Analisi

Il Sudan a rischio disintegrazione

Dietro lo scontro tra Abdel Fattah al-Burhan e Hemeti, c’è in gioco anche l’unità del Sudan e la sorte delle regioni periferiche. Il rischio di disintegrazione in questo vasto paese è reale.

I due generali rivali: Abdel Fattah al-Burhan (sinistra) e Mohamed Hamdan Dagalo, detto “Hemeti” (destra)
AFP

Martedì 18 aprile 2023, nella città di Shendi c’è stata una manifestazione. Potrebbe sembrare una cosa di poco conto, mentre sono in corso gli scontri armati e le bombe dei caccia continuano a terrorizzare la capitale sudanese, dal Darfur arrivano notizie di saccheggi e omicidi, e gli abitanti del paese vivono in un terrore senza fine dal 15 aprile a causa dei due generali rivali e dalle loro rispettive forze armate. Ma non lo è. Perché la manifestazione rischia di essere il segnale di un ulteriore peggioramento della situazione, e di innescare una spirale.

Una colonna di pick-up pieni di uomini in galabiya bianca che agitano i pugni o un’arma leggera sono una dimostrazione di forza: la manifestazione è stata organizzata a sostegno dell’esercito nazionale che combatte contro i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf). Anche il luogo è indicativo: Shendi si trova a 160 km a nord-est di Khartoum, sulla riva orientale del Nilo. Il generale Abdel Fattah al-Burhan, a capo de facto del paese, comandante in capo dell’esercito e uno dei due protagonisti degli attuali scontri, è nato in un villaggio nei pressi e ha frequentato la scuola secondaria a Shendi. È anche da questa zona del paese che proviene la maggior parte della classe dirigente sudanese dopo l’indipendenza. Si tratta della stessa élite accusata di discriminazione e confisca del potere da parte delle cosiddette regioni periferiche, Darfur in testa, che è il luogo di nascita del generale Mohammad Hamdan Dagalo, detto Hemeti, e delle sue Forze di supporto rapido.

Khartoum e il centro contro il resto del paese

Secondo Kholood Khair, analista sudanese, fondatrice del gruppo Confluence Advisory, e fine osservatrice del suo paese, c’è il rischio concreto che la manifestazione di Shendi non porti alcun cambiamento nella natura del conflitto in corso: “La brutale etnicizzazione di questo conflitto è effettivamente iniziata. Presto potrebbe trattarsi non più dell’ambizione a somma zero di due uomini, ma di una nuova replica degli eterni problemi del Sudan: chi vanta i diritti sullo Stato? Una contesa che sta compromettendo lo sviluppo sostenibile del paese”, ha scritto su Twitter.

Per comprendere la natura del conflitto e la violenza dello scontro, occorre ripercorrere la storia del Sudan. Dalla sua indipendenza nel 1956, il paese è stato guidato, tranne rari e brevi periodi di governo civile e democratico, dall’esercito, il cui Stato maggiore è composto da ufficiali del centro e del nord del paese. Fin dalla sua indipendenza, i conflitti hanno opposto il centro, cioè Khartoum e la valle del Nilo, alle cosiddette regioni periferiche. In Sudan, è consuetudine riferirsi agli abitanti del centro come “arabi” o “nilotici”, che amano presentarsi spesso come “i figli del paese”. Chi, invece, proviene dalle periferie è chiamato con il nome della sua etnia (Beja, Funj, Nuba, Fur, Massalit, solo per citarne alcune). I pastori nomadi detti “arabi” dell’est sono spesso considerati a malapena sudanesi, dal momento che le tribù si trovano a cavallo dei paesi limitrofi, i cui confini sono stati, qui come in altre zone dell’Africa, tracciati dalle potenze coloniali.

