Giorni di miseria in Siria

Le nazioni spariscono lentamente. Oggi, ad esempio, la popolazione siriana, che riusciva a malapena a sopravvivere alle macerie di una lunga guerra, sta sprofondando nella povertà, nella crisi sanitaria e nelle difficoltà dell’inverno. In questo momento, la paura più grande è legata all’aumento vertiginoso dei prezzi e dalle lunghe code, diventate un destino comune, per acquistare il pane.

Coda davanti ad un panificio di Damasco
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È un inverno rigido per il popolo siriano. «Prima c’è stata la pioggia di bombe, adesso manca il pane, e per noi non s’intravede alcuna prospettiva per il futuro», si lamenta Abou Saïd, un commerciante di Damasco che osserva l’inesorabile degrado di tutto ciò che lo circonda. «L’iperinflazione, la paralisi economica, la povertà galoppante, le assurde sanzioni occidentali che toccano soprattutto la gente comune, a tutto ciò si aggiunge da mesi la pandemia da Covid 19 che sta colpendo duramente… cos’altro ci aspetta?», aggiunge in tono fatalista.

Un triste epilogo : le persone vicine al regime la sera banchettano nei ristoranti che sembrano aperti solo per loro, mentre, per la prima volta nella storia del paese, si vedono code davanti ai panifici e ai distributori di benzina. Molti siriani sono sconcertati da scene simili, purtroppo all’ordine del giorno nei paesi più poveri del mondo.

La prova ulteriore del fallimento per questo vecchio granaio è il dover chiedere la questua ai suoi pochi amici ed alleati. Tra questi c’è la Russia, suo principale fornitore di grano. Il capo della diplomazia russa Sergej Lavrov ha infatti annunciato alla vigilia del nuovo anno, che Mosca ha già «fornito centomila tonnellate di grano» alla Siria, ed ha aggiunto che questo sostegno «proseguirà sul piano umanitario». «Ma chi avrebbe davvero voglia d’investire in questo paese? E quale sarebbe il ritorno sull’investimento in questo paese devastato?», si chiede un industriale di Aleppo che intende mantenere l’anonimato.

Negli anni Novanta, quasi il 20% della popolazione lavorava nel campo dell’agricoltura e la Siria aveva raggiunto l’autosufficienza. Oggi l’economia di questo Stato, che fa parte di quella che un tempo era chiamata «Mezzaluna fertile», dipende in larga misura dai cambiamenti climatici, in particolare dalla siccità che è stata una delle cause scatenanti del conflitto del 2011.

Non c’è campo oggi in cui la Siria possa contare solo su di sé. Dopo la guerra, il paese è stato trasformato in un terreno di caccia esposto agli interessi russi ed iraniani, i suoi principali alleati, che hanno messo le mani su gran parte delle sue ricchezze (porti, miniere di fosfati, ecc.). Oltre all’essere diventato un poligono di tiro per Israele, che dà la caccia alle milizie filo-iraniane degli hezbollah libanesi. Senza dimenticare la Turchia, che occupa una parte del suo territorio nel nord popolato dai Curdi, e di cui si ignorano le mire.

«La peggior situazione dall’inizio della rivolta »

L’ONU ha come sempre espresso preoccupazione per le condizioni di consegna degli aiuti umanitari. Lo scorso dicembre, Mark Lowcock, sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, ha avvertito i membri del Consiglio di Sicurezza che «Il popolo siriano continua a soffrire; sofferenza aggravata dal periodo invernale». Mentre il paese è ben lontano dall’essere pacificato, nonostante i territori conquistati dal potere e la sconfitta «ufficiale» della organizzazione dello Stato islamico (OEI), «i conflitti violenti e il terrorismo sono ancora una realtà per i siriani», ha sottolineato a sua volta l’inviato speciale dell’organizzazione per la Siria, Geir Pedersen, secondo il quale «l’insicurezza alimentare e la malnutrizione sono destinate ad aumentare sensibilmente, così come il numero complessivo di chi avrà bisogno degli aiuti umanitari».

Nonostante gli appelli disperati e il sostegno messo in campo, il margine di manovra dell’ONU è limitato dalle sanzioni contri i regimi imposto da Washington, garante dell’ordine mondiale, dall’Unione europea e dallo stesso Consiglio di Sicurezza. «Facciamo fronte alla peggior situazione dall’inizio della rivolta», ha spiegato Jihad Yazigi, direttore del giornale economico online The Syria Report,, durante una conferenza organizzata a Parigi nel dicembre 2020 da Souria Houria (Siria Libertà), un’associazione che raggruppa gli oppositori del regime. «Dal 2019, assistiamo ad una forte crescita dell’inflazione. Tra il luglio del 2019 e il luglio del 2020, il costo del paniere dei beni e servizi è aumentato del 250%, mentre il governo ha rivisto l’approvvigionamento di generi di prima necessità, raddoppiando il prezzo del pane sovvenzionato», ha precisato Yazigi. Secondo uno studio del settimanale siriano Qasioun, Syria Report ha inoltre chiarito in un articolo del 10 novembre 2020 che la spesa media mensile di una famiglia residente a Damasco è aumentato del 74 % nel corso dei primi nove mesi del 2019, con un raddoppio dei prezzi dei prodotti alimentari.

