Il Medio Oriente, un campo minato per ricercatori e ricercatrici

Da giugno 2019 l’antropologa franco-iraniana Fariba Adelkhah sconta una pena di 5 anni nelle carceri iraniane. L’accusa di “minare la sicurezza dello Stato” è solo un pretesto per esercitare pressione sulla diplomazia francese. Il suo caso, così come quello di altre ricercatrici e ricercatori, è emblematico delle crescenti difficoltà in cui si imbatte chi desidera fare ricerca sul campo in Medio Oriente.

Parigi, 13 gennaio 2022. Manifestazione di colleghi di Fariba Adelkhah davanti alla sede di Sciences Po in seguito alla decisione del governo iraniano di rimetterla in prigione dopo un periodo agli arresti domiciliari.
Thomas Coex/AFP

Le pratiche di ricerca nel campo delle scienze sociali sono indubbiamente cambiate da una ventina d’anni a questa parte. Dappertutto, l’accesso alle risorse online e ai sistemi di comunicazione gratuiti offre informazioni pressoché illimitate. Basti pensare che, alla fine del secolo scorso, telefonare in Yemen dall’Europa costava l’equivalente di quasi due euro al minuto! Una lettera impiegava varie settimane per arrivare a destinazione, ammesso che ci arrivasse. Oggi, ricercatori/trici, esperti/e e giornalisti/e possono scaricare libri digitalizzati, quotidiani, archivi pubblici e personali, seguire discussioni sui social, il tutto restando nel proprio paese: tante frontiere sono così abbattute, per non parlare delle barriere simboliche, economiche e temporali. I chili di libri e documenti che un tempo appesantivano le valigie dei viaggi di ritorno, costringendo spesso a pagare sovraccosti in aeroporto, sono in parte un lontano ricordo.

Riflettere sul proprio modo di porsi

Certo, la contestualizzazione necessaria alla comprensione esige sempre un lavoro sul campo, e in particolare lo sviluppo di rapporti di fiducia con colleghi sul posto e con coloro che, senza mezzi termini, vengono a volte chiamati “informatori”. Spesso, sono proprio questi rapporti umani, di amicizia più o meno stretta, a rendere appassionante la ricerca nel campo delle scienze umane e sociali, così fortemente basata sulla cosiddetta “osservazione partecipante” e l’etnografia. L’indagine a lungo termine condotta stando all’interno della società su cui si lavora è fondamentale. Inoltre, questa indagine fa riflettere sul proprio modo di porsi in quanto straniero o straniera in una società in cui tante dinamiche e sfumature (a cominciare dai vari registri linguistici) ci sfuggono ineluttabilmente.

La sensibilità a simili questioni metodologiche si è notevolmente e legittimamente accentuata negli ultimi anni, spianando la strada a dibattiti talvolta accesi e a qualche risentimento (come nel contesto della guerra in Siria). Il lato positivo di questa riflessività spinge verso nuove strategie di scrittura che implicano la valorizzazione dei saperi “locali”, per esempio attraverso una scrittura paritaria a quattro mani.

In Medio Oriente, gli esempi di violenza fisica esercitata su ricercatori e ricercatrici non sono una novità. Il caso del sociologo francese Michel Seurat, morto in Libano nel 1986 mentre era ostaggio dei movimenti armati sciiti, illustra la fragilità dei ricercatori stranieri sui “loro” campi di ricerca, soprattutto se in guerra. Eppure, solo raramente i/le ricercatori/trici stranieri/e sono stati/e vittime di gruppi non statali in Medio Oriente, sicuramente meno rispetto ai giornalisti, forse proprio grazie alla loro conoscenza approfondita dei luoghi frequentati, ai solidi legami che stabiliscono con la gente del posto e al fatto che non debbano necessariamente andare sui fronti di guerra.

