Analisi

Guerra in Sudan. L’ombra degli islamisti

Mentre proseguono i combattimenti, soprattutto a Khartoum e nel Darfur, i due rivali, Abdel Fattah al-Burhan e il generale Dagalo detto Hemeti, sembrano determinati a continuare a lottare fino all’ultimo sudanese. Ma dietro gli scontri, spunta lo zampino dell’ex presidente Omar al-Bashir e dei suoi seguaci islamisti.

Nel sud di Khartoum, 19 maggio 2023.
AFP

La “banda Kober” ha tagliato la corda. Il 23 aprile 2023, un gruppo di sconosciuti ha fatto irruzione nel Kober, storico carcere di massima sicurezza di Khartoum, aprendo le porte delle celle e permettendo così ai detenuti di dileguarsi per le strade della capitale sudanese. Non sarebbe altro che l’ennesima storia da raccontare nel fragore della guerra, se questa “banda Kober” non fosse però composta da detenuti non proprio comuni. Tre di loro sono dei pericolosi criminali ricercati dalla Corte penale internazionale (CPI). Poi, ci sono alcuni ex esponenti di spicco del regime dell’ex presidente Omar al-Bashir. A quanto pare, l’autocrate, deposto dai militari nel 2019, non era nel penitenziario al momento della “liberazione”, perché trasferito poco prima in un ospedale militare di Omdurman, città gemella di Khartoum. Se il grande capo non c’era, quelli che si sono dati alla fuga non sono per questo dei pesci piccoli.

Criminali ricercati dal Tribunale internazionale dell’Aia

Sull’ex ministro della Difesa, Abdel Rahim Mohammed Hussein, pendono sette capi di imputazione per crimini contro l’umanità e sei per crimini di guerra commessi in Darfur durante i primi anni della guerra, nel biennio 2003-2004. Anche Ahmad Muhammad Harun, ex ministro degli Affari umanitari, è accusato degli stessi crimini, e, nel Kordofan meridionale, dove era governatore, è ancora ricordato per terribili fatti di sangue. Poi ci sono Ali Osman Taha e Bakri Hassan Saleh, ex vicepresidenti e presunti successori di Omar al-Bashir, il tristemente noto Nafi Ali Nafi, ex capo dei servizi segreti (National Intelligence and Security Services, NISS), Awad al-Jaz, ex ministro del petrolio all’epoca di Omar al-Bashir e al-Fatih Izz Al-Din, allora presidente del Parlamento, che erano tra i membri di maggior spicco del Partito del Congresso Nazionale (PCN), colonna portante del regime.

Inutile dire che, tra attacchi aerei, saccheggi e colpi di artiglieria, sono riaffiorati i fantasmi degli islamisti che, influenzati dall’ideologo Hassan al-Turabi, avevano l’obiettivo di uniformare la società al loro ideale di fondamentalismo islamico. Sono gli stessi che la rivoluzione del 2018 ha mandato via e per questo, da allora, i sudanesi vedono la loro mano dietro quasi tutte le loro sciagure.

Chi ha liberato la “banda Kober”? Il ministro degli Interni ad interim, poiché in Sudan non c’è più un governo dopo il golpe militare dell’ottobre 2021, ha lanciato accuse nei confronti dei paramilitari delle Forze di Supporto Rapido (RSF) guidati dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemeti. Ma i paramilitari negano e accusano gli islamisti di aver manipolato il comando dell’esercito, e li considerano i loro veri avversari nella guerra in corso. Suliman Baldo, analista politico e direttore del think thank Sudan Transparency and Policy Tracker (STPT), fa notare che ci sono state altre scarcerazioni dall’inizio degli scontri a Khartoum, il 15 aprile, tra i due generali.

Ogni volta, in mezzo a detenuti comuni c’erano anche figure del regime di Omar al-Bashir, specialmente ex membri dei servizi segreti sudanesi. Per Baldo, si tratta di un piano ben architettato:

“Un gruppo armato è entrato all’interno del carcere di Omdurman, liberando alcuni membri dei servizi segreti che erano condannati a morte. Quando li hanno liberati, hanno spinto anche gli altri detenuti ad evadere, l’ho sentito da uno di quei prigionieri. Si è trattato chiaramente di uno stratagemma per coprire la scarcerazione di un ristretto gruppo di 35 ex membri del NISS. È quindi molto plausibile che siano stati i loro ex colleghi a mobilitarsi dopo lo scoppio del conflitto. Abdel Fattah al-Burhan ha rimesso insieme le forze speciali del NISS che erano state sciolte”.

