I protagonisti della campagna contro la “teoria del genere” e l’omosessualità in Iraq sono ben conosciuti: si tratta di gruppi politici islamisti conservatori e di personaggi vicini all’establishment politico, che sostengono un’argomentazione molto familiare, legata ad un discorso ricorrente già sentito durante gli anni Novanta e Duemila rispetto a parole come femminismo e uguaglianza, secondo il quale si tratterebbe di concetti tipicamente “occidentali”, contro la nostra cultura e la nostra religione. Ma è un’accusa talmente caricaturale nella sua banalità e rivelatrice di poca competenza che inizialmente è stato difficile prenderla seriamente.
Un complotto occidentale
E tuttavia, la campagna ha provocato una frenesia collettiva ed è stata seguita da misure molto concrete da parte dei Consigli provinciali, del Parlamento e del Ministero dell’Istruzione superiore e della Ricerca scientifica, che hanno sanzionato o limitato l’uso di termini come “genere” e “sesso sociale”. La Commissione per le Comunicazioni e i Media, allo stesso modo, ha imposto l’uso di “devianza sessuale” – un termine gravemente offensivo per indicare le persone LGBTQI+, al posto di “omosessualità” sui media, nelle imprese, nelle agenzie di comunicazione e sui social network.
Le teorie secondo le quali esisterebbe un “complotto occidentale” e il panico legato alla “moralità sessuale” sono stati sfruttati con successo come paravento per distrarre l’opinione pubblica e come strumento per minare l’opposizione e giustificare la violenta repressione delle proteste contro il regime e i dissidenti, alla vigilia di importanti elezioni in Iraq.
Una rete di intellettuali, difensori dei diritti umani, donne e personalità della società civile ha denunciato questa campagna con una petizione pubblica ad agosto, intitolata “Sul genere, le libertà e la giustizia sociale”1. Nell’appello, hanno chiesto alle autorità di porre fine a questa demonizzazione e hanno sottolineato la necessità di ricordare ai funzionari pubblici che l’uso del termine “genere” deriva da trattati e da accordi internazionali e tra Stati, firmati anche da quello iracheno, in conformità al principio di uguaglianza garantito dalla Costituzione.
Il linguaggio della mascolinità e del potere
Dopo decenni di guerre e militarizzazione diffusa, la violenza è il linguaggio della mascolinità e del potere, tanto negli spazi privati quanto in quelli pubblici. Questa campagna non fa che esacerbare la violenza contro le persone e i gruppi che sono già vittime, e si ritrovano oggi ulteriormente marginalizzati e demonizzati. La violenza di genere permea tutti gli aspetti della vita in Iraq, senza alcuna possibilità di ricorso. I gruppi femministi tentano da oltre un decennio, senza successo, di far adottare una legge che punisca le violenze domestiche. Questa nuova offensiva esprime violenza non solo contro le donne, ma anche contro tutte le persone che non si conformano al modello egemone e rigido della mascolinità, della femminilità, della sessualità. Le persone della comunità LGBTQI+ sono le più marginalizzate e perseguitate. Circa dieci anni fa, un’ondata di brutali omicidi ha preso di mira le persone “percepite come omosessuali” e, ancora oggi, l’uso della violenza contro di loro è predominante e pervasivo2.
La compiacenza delle Nazioni Unite
Il sistema politico costruito e imposto dopo l’invasione e l’occupazione statunitense del paese nel 2003 è repressivo, iper-militarizzato, e opera in totale impunità. I militanti, gli intellettuali e gli oppositori sono costantemente minacciati, e in tantissimi sono stati rapiti, torturati, o fatti sparire. In un contesto simile, in molti preferiscono restare cauti nelle proprie dichiarazioni pubbliche. Sia perché il pericolo è reale, sia perché la solidarietà internazionale nei loro confronti è insufficiente. Il silenzio e la spesso scandalosa compiacenza della Missione delle Nazioni Unite in Iraq (UNAMI) nei confronti di questi abusi non fa che consolidare l’impunità del potere.
Questa offensiva contro il genere mostra il funzionamento del sistema di potere in Iraq e nel mondo contemporaneo. Il genere è infatti al cuore dei sistemi di potere; forma un nodo attraverso il quale si afferma, si dispiega o si confisca. Gli ideologi anti-genere si presentano come garanti della cultura locale autentica e come protettori della religione. Tuttavia, la loro strategia non è che la declinazione locale di un discorso maschilista, omofobo, neofascista e di estrema destra che ritroviamo in tutta la regione, dal Libano all’Egitto, passando per l’Iran; e altrove nel mondo, all’Ungheria al Giappone passando per gli Stati Uniti e la Francia.
Dai sostenitori di Donald Trump e del primo ministro ungherese Viktor Orban, che ha bandito gli studi di genere dalle università, agli ideologi iracheni anti-gender, esiste una comune politicizzazione dell’identità religiosa, razziale o confessionale associata al maschilismo omofobo. Non sorprende dunque che queste forze abbiano in comune anche l’attacco a tutte le forme di protezione sociale e ai servizi pubblici, e la negazione dell’accesso alle risorse e ai diritti essenziali per i poveri e le classi lavoratrici.
Questi attacchi, quindi, non possono essere interpretati unicamente come strategie opportuniste alla vigilia di elezioni cruciali: sono piuttosto costitutivi della ragion d’essere delle forze neo-fasciste e di estrema destra contemporanee, e un modo per conservare il proprio potere; ma anche per mantenere intatti privilegi sociali e di classe. In altri termini, la campagna anti-genere mostra che in Iraq, come altrove nel mondo, la lotta per la giustizia sociale, l’uguaglianza e la libertà non può svilupparsi separatamente dalla battaglia contro la violenza di genere. E difendere la parità di genere significa rifiutare questa violenza.
1Qui il testo della petizione (in arabo).
2Human Rights Watch, «Stop Killings for Homosexual Conduct,» 17 agosto 2009.