Sarebbe tuttavia sbagliato credere che la capacità di fare ricerca non risenta di altri meccanismi a volte meno visibili, né subisca pressioni. Diversi eventi scientifici, organizzati negli ultimi mesi da NoriaA Research1, l’Unione europea2 e l’Università di Montréal3, hanno provato a riflettere sulle pratiche di ricerca in un simile contesto, facendo emergere una reale preoccupazione presente in seno alla comunità scientifica. In maniera unanime, quindi, tutti ritengono che la situazione si stia aggravando e che svolgere il proprio lavoro in Medio Oriente sia più difficile oggi rispetto a qualche anno fa. La lista di ricercatori e ricercatrici impossibilitati/e a tornare nel paese su cui hanno “costruito” la propria carriera è impressionante: una situazione spesso taciuta persino ai colleghi poiché non priva di un sentimento di vergogna. A questo va ad aggiungersi l’esilio forzato di numerosi/e colleghi/e yemeniti/e, iraniani/e, sauditi/e o egiziani/e che in quelle società ci sono nati/e. Il che rappresenta una fonte di sofferenza sia sul piano professionale che su quello personale.

L’impossibilità di accedere fisicamente al campo (rafforzata dalla crisi sanitaria degli ultimi due anni) è un reale pericolo, che minaccia di trasformare certe zone in veri e propri buchi neri, inaccessibili all’analisi. Ad aggravare questo rischio è il fatto che il più delle volte i/le ricercatori/trici nati/e in quelle società – che restano, come illustra anche il caso turco, le principali vittime delle “proprie” autorità ‒ non avrebbero facilmente accesso alle pubblicazioni internazionali per diffondere le proprie conoscenze. Si pensi alla Siria e all’Iran, dove le dinamiche politiche e sociali sono diventate per noi in gran parte inintelligibili, provocando un relativo calo di interesse tra i ricercatori le cui attività erano un tempo incentrate proprio su queste società, sui flussi migratori e sulle attività delle diaspore. In un contesto del genere, le iniziative di traduzione dei lavori in arabo, turco e persiano si rivelano più che mai necessarie.

Dai “mukhabarat” al controllo online

Come nel caso di Fariba Adelkhah, è significativo notare che in Medio Oriente la pressione sulla ricerca avviene innanzitutto a opera dei regimi autoritari. Solo in misura marginale, a preoccupare i/le ricercatori/trici sono i gruppi di opposizione o le bande criminali responsabili dei rovesciamenti. Il controllo si è dunque tecnicizzato e agisce in modo spesso arbitrario, al passaggio delle frontiere o tramite convocazioni della polizia durante la permanenza nel luogo della missione. La pressione assume così un carattere quotidiano e imprevedibile, anche se ormai ha praticamente abbandonato la forma quasi patetica degli “angeli custodi” dei mukhabarat (servizi di intelligence), che avevano la brutta abitudine di sedersi da soli nei caffè accanto al vostro tavolo, passando il tempo a guardare distrattamente il loro pacco di sigarette senza perdersi una sola parola delle vostre conversazioni4. Gli ostacoli posti dalle nuove tecnologie sono ancora più inquietanti se si considera che queste ultime sono spesso vendute e gestite da aziende originarie dei paesi europei, e ovviamente di Israele e degli Stati Uniti. Eppure, il loro uso improprio non sembra sollevare il benché minimo caso di coscienza.

Per effetto della tecnicizzazione, esercitati ormai attraverso internet e cellulari, il controllo e la repressione di ricercatori e ricercatrici mette in luce certe ingiunzioni contraddittorie delle professioni scientifiche. Gli inviti a proteggersi, per esempio quando le università o il Centre national de la recherche scientifique (CNRS) consigliano di criptare i computer durante i viaggi, sono difficilmente compatibili con gli sforzi volti a dare maggiore visibilità a lavori e pubblicazioni nonché a liberalizzare l’accesso ai cosiddetti dati grezzi, secondo una tendenza sempre più diffusa nella professione. Allo stesso modo, le esigenze di approvare con istanze etiche i protocolli di ricerca ‒ anche nei paesi del Medio Oriente dove, tuttavia, questi aspetti molto specifici non sono generalmente contemplati ‒ sollevano la questione dell’inadeguatezza con le pratiche di ricerca sul campo in contesti autoritari. Lo stesso vale per le richieste di scorta armata talvolta imposte per ottenere un ordine di missione, ad esempio per un soggiorno in Iraq. Il ruolo svolto dalle istituzioni universitarie europee nell’erigere barriere ed esercitare pressioni non è probabilmente colto nella sua portata reale.