Due guerre hanno contrapposto il nord al sud, divenuto indipendente nel 2011, che traevano origine, più che nella religione, nella discriminazione, nella confisca delle ricchezze e nell’attribuzione di posti di potere. L’area settentrionale dell’attuale Sudan è ancora destabilizzata da lunghi anni di guerriglia, con un gruppo armato attivo, malgrado il cessate il fuoco messo in atto in seguito alla rivoluzione del 2018. Forti tentazioni separatiste hanno scosso la zona orientale del paese. Quanto al Darfur, è stato teatro per vent’anni di un atroce conflitto che è valso all’ex dittatore Omar al-Bashir l’accusa di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra.

Se i protagonisti di oggi, Abdel Fattah al-Burhan e Hemeti, erano già al servizio di Omar al-Bashir e della sua guerra in Darfur, il reclutamento delle loro forze funziona però in modo diverso. Le Forze di supporto rapido (Rsf), create dall’ex dittatore nel 2013, riuniscono ex janjawid, miliziani filogovernativi di Khartoum, reclutati tra alcune tribù arabe nomadi del Darfur. Omar al-Bashir ne aveva fatto prima la sua milizia privata e, per contrastare un esercito regolare che poteva minacciarlo, l’aveva poi resa una “forza regolare” per portarla alla fine a Khartoum nel 2018, poco prima della rivoluzione.

Il disprezzo per l’“allevatore di capre”

Elementi dell’esercito nazionale sono stati trasferiti alle Forze rapide di supporto (Rsf) e viceversa. C’è stato un crescente reclutamento, ma non è bastato a impedire o far dimenticare il risentimento della “periferia contro il centro”. Hemeti, che non ha frequentato accademie militari, viene spesso chiamato nella capitale l’“allevatore di capre”, dove le capre sono le disprezzate Rsf.

Dopo la rivoluzione, le Rsf si sono sparpagliate nella capitale, occupando diversi luoghi a Khartoum, confiscati alle organizzazioni legate all’ex regime. Tra questi, un imponente edificio di vetro situato proprio di fronte al Comando generale dell’esercito nazionale, un enorme complesso che custodisce i depositi di armi. Di recente, si è cominciato a costruire anche un muro di cemento lungo il quartier generale militare. “Hanno più paura delle Rsf che della popolazione”, scherzano a Khartoum. Lo scontro era già tutto lì, inscritto nella cartografia della città.

Naturalmente, non si tratta di ridurre la guerra tra i due generali rivali solo alla contrapposizione “centro” contro “periferia”. C’è in ballo la lotta per il controllo della ricchezza e degli interessi degli sponsor regionali e internazionali di entrambe le forze. Ma dimenticare i conflitti interni sarebbe un errore molto più grave perché dopo una breve parentesi di unità nazionale durante la rivolta popolare del 2018 e i primi 18 mesi del periodo di transizione democratica sotto il governo civile di Abdalla Hamdok, le divisioni sono apparse più profonde che mai dopo il colpo di Stato del 25 ottobre 2021.

Il putsch è stato portato avanti da Abdel Fattah al-Burhan e Hemeti. I due hanno agito di comune accordo per mettere fine alla transizione democratica, arrestando ministri, leader politici e i principali attivisti, e lanciando la repressione contro il movimento rivoluzionario e soprattutto i comitati di resistenza, organizzazione di quartiere e colonna portante della rivoluzione. Abdel Fattah al-Burhan, considerato vicino agli islamisti, ha rimesso in sella molti di loro, ex membri del Partito del Congresso Nazionale (National Congress Party, NCP), un’organizzazione tentacolare dell’ex regime.

Prepararsi alla guerra

Hemeti si sentiva minacciato, proprio lui che si vanta di aver arrestato Omar al-Bashi, contribuendo in tal modo alla caduta del suo regime. Hemeti ha cercato inoltre di presentarsi come l’araldo della rivoluzione e delle forze civili, pretendendo di essere un argine contro il ritorno degli islamisti. In sostanza, il protettore dei deboli contro i kaizan, sostenitori dell’autocrate deposto e faccendieri cleptocratici della ricchezza nazionale. La scorsa estate, ha riconosciuto che il colpo di Stato è stato un fallimento e un errore, sostenendo pubblicamente il ritorno dei civili al potere. Qualcuno ci ha creduto. La missione ONU in Sudan (Unitams), il meccanismo trilaterale (ONU, l’Unione africana e l’Organizzazione regionale dell’Africa orientale IGAD), il Quartetto (Stati Uniti, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Regno Unito) hanno accolto con favore l’accordo quadro firmato il 5 dicembre 2022 tra i generali Al Burhan e Dagalo, e una quarantina di partiti politici e organizzazioni che rappresentano la società civile. È proprio questo processo politico che è appena fallito, sulla questione della riforma delle istituzioni militari e della sicurezza. Al Burhan voleva che le Rsf si integrassero nell’esercito nel giro di due anni, Hemeti, invece, voleva mantenere il pieno controllo delle sue forze.

