Il Libano, una nave alla deriva

Crollare, collassare, precipitare, suicidarsi, distruggersi, oppure svanire nel nulla. Da ormai due anni non sappiamo più quale verbo attribuire al lungo naufragio del Libano.

Il Libano sprofonda in una crisi di cui sono in gran parte responsabili i suoi dirigenti, occupati in un braccio di ferro della più bassa politica, incuranti del miserabile spettacolo che offrono al mondo e indifferenti al malessere degli abitanti, poveri o benestanti che siano. E nel frattempo, come in qualsiasi altro paese, gli happy few fanno festa giorno e notte nelle località sciistiche più esclusive della montagna libanese, grazie al reddito percepito all’estero.

Nel mezzo di una crisi socio-economica (rivolte di strada, bancarotta finanziaria), i libanesi sono stati abbandonati a loro stessi, senza elettricità, benzina, combustibile. Il prezzo del pane è alle stelle, le medicine scarseggiano e gli ospedali soffrono di penuria.

“Nessuno governa più il Libano”: così ha dichiarato il 14 agosto 2021 il governatore della Banca Centrale (Banca del Libano, BDL) Riad Salameh in un’intervista a una radio locale. Lunedì 23 agosto, il prezzo di una tanica di benzina di 20 litri è passato da 77.500 lire libanesi (LBP) a 129.000 LBP, l’equivalente di 6,5 dollari (5,48 euro), la moneta di riferimento in un paese dove si importa tutto e dove la valuta nazionale ha perso più del 90% del suo valore, attualmente a 20.000 LBP per un dollaro (0,84 euro), mentre, prima della crisi, stava a 1.500 LBP.

Il prezzo del carburante è praticamente triplicato nel giro di due mesi, da quando, nel giugno 2021, la BDL ha cominciato a razionare le sovvenzioni previste per le importazioni. L’aumento avrà delle ripercussioni su tutta l’economia e provocherà un nuovo incremento dei prezzi nel paese, dove l’inflazione galoppa e quasi il 78 % della popolazione, secondo i dati dell’ONU, vive ormai sotto la soglia della povertà. Nel frattempo, gli altri prodotti di prima necessità (gasolio, pane…) hanno seguito la spirale inflazionistica.

Il paese non vive realmente al lume di candela, ma le case ricevono soltanto due ore di elettricità al giorno e il resto viene compensato da generatori in mano a società private. Questo, però, a condizione di poter pagare il gasolio che li fa funzionare, cosa che esclude ampie fasce della popolazione. “Vivo con l’elettricità dello Stato”, racconta Jean Antonios, un falegname che abita con la famiglia in una casa di due stanze a Beirut, perché il carburante è sempre più raro, e quindi caro. Tuttavia, la situazione varia sensibilmente a seconda delle regioni del paese e il portafoglio delle persone. Liliane, una pensionata relativamente benestante, che vive da sola in un piccolo paesino di montagna, si fa bastare quelle sette ore di elettricità che le procurano lo Stato e il suo generatore.

Rissa mortale per un bidone di benzina

Lo stesso vale per la benzina, il cui prezzo continua a salire provocando delle incredibili code alle stazioni di servizio. In Akkar, una regione molto povera confinante con la Siria, una rissa per una cisterna di benzina ha provocato un incendio che ha fatto 29 morti, domenica 15 agosto 2021. Alcune famiglie delle vittime hanno reagito dando fuoco alla casa del proprietario del camion, accusato, tra l’altro, contrabbandare benzina in Siria, aggravando così le penurie di cui soffre la popolazione.

Poche ore dopo, nella periferia di Beirut, l’arrivo della benzina in una stazione dove orde di automobilisti stavano aspettando il loro turno è stato accolto con un giubilo degno di un grande matrimonio. Un video mostra una folla gioiosa danzare la dabke tradizionale in autostrada.