Lo stesso vale per il prezzo dei prodotti petroliferi, la cui carenza obbliga il regime a dipendere quasi esclusivamente dall’Iran (il colmo per due paesi colpiti dalle sanzioni!), aumentato in modo drastico. Per far fronte alla situazione, il 19 ottobre 2020 il governo siriano ha annunciato l’aumento del 120 % del prezzo del gasolio venduto alle imprese private, misura che non verrà applicata però alle aziende pubbliche, in particolare, agli agricoltori e alle aziende di trasporto. A condizione di trovarne e di essere molto pazienti.

Mancanza di gas ed elettricità

L’11 gennaio 2021, The Syrian Observer,, rassegna stampa dei media filo e anti-regime, riporta che nella capitale, a Damasco, «la carenza di combustile continua a colpire, generando code d’automobilisti incolonnati per chilometri, davanti alle stazioni di servizio senza benzina». Nel numero uscito sabato 9 gennaio 2021, Sawt al-Asima (La voce della capitale, un sito d’opposizione) scrive che la principale raffineria di Banyas avrebbe smesso di funzionare — informazione che non può ancora essere confermata, secondo The Syrian Observer.

Prima del conflitto, la Siria era un piccolo produttore di petrolio e di gas. I numerosi giacimenti petroliferi si trovano oggi nelle zone che sfuggono in parte alle autorità di Damasco. Può però accadere che il governo acquisti del petrolio dalle Forze democratiche siriane (FDS), una coalizione arabo-curda a predominanza curda che ha autoproclamato la regione autonoma del Rojava.

Nelle regioni non controllate dal potere, ad esempio il nord frontaliero della Turchia o la parte sotto il controllo delle forze curde, «alcuni prodotti sono talvolta venduti in lire turche o in dollari», come hanno peraltro notato Yazigi ed altri osservatori in loco, pur riconoscendo le difficoltà nel raccogliere dati attendibili nelle regioni che continuano a sottrarsi al governo, circa il 30 % del territorio, e in cui si concentra la maggior parte delle ricchezze petrolifere ed agricole.

A peggiorare ancor più le cose sono stati gli incendi di matrice dolosa che hanno devastato, in estate e nell’autunno del 2020, decine di migliaia di ettari di campi di grano e d’orzo, nonché d’uliveti in molte zone del paese, con grande disperazione da parte degli agricoltori che si aspettavano un raccolto che si annunciava «eccezionale». Lo stesso fenomeno si era già verificato nel 2019, in particolare nella zona del nord-est. Il regime e l’opposizione si rinfacciano la responsabilità del divampare di quei roghi.

«Abbiamo tre ore d’elettricità al giorno. Il pane è diventato immangiabile (spesso si utilizza il grano duro), e dobbiamo passare ore ammassati gli uni agli altri davanti ai panifici per essere serviti, racconta al telefono Fadi Tarakji, che abita ad Aleppo. Aumenta tutto nonostante le carte annonarie che qui chiamano SIM, introdotte dal governo, e che dipendono anch’esse dall’oscillare dei prezzi». Eppure nel 2016, la seconda città del paese aveva festeggiato al momento della sua «liberazione» per mano dei jihādisti delle truppe di governo, appoggiate dall’aviazione russa, dopo che i terribili combattimenti avevano lasciato tracce.

« La gente rimpiange gli anni della guerra »

«Stavamo meglio quando le granate ci piovevano addosso» dice un piccolo commerciante. «Oggi la gente rimpiange gli anni della guerra perché viveva meglio, malgrado i vari pericoli», concorda anche Nabil Antaki, un medico di Aleppo e responsabile dell’associazione Maristi Blu che aiuta da molti anni i più bisognosi, e che in particolare si occupa di cibo ed istruzione. Il medico esprime rammarico sul fatto che «non si faccia di più sul piano politico e militare», e ci mostra, in una mail del dicembre 2020, che «l’emigrazione continua» e che «i cristiani continuano a partire o sperano di poterlo fare».