In realtà, il duello era iniziato anche prima del colpo di Stato. L’ostilità si è solo rafforzata con il putsch e le sue conseguenze, estremamente tangibili nel paese. “Fuori dal centro, il paese ha conosciuto una crescente destabilizzazione, tensioni etniche strumentalizzate da alcuni programmi politici, mentre l’economia nelle zone rurali e i mezzi di sussistenza sono peggiorati. Anche le tensioni tra centro e periferia si sono ulteriormente inasprite”, ha detto Guma Kunda Komey, ricercatore sociale ed ex consigliere per la pace del Primo ministro Abdalla Hamdok, in un podcast pubblicato dal think tank International Crisis Group a febbraio scorso.

Le due fazioni hanno rafforzato la loro base e si sono preparate alla guerra. “Hemeti ha usato le armi della violenza e del denaro per affermare il suo controllo”, ha detto a marzo Ahmed Gouja, un attivista di Nyala nel Darfur. “Ha distribuito Land Cruiser e Toyota Hilux ai leader della comunità, ha reclutato giovani per inviarli nello Yemen. Il mercenarismo frutterà tanti soldi a questi giovani, 50.000 dollari [46.000 euro] dopo soli 9 mesi. Con quel gruzzolo, possono sposarsi, costruire una casa, avviare un’attività. Hemeti gli offre un futuro”. E per mettere in riga chi si rifiuta, Hemeti usa la carta della violenza: “Fomenta conflitti tra etnie, tra tribù arabe e contadini, per arrivare poi con una proposta di riconciliazione”.

Il peso del Darfur

Anche in Darfur l’esercito ha puntato sul reclutamento. Con meno successo perché non era in grado di offrire gli stessi benefici. “Ecco perché, nella regione, le Rsf sono più attrezzate dell’esercito, con più veicoli e auto molto più potenti”, spiegava pochi giorni fa Ahmed Gouja, attivista per i diritti umani. L’esercito e i sostenitori dell’ex regime sono stati accusati negli ultimi mesi di aver creato milizie nel nord e nel centro del paese. Ad esempio, le stesse Forze dello scudo del Sudan (Ssf) hanno annunciato il loro addestramento nella città di Dongola nel dicembre 2022, organizzando poi manifestazioni nelle città durante affollati mercati settimanali senza alcun intervento delle autorità.

Mentre i due generali proclamavano, in numerosi comunicati e incontri con interlocutori internazionali, di voler accettare un ritorno dei civili al potere, ponevano le condizioni per una vittoria nel loro imminente scontro. Si sono trasformati in signori della guerra pronti a fare a pezzi il loro paese per il potere. La popolazione di Khartoum e del Darfur è rinchiusa nelle proprie case o corre ogni rischio per tentare di fuggire.

Molti reagiscono, organizzano gli aiuti e mutuo soccorso, nei quartieri e attraverso i social network. Un comunicato dei comitati di resistenza dello Stato di Khartoum fornisce linee guida per combattere la disinformazione, organizzare ospedali da campo e consegnare cibo, acqua e medicine a chi ne ha bisogno. Lo slogan “no alla guerra” deve essere diffuso ovunque, dice il comunicato. Sui social, sono in molti a dire “questa non è la nostra guerra”. E alcuni video mostrano i residenti di Khartoum dipingere con lo spray lo slogan “no alla guerra” sui muri della città. Come scrivevano quattro anni fa: “Abbasso il regime”.