideh, nel sermone settimanale si è fatto riferimento alla questione di Gaza: “Ci sono bambini che muoiono di fame, e ci vengono a parlare di umanità, civiltà, modernità, diritti umani e persino di diritti degli animali! Che Dio vi maledica per ogni bambino che muore di fame e di sete a Gaza!”.
Hussein Ayoub, ex giornalista di Assafir e attuale caporedattore del sito web 180post, ribadisce:
Per la prima volta da quando l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) ha lasciato Beirut nel 1982, abbiamo un gruppo islamico sunnita di resistenza armata che ha portato il conflitto nel cuore di Israele, superando i movimenti prevalentemente sciiti presenti dalla nascita della resistenza islamica in Libano nel 1982. Gran parte della piazza araba sunnita si è identificata con questo gruppo, che è riuscito persino a sanare la ferita sunnita-sciita che si è aperta dopo l’invasione americana dell’Iraq nel 2003.
È bastato questo a rilanciare il movimento militante Jamāʿa al-Islāmiyya, una costola dei Fratelli Musulmani con una esigua presenza in Libano, che ora combatte con il suo gruppo armato “Forze dell’Alba” nel sud del paese. Certo, lo sforzo bellico di questa organizzazione non è determinante, ma non passa inosservato. Ai funerali di uno dei leader del movimento, Ayman Ghotmeh, assassinato il 22 giugno 2024 dal fuoco israeliano nella Valle della Beqa, il defunto ha ricevuto il saluto del Gran Mufti della regione da un pulpito con microfono: “Non lanceremo fiori al nemico. O se ne va, o è questo quello che succederà”, ha detto con enfasi il Mufti, brandendo il fucile automatico che aveva in mano. Da allora l’immagine ha fatto il giro dei social ed è stata stampata sulle insegne che decorano i villaggi della Valle della Beqa.
Si diradano le ombre della guerra in Siria
Non è detto che la maggioranza dei sunniti libanesi aderisca all’idea di essere rappresentata da un gruppo religioso armato, al cui rappresentante la Costituzione garantisce la carica di Primo ministro. Le differenze tra questo e la comunità sciita sembrano però ridursi alla luce del genocidio in corso a Gaza. Va anche ricordato che la riconciliazione tra Arabia Saudita e Iran è avvenuta grazie alla questione palestinese. Inoltre, durante una visita a Beirut il 29 giugno 2024, il vice-segretario generale della Lega Araba, Hossam Zaki, ha dichiarato in un primo momento che l’organizzazione panaraba “non considera più Hezbollah come organizzazione terroristica”, salvo poi fare marcia indietro sostenendo che la sua dichiarazione era stata “estrapolata dal contesto”. Se le riserve sul partito sciita sono ancora all’ordine del giorno per la Lega Araba, sotto l’influenza saudita, questo malinteso lascia presagire però una futura distensione.
Lo stesso giorno della visita di Zaki a Beirut, è stata pubblicata la foto di un incontro di tre ore tra il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, e il suo omologo della Jamāʿa al-Islāmiyya, Mohamed Takouche, in cui è stata discussa “l’importanza della cooperazione tra le forze di resistenza nella guerra per sostenere la valorosa resistenza di Gaza e del suo popolo resiliente”, secondo quanto recita la dichiarazione ufficiale congiunta. Uno scenario impensabile se si pensa al ruolo avuto da Hezbollah nella repressione dell’insurrezione siriana a fianco del regime di Bashar al-Assad.
Un coinvolgimento che aveva offuscato l’immagine del Partito di Dio in una parte del mondo arabo, ma che oggi sembra un lontano ricordo, grazie alla riammissione della Siria nella Lega Araba nel 2023. Con la crisi economica, la presenza di rifugiati siriani2 ha generato anche dei sentimenti xenofobi che vanno ben oltre i consueti circoli nazionalisti, alimentando una guerra tra poveri. Infine, la situazione palestinese e la minaccia israeliana spingono alcuni al pragmatismo, come ammette Mohamed:
Ci sono già dei precedenti con Hezbollah, [...] d’altra parte, uno degli slogan durante le mobilitazioni del 2019 era: “Chi reprime i siriani non può liberare i palestinesi”. Anche se oggi è un’idea che trova minore riscontro. Prima, quando ci parlavano della liberazione della Palestina, sembrava irrealizzabile. Ora non più. Personalmente, ho ripensato a tutto questo dopo il 7 ottobre. Ci sono nuove questioni e la mia visione di Hezbollah è molto cambiata. […] Dal mio punto di vista è un partito che ha strumentalizzato la causa della resistenza solo a fini di politica interna. […] Ma ora sta dimostrando di essere un partito intelligente, capace di fare cose che nessuno è stato in grado di fare dopo il 1948, come costringere così tante persone [nel nord di Israele] a fuggire. Allo stesso tempo, sappiamo bene che gli israeliani hanno sempre ambito alla regione a sud del fiume Leonte.
Fino a che punto questo nuovo assetto potrebbe resistere in caso di guerra generalizzata nel paese? Quel che è certo è che Hezbollah non ha alcuna intenzione di arrivare a un simile scenario, anche se continua, in nome della resistenza, a subordinare qualsiasi sospensione delle operazioni nel sud a un cessate il fuoco a Gaza, come ribadito all’inizio di luglio agli emissari tedeschi venuti a negoziare un cessate il fuoco. Nel frattempo, il partito sciita continua a farsi carico di gran parte degli oltre 100mila profughi nel sud del Libano. Si può tuttavia ipotizzare che le ragioni dietro il mancato appello a manifestare a Beirut, se si esclude la manifestazione del 18 ottobre 2023, all’indomani dell’attentato all’ospedale arabo Al-Ahli di Gaza City con oltre 500 morti, siano state legate soprattutto al fatto di voler evitare le pressioni di una “piazza” che chiedeva un maggiore impegno nello scontro con Israele. Un abile gioco di equilibri che dura da 9 mesi e che il partito di Hassan Nasrallah intende portare avanti, pur sapendo di non avere il coltello dalla parte del manico, e che il governo israeliano potrebbe in qualsiasi momento scatenare una vera guerra con lo scopo di mettere fine alla minaccia rappresentata da Hezbollah.
1Primo ministro sunnita del Libano dall’ottobre 1992 al dicembre 1998 (periodo della ricostruzione postbellica) e dall’ottobre 2000 all’ottobre 2004. Rafiq Hariri fu ucciso, insieme ad altre 21 persone, il 14 febbraio 2005, mentre si opponeva alla presenza militare siriana sul territorio libanese.
2Ufficialmente, il numero è di 1,2 milioni secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), ma stime più realistiche attestano la cifra a 2 milioni, per 5 milioni di libanesi.