Il paese vive così, tra la gioia effimera degli uni e la sofferenza degli altri. Accumulando una crisi dopo l’altra, il Libano naviga a vista, senza un esecutivo dal 4 agosto 2020, il giorno in cui un vasto deposito contenente 2.700 tonnellate di nitrato di ammonio è esploso devastando una parte della capitale e causando più di 200 morti. L’inchiesta ufficiale non procede. Le istituzioni non funzionano più. Da allora, tre personalità del Gran Serraglio sono state incaricate di formare un governo neutrale di tecnici (in opposizione ai politici necessariamente corrotti) e avviare delle riforme socio-economiche vitali, come se questa espressione avesse un senso in un paese come il Libano. Ma finora tutto è stato vano.

Per questa ragione, l’emorragia della popolazione verso mete più serene continua. “Degli amici che non avevano mai lasciato il Libano, nonostante le diverse crisi già attraversate, sono partiti recentemente, portando via anche il nonno di 90 anni”, racconta Nayla Arida, che dice di sentire vicine queste persone e la loro sofferenza.

«Un asino ibrido»

Per un paese come il Libano sotto una forte influenza straniera, né le due visite di un anno fa del presidente francese Emmanuel Macron, né le sollecitudini di numerosi paesi e nemmeno le grida di allarme della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale (FMI), che si è detto pronto a studiare i conti dello Stato e a sostenere un programma di riforme, nulla è riuscito a smuovere “l’asino libanese”, come la gente ormai chiama la nomenklatura di cui subisce gli abusi.

È una creatura ibrida che sembra uscita da un libro di mitologia, ma è diventata nel corso del tempo ben reale. I vertici dello Stato – il presidente della Repubblica (cristiano), il presidente del parlamento (sciita) e il primo ministro (sunnita) – insieme al governatore della BDL sono impegnati in sfrenate prove di forza, per inseguire interessi divergenti, e il più delle volte col falso pretesto di proteggere una comunità religiosa o l’altra, formando così, nell’insieme, un mosaico anacronistico.

Il migliore dei modi per mettere il bastone fra le ruote al proprio avversario è diventata la nuova regola del gioco politico, che si svolge quotidianamente sotto i riflettori dei media e dei social.

Così, il presidente Michel Aoun è ampiamente sospettato di voler piazzare il suo genero Gebran Bassil al vertice dello Stato alle prossime elezioni; il ricchissimo ed eterno capo del parlamento Nabih Berri cerca di prolungare indefinitamente il suo mandato e di vincere il braccio di ferro contro il suo avversario più odiato, il generale Michel Aoun, badando sempre a vegliare sulla sua colossale fortuna e a rassicurare la sua comunità religiosa e clientela politica; quanto al capo del governo Najib Mikati, egli intrattiene le migliori relazioni con quelle ricche monarchie petrolifere che per molto tempo hanno garantito la prosperità del Paese dei Cedri, ma anche con Iran e Siria. Senza dimenticare il partito sciita di Hezbollah, uno Stato nello Stato, con il suo armamento, il suo budget, i suoi sostenitori e... la sua obbedienza a Teheran.

Accusato dai manifestanti di aver saccheggiato le riserve in valuta estera del paese e di aver precipitato così la crisi finanziaria, il padrone della BDL Riad Salameh non cerca di nascondere la sua grande fortuna (oggetto di azioni giudiziarie in paesi come la Svizzera). Scarica però la responsabilità del fallimento del sistema bancario e della BDL sulle richieste sconsiderate degli apparati dello Stato volte a coprire deficit e sprechi fatti unicamente nell’interesse dei loro protettori altolocati.

Tra Teheran e Washington

Come può non crollare una piramide del genere? Abbiamo mai visto tali assurdità e mancanza di responsabilità? Senza dubbio no, tranne in alcuni paesi corrotti che bene o male sopravvivono ancora. E il Libano è condannato a unirsi a questi paesi appestati? “Il Libano è finito”, deplora Antoine Andraos, uomo d’affari ed ex-deputato. Tuttavia, geograficamente al centro di una regione in continua ebollizione e vetrina – sporca o pulita che sia – dell’est del Mediterraneo, questo paese continua a godere della sollecitudine evidentemente interessata di alcune potenze, come ai tempi della guerra fredda.