A colpire è soprattutto il fatto che tali pressioni sulle libertà accademiche provengono principalmente da “paesi alleati” dell’Europa. La loro efferatezza, come nel caso del ricercatore Giulio Regeni, ucciso dalla polizia egiziana nel 2016, non sembra in grado di mettere in discussione le alleanze, né tantomeno generare dure critiche da parte dei governi occidentali.

Lo stesso dicasi per le pratiche israeliane alle frontiere: i/le ricercatori/trici in scienze sociali che lavorano sull’“unica democrazia del Medio Oriente” o che vogliono recarsi in Palestina, sanno quanto alte siano le probabilità di ritrovarsi in biancheria intima all’arrivo o alla partenza dall’aeroporto di Tel Aviv, o di farsi rimpatriare dopo aver trascorso una notte sotto custodia. Inoltre, il fatto stesso che le università palestinesi dipendano direttamente dal sistema restrittivo israeliano per l’attribuzione dei visti costituisce un ostacolo evidente benché raramente rilevato.

L’ignota sorte dei ricercatori locali

Il caso del ricercatore britannico Matthew Hedges, condannato all’ergastolo dagli Emirati Arabi Uniti nel 2018, quindi graziato dopo aver comunque passato sei mesi in isolamento, dimostra in che misura i/le ricercatori/trici – soprattutto quelli/e più giovani – siano le pedine di dinamiche più grandi di loro. Fortunatamente, l’esperienza estremamente traumatica subita da Hedges non gli ha impedito di terminare la stesura della sua tesi in scienze politiche, pubblicata sotto il titolo Reinventing the Sheikhdom da un prestigioso editore scientifico (Hurst Publishers, 2021).

L’accumulo di vessazioni, limitazioni e minacce riguarda in primo luogo i/le ricercatori/trici nati/e in Medio Oriente. Dall’egiziano esperto di Sinai Ismail Alexandrani (che ha collaborato con Orient XXI) alla collega turca Pinar Selek, le loro traiettorie e la loro repressione suscitano, rispetto per esempio alle violenze perpetrate contro i giornalisti che subiscono la stessa sorte, preoccupazioni molto più blande sia nell’universo mediatico che nelle cancellerie diplomatiche. I/Le giornalisti/e, così come i/le ricercatori/trici stranieri/e, risentono della mancanza di uno status internazionale che garantisca una forma di protezione nonché un riconoscimento delle libertà accademiche, sia per quanto riguarda l’espressione delle conoscenze che le modalità di accumulazione ad esse specifiche. Diversi programmi, come Pause5 in Francia, o iniziative sostenute per esempio dal fondo Marie Sklodowska-Curie a livello europeo, offrono un supporto amministrativo e finanziario a ricercatori e ricercatrici in pericolo ovunque nel mondo. Sicuramente imperfetti poiché limitati nel tempo, questi aiuti restano necessari.

È probabile, tuttavia, che negli anni a venire l’emergenza ucraina e le minacce che incombono sui ricercatori russi producano, all’interno di questi programmi, una marginalizzazione de facto dei colleghi nati in Medio Oriente. Ciononostante, le crisi perdurano e i regimi autoritari acquistano sempre più potere. L’ingiusto e doloroso caso di Fariba Adelkhah invita dunque a riflettere profondamente sulle condizioni in cui versa la ricerca e sulle azioni da intraprendere per preservare le libertà accademiche tanto preziose quanto necessarie. Il suo caso sottolinea inoltre in che misura le funzioni sociali e politiche svolte dai ricercatori nella comprensione del mondo in generale e del Medio Oriente in particolare, debbano essere valorizzate, anche imponendo un impegno più deciso da parte della comunità scientifica nella diffusione delle conoscenze.

4Jillian Schwedler, Janine A. Clark, “Encountering the Mukhabarat State” in Political Science Research in the Middle East and North Africa: Methodological and Ethical Challenges, Oxford Scholarship Online, luglio 2018.