«Quando prendiamo l’autobus sulla strada che porta da Aleppo a Damasco, tornata praticabile solo a marzo 2020 dopo un’interruzione di sette anni, si arriva all’altezza di Saraqeb e di Maaret al-Numan [due località vicine ad Aleppo] in corrispondenza di tre avamposti militari turchi che sventolano la loro bandiera, ed è questo che ci fa indignare», precisa Antaki. Queste postazioni d’osservazione erano state installate dopo un cessate il fuoco tra l’esercito siriano e quello turco per mettere fine ai conflitti nella provincia di Idlib, dove sono tutt’ora ammassati i rifugiati in condizioni spaventose, e dove la pandemia di Covid imperversa duramente.

In base al calcolo effettuato ad inizio d’anno da un sito medico che fornisce nomi ed informazioni su ogni vittima«171 medici sono deceduti in seguito al virus, perché mancano misure preventive adeguate». La pandemia si è «aggravata tra agosto e settembre, con centinaia di miglia di casi e centinaia di persone ospedalizzate», ha precisato il dottor Antaki. Questa situazione sanitaria rende ancor più difficile la ripresa di qualunque attività economica, oppure di un possibile tentativo di ricostruzione da tempo ostacolato dalle sanzioni. L’epidemia sta per diventare «più pericolosa» e «non tocca più solo gli adulti, ma anche i bambini», secondo fonti vicine al governo e citate da Syria Report.

I dollari spariti in Libano

Oltre l’impatto delle sanzioni internazionali, la mancanza di valuta assume un peso rilevante sull’impoverimento del paese. Le misure adottate nel dicembre del 2020, al fine di proteggere il valore della moneta, dal governo contro le operazioni in valuta straniera nelle transazioni correnti e quelle commerciali non hanno sortito alcun effetto.

Spesso la fine di un conflitto armato porta con sé i germi d’una ripresa economica, grazie agli sforzi della ricostruzione e dell’afflusso di capitali. In Siria non è accaduto nulla di tutto ciò. Con le casse dello Stato quasi vuote e con l’assenza in pratica di aiuti dall’estero, il corso della moneta è sprofondato, e nessuno può sapere se e quando andrà a rotoli, tanto è nero il futuro. Inoltre, i lavoratori siriani all’estero non riescono più a trasferire denaro alle loro famiglie.

È il caso del Libano, un paese colpito da gravi ripercussioni da più di un anno per la crisi finanziaria, dove la forte svalutazione della moneta libanese ha influito direttamente sul valore della lira siriana (LS) che ha toccato attualmente un picco di 3 000 lire libanesi (LBP) per un dollaro contro 49 di prima della guerra. La caduta libera è molto più evidente ora che durante gli anni della guerra.

Un anno fa sono stati bloccati miliardi di dollari detenuti da commercianti e privati nelle banche libanesi, in seguito al crollo del sistema bancario del paese confinante, privando così i siriani di parte dell’ossigeno che gli serviva.

Il 5 novembre 2020, Bashar al-Assad ha dichiarato che «sarebbero spariti tra i 20 e i 42 miliardi di dollari [16 e 35 miliardi di euro] di depositi siriani in seguito alla crisi del settore bancario libanese […] E noi siamo obbligati a pagarne le conseguenze», scaricando la responsabilità del disastro finanziario del suo paese sul Libano e non — per una volta — sulle sanzioni internazionali.

Se è difficile quantificare l’ammontare esatto, proprio a causa del segreto bancario in vigore in Libano, Assad sembra dimenticare — o finge di dimenticare — che questo paese confinante ha giocato a lungo il ruolo di valvola di sfogo. Per anni, cacicchi del regime, uomini d’affari siriani o semplicemente chi voleva depositare soldi ha approfittato del sistema bancario ultraliberale del paese del cedro e dei tassi d’interesse elevati. Crocevia dell’intera regione, Beirut è servita a lungo per ogni sorta di transazione, in particolare per quelle commerciali della Siria.

Guerra, sfollamenti di massa, esilio, crisi economica, sanzioni e Covid hanno stravolto il tessuto sociale del paese. Il sistema educativo è caduto nella disorganizzazione, con studenti in zone non controllate da Damasco che non riescono a spostarsi da una regione all’altra per sostenere gli esami. Nelle regioni dove sono stipati centinaia di migliaia di rifugiati, ci sono 500 000 bambini non scolarizzati, e le ONG, a detta di alcuni esperti, sono costrette talvolta ad andare porta a porta per fare lezione nei campi profughi

Dalla fine della guerra, «vediamo un sostanziale disinteresse per la Siria, con l’esclusione della Russia, dell’Iran e della Turchia, sottolinea il politologo Basma Kodmani. Tutto avviene al di fuori della Siria dove né il regime né l’opposizione hanno voce in capitolo, mentre l’Unione europea concorda solo sugli aiuti umanitari» per questo paese alla deriva.