Nella guerra che lo contrappone alle Forze di Supporto Rapido (RSF) di Hemeti, lo Stato maggiore dell’Esercito nazionale ha rimesso in piedi tutte le forze parallele, i servizi di intelligence, le milizie supplementari, legate all’ex regime militare-islamista: oltre ai servizi segreti del NISS, anche le Forze di Difesa Popolare (PDF), una milizia islamista creata dopo il golpe di Omar al-Bashir del 1989, che risponde solo ai suoi ordini e a quelli del suo partito, e le “Brigate Ombra”, prima legate al Fronte islamico nazionale (FNI) di Hassan al-Turabi, alfiere dell’islamizzazione della società sudanese prima di cadere in disgrazia negli anni 2000, poi al Partito del Congresso nazionale (PCN). Un video1 postato sui social il 15 aprile, giorno dell’inizio della guerra, mostra uomini armati che si dichiarano islamisti e si dicono pronti a combattere.

L’impossibilità di riformare il settore della sicurezza

A Khartoum si è capito da tempo che l’Esercito nazionale è ancora largamente in mano agli islamisti, almeno sul piano degli ufficiali. “In 30 anni, hanno avuto tutto il tempo per far sì che nella scuola militare non fosse reclutato alcun membro non appartenente al movimento. È così che hanno trasformato l’esercito in una brigata islamista”, spiega ancora Suliman Baldo. I due colpi di Stato falliti, a luglio 2019 e a settembre 2021, hanno visto il coinvolgimento degli ufficiali dell’esercito.

“Era da un po’ di tempo che cresceva la tensione, alimentata dall’ostilità istituzionale e personale, tra Esercito nazionale e RSF”, dice Amjad Farid, ex capo di Stato maggiore di Abdalla Hamdok (ex premier sudanese) e attivista di lungo corso a favore della democrazia. “La disputa su come integrare le RSF nell’esercito nazionale, sui ruoli di comando e sui tempi di quest’integrazione hanno avuto un impatto determinante. Ma anche gli islamisti hanno avuto un ruolo essenziale nel far salire la tensione”. La riforma del settore della sicurezza e delle istituzioni militari è stata una delle questioni chiave del processo politico avviato nel dicembre 2022, e che si doveva concludere con un ritorno al potere dei civili. I due generali, ex alleati, ora rivali, erano in disaccordo sulle modalità: per Omar al-Burhan che voleva fare in fretta bastavano 2 anni, Hemeti ne pretendeva 10, oltre ad avere la prerogativa del comando delle sue truppe una volta integrate nell’esercito. “Naturalmente, le RSF hanno dato inizio allo scontro, schierando le loro truppe intorno all’aeroporto di Meroe e a Khartoum”, continua Amjad Farid. “Ma ho forti dubbi che siano stati i soldati dell’Esercito nazionale i primi ad aprire il fuoco a Khartoum la mattina del 15 aprile”.

All’origine dell’escalation del 15 aprile

La conferma arriva da varie fonti: al culmine della tensione, il 13 e 14 aprile, gli intermediari internazionali, dopo vari botta e risposta tra i due generali, hanno ottenuto una tregua. Era perfino previsto un incontro per il 15 aprile alle ore 10 tra i due rivali. Ma non è mai avvenuto perché, poco prima, c’è stato un attacco a due aree occupate dalle RSF a Khartoum, a cui i paramilitari hanno risposto. È stato l’inizio della guerra. “Perché solo due aree quando RSF ne ha undici nella capitale?” chiede uno di loro. “Perché gli islamisti volevano solo innescare la scintilla”. La fonte citata ha saputo solo poche ore prima che la guerra stava per iniziare, avvertita da uno dei suoi contatti con gli islamisti radicali.

“Le azioni dell’Esercito nazionale non possono essere separate dall’orientamento politico dato dal Movimento islamico sudanese”, scrive il quotidiano investigativo sudanese Ayin, in un articolo pubblicato poco prima dello scoppio della guerra. “Gira voce che il movimento islamico eserciti una forte influenza politica ed economica sulle istituzioni militari e quelle legate alle Forze armate sudanesi (SAF) a causa della reciproca lealtà e delle stesse reti di finanziamento”.