E non di potenze qualsiasi. Iran e Stati Uniti hanno annunciato, praticamente all’unisono a metà agosto, di essere pronti ad aiutare i libanesi fornendo loro elettricità e benzina. Per il momento, la gente sembra scettica, e pure preoccupata. Cosa c’è dietro questa improvvisa generosità? Atto primo: giovedì 19 agosto, il capo di Hezbollah annuncia, in occasione del suo discorso alla festa religiosa dell’Ashura, l’arrivo “imminente” di un cargo iraniano carico di carburante – secondo il sito specializzato TankerTrackers, sarebbe salpato il 26 agosto – precisando che la merce era destinata a “ospedali, fabbriche di produzione di alimenti e medicinali, panifici e generatori”. Tre giorni dopo, Hassan Nasrallah rincara la dose affermando che un secondo cargo carico di carburante e proveniente dall’Iran dovrebbe salpare “nei prossimi giorni”.

Hezbollah ha inoltre proposto allo Stato libanese di incaricare delle società di trivellazione iraniane per lo sfruttamento di giacimenti di idrocarburi offshore, un dossier oggetto di controversie con Israele, in un momento in cui le negoziazioni tra i due paesi per delimitare le loro frontiere marittime si trovano da mesi in un’impasse, e proprio al largo delle coste libanesi sono stati trovati dei giacimenti.

Atto secondo. Appena qualche ora dopo il primo annuncio di Hezbollah, in un’intervista rilasciata al sito del canale saudita Al-Arabiya, l’ambasciatrice degli Stati Uniti a Beirut Dorothy Shea ha affermato che il suo paese stava discutendo “con i governi egiziano, giordano (…) e con la Banca mondiale per arrivare a delle soluzioni reali e a lungo termine” al problema energetico del Libano. Riconoscendo, tuttavia, l’esistenza di alcuni “ostacoli”.

Secondo gli esperti, un’offerta simile significa che il gas dovrebbe attraversare la Siria, dove si trova il gasdotto che collega il Libano a Egitto e Giordania, l’Arab Gas Pipeline, lungo 1200 km e in parte vetusto. A rendere il tutto ancora più complicato, c’è il fatto che la Siria è attualmente soggetta alle sanzioni di Washington, cosa che impedisce la messa in pratica di un accordo multilaterale per fornire elettricità al Libano.

Hezbollah vuole che il Libano si rivolga all’Iran (e più in generale all’Asia) per sviluppare i suoi rapporti commerciali, storicamente orientati verso i paesi occidentali. Ma cosa possiamo aspettarci da dei dirigenti divisi praticamente su tutto? L’ex-primo ministro Saad Hariri ha condannato le parole del capo del movimento sciita, ritenendole un attacco alla “sovranità” del Libano. Che triste e macabro humor.

E cosa fanno i cattivi Americani? Qualche anno fa hanno avviato un immenso cantiere che dovrebbe ospitare la nuova ambasciata, su un terreno i 174.000 m², in una montagna a nord di Beirut, affacciata sul mare. Il complesso diplomatico dall’aspetto futuristico dovrebbe essere terminato nel 2023; i lavori proseguono. Questa ambasciata, secondo i suoi progettisti, è destinata a diventare la più grande della regione, dopo quella di Bagdad.

Questo esempio permette di fare congetture sulle intenzioni degli americani in Libano e nella regione, nonostante le recenti scottanti sconfitte. In balia degli uni e degli altri (la Siria non è lontana, e Israele sta sempre in guardia), abbandonato dai suoi attuali dirigenti, il Libano resterà forse maledetto per sempre?