I seguaci di Omar Al-Bashir, che i sudanesi chiamano kaizan2, sarebbero quindi di nuovo in campo. In realtà, non sono mai davvero scomparsi, anche se le istituzioni legate all’ex regime erano state in parte smantellate dopo la rivoluzione. “Sono sempre stati attivi e hanno sempre cercato di sabotare la transizione democratica. Fin dall’inizio. Sono loro che hanno cercato di intralciare l’economia, facendo circolare delle fake news durante i due governi Hamdok”, ricorda Amjad Farid, ex capo di gabinetto, che ha vissuto le cose dall’interno. “Ci sono sempre loro dietro l’attentato al premier nel marzo del 2020”. Qui però bisogna aggiungere una precisazione a una situazione già di per sé non semplicissima: tra gli islamisti in Sudan ci sono due fazioni: da una parte, i fedeli alla linea dei Fratelli Musulmani di Hassan al-Turabi (scomparso nel 2016), l’ideologo che voleva cambiare nel profondo la società, e, dall’altra, i fedeli al partito di Omar Al-Bashir, il PNC, che uniscono l’affarismo all’ideologia islamista...

Un ritorno al vecchio regime

Il colpo di Stato dell’ottobre 2021 porta il segno delle due fazioni. Il golpe ha finito per suggellare l’alleanza tra il generale Abdel Fattah al-Burhan, ex capo del Consiglio di sovranità, e Ali Karti, un veterano del Fronte nazionale islamico di Hassan al-Turabi, allora esponente di spicco del PCN. Il partito dell’ex presidente è stato sciolto nel 2019 al momento della transizione democratica e i suoi beni sono stati confiscati. Quando non sottoposti ad arresto, i suoi dirigenti, su ordine del partito, hanno lasciato il Sudan e molti di loro hanno scelto la via dell’esilio in Turchia. “Le strutture del partito non sono però scomparse”, spiega Clément Deshayes, antropologo e ricercatore presso l’Istituto di ricerca strategica della Scuola militare (IRSEM). Tra i gruppi in esilio in Turchia, ha avuto la meglio quello guidato da Ali Ahmed Karti. Già coordinatore delle Forze di Difesa del Popolo negli anni 1990, Karti è stato ministro della Giustizia e ministro degli Esteri. All’indomani del golpe dell’ottobre 2021, il partito ha dato l’ordine di tornare nel paese. Cosa che hanno fatto”. Ali Karti ha dunque fatto ritorno in Sudan, riuscendo a farla franca, visto che, dal 2019, era sotto mandato di cattura.

Subito dopo la fine della transizione democratica, il generale Abdel Fattah al-Burhan, che guida de facto il paese, è tornato sulle epurazioni attuate all’interno dell’amministrazione dopo la rivoluzione. Giorno dopo giorno, i sudanesi hanno scoperto che il tal dei tali, nominato dal governo civile del primo ministro Abdalla Hamdok, era stato sostituito dal suo predecessore islamista. “La giunta aveva bisogno dei dirigenti del PCN per governare il paese dopo il colpo di Stato”, continua Clément Deshayes.

I militari hanno ridato potere, soprattutto, all’ala civile degli islamisti, quella incarnata da Ali Karti, consentendo loro di aprire qualsiasi associazione e organizzazione parastatale, come quella della Daawa islamica, che riceveva parte della zakat3. Sono loro che hanno mantenuto la base sociale del regime di Omar al-Bashir distribuendo posti di lavoro e raccogliendo soldi da dare in beneficienza.

E così, senza troppo clamore, hanno recuperato terreno nel paese.

“Poco prima dello scoppio di questa guerra, hanno fomentato tensioni sui social e in strada”, lamenta Amjad Farid. Nelle settimane precedenti il 15 aprile, si vedevano degli islamisti fare appello a “un’azione armata”. Secondo alcune fonti, non perdonano ad Abdel Fattah al-Burhan di aver accettato i colloqui di pace a Jeddah organizzati da Arabia Saudita e Stati Uniti per consentire l’assistenza umanitaria, anche se l’accordo raggiunto tra le parti, in realtà, non è mai stato rispettato. Anche la liberazione della “banda Kober” potrebbe riaccendere le tensioni già esistenti all’interno del movimento islamista. Questa potrebbe essere una delle poche buone notizie per il popolo sudanese. In ogni caso, a nessuno piace l’idea di un ritorno al potere dei militari e degli islamisti, una volta imposto cessate il fuoco e dopo i disastri di questa ennesima guerra.

2Plurale di koz, che si riferisce alla tazza di latta usata per bere acqua. Hassan al-Turabi, ideologo dei Fratelli Musulmani sotto il regime di Omar al-Bashir prima di essere rinchiuso in prigione nel 2004, spiegava: “la religione è un mare, e noi siamo i suoi kaizan”.

3L’elemosina legale, uno dei cinque pilastri dell’Islam.