Focus gaza-Israele

Israele e i suoi alleati violano il diritto internazionale

Mentre Israele e i suoi alleati fanno appello al diritto internazionale, compreso il cosiddetto diritto all’autodifesa, l’analisi delle principali risoluzioni delle Nazioni Unite conferma la non pertinenza di quanto invocato. Dall’esame degli aspetti giuridici, la situazione nei territori palestinesi occupati non corrisponde alla versione ufficiale fornita da Tel Aviv. In questo caso, sono in gioco soprattutto il diritto dei popoli all’autodeterminazione, il mantenimento della pace e le leggi che regolano l’occupazione militare.

Ripresa dei bombardamenti israeliani a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, 1 dicembre 2023.
Mohammed Abed/AFP

In questo momento, ho il presentimento che la prossima fase sarà drammatica. Non riesco ad immaginare altro. Si tratta di vedere che forma assumerà quest’imminente tragedia e, a quel punto, cominciare a pensare al dopo. Oggi non possiamo andare oltre, se non formulando ipotesi”.1

È indubbio che il diritto internazionale riconosca il “diritto dei popoli all’autodeterminazione” fin dal periodo della decolonizzazione. Un diritto che deriva dalla pratica giuridica della Carta delle Nazioni Unite e dalle principali risoluzioni della sua Assemblea Generale – come la risoluzione 1514 (1960) –, che hanno acquisito una validità generale e vincolante. Se il processo di decolonizzazione può dirsi sostanzialmente concluso, il riconoscimento del suddetto corpus normativo mantiene, invece, la sua rilevanza per i “territori non autonomi” in cui esistono ancora movimenti indipendentisti, che contestano il potere delle “potenze amministranti”.

Un insieme di norme giuridiche che resta essenziale nella questione palestinese in quanto la popolazione è sottoposta a occupazione militare (non solo in Cisgiordania: anche la Striscia di Gaza è considerata dal diritto internazionale un territorio occupato dallo Stato di Israele); e in quel corpus normativo i palestinesi rientrano in maniera incontestabile. La Corte internazionale di giustizia (CIG), il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite e un’autorità in materia di diritto pubblico internazionale, lo ha confermato molto chiaramente nel parere espresso il 9 luglio 2004 in merito alla costruzione del Muro nel territorio palestinese occupato (§ 118).

In linea di principio, il diritto dei popoli all’autodeterminazione comporta degli obblighi per lo Stato coloniale, per lo Stato occupante o per lo Stato che governa in regime di apartheid, ma anche obblighi per gli Stati terzi. Riconosce dei diritti ai popoli che ne sono soggetti. Per quanto riguarda lo Stato coloniale o occupante, questo è tenuto a consentire l’autodeterminazione dei popoli sotto il suo governo. Un’autodeterminazione che prende la forma dell’indipendenza e, di conseguenza, delle caratteristiche proprie di Stato, che comporta una piena sovranità in materia economica e sulle risorse naturali.

Tuttavia, il popolo colonizzato/occupato, previa regolare consultazione, può scegliere una libera associazione con lo Stato coloniale/occupante, o addirittura l’integrazione con un altro Stato (Assemblea Generale, risoluzione 1541, 1961). Logicamente, lo Stato coloniale o occupante ha l’obbligo, per consentire l’autodeterminazione, di non reprimere i movimenti di liberazione dei popoli che amministra, così come ha il “dovere di astenersi dall’impiego di misure coercitive” che priverebbero i popoli del loro diritto all’autodeterminazione (Assemblea Generale, risoluzione 2625, 1970). E secondo la stessa logica, i popoli colonizzati/occupati hanno in linea di principio il diritto di resistere a uno Stato che nega loro l’autodeterminazione, anche mediante il ricorso all’uso della lotta armata (Assemblea Generale, risoluzione 2621, 1970).

Questo impianto viene esteso anche al diritto bellico dal momento che le guerre di liberazione nazionale sono state assimilate ai conflitti internazionali dal primo Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1977, il che comporta, di conseguenza, che i combattenti di un movimento di liberazione nazionale vengano equiparati ai combattenti di uno Stato, e debbano poter godere dello statuto di prigionieri di guerra se catturati; ovviamente i combattenti in qualsiasi tipo di conflitto hanno l’obbligo di rispettare le regole umanitarie del diritto di guerra, basate sul principio di distinzione tra obiettivi militari (che possono essere oggetto di attacco), popolazione e obiettivi civili dall’altra (che non possono mai essere attaccati). In ultimo, la Corte internazionale di giustizia ha da tempo riconosciuto l’importanza del diritto dei popoli all’autodeterminazione dichiarando che ciò implica degli obblighi erga omnes, vale a dire obblighi eccezionali per tutti gli Stati, che sono tenuti a non riconoscere situazioni di dominio. Lo ha ricordato il già citato parere della Corte internazionale di giustizia del 2004 nei confronti del popolo palestinese (§§ 155 e 156).

I limiti della legittima difesa

Lo Stato occupante, nel caso di attacco proveniente da un territorio occupato, non può invocare la legittima difesa sancita dalla Carta delle Nazioni Unite nel suo famoso articolo 51. Il “diritto naturale” di autotutela individuale o collettiva previsto dall’articolo 51 è infatti invocabile solo da uno Stato soggetto a un attacco armato da parte di un altro Stato; in questo caso, lo Stato vittima di attacco armato può essere supportato da altri Stati nella sua reazione di legittima difesa poiché la Carta riconosce la legittima difesa collettiva. È pur vero che la reazione di legittima difesa all’attentato terroristico dell’11 settembre è stata controversa ed ampiamente dibattuta; ma indipendentemente dal dibattito, non ha in alcun modo consentito di ritenere che un attacco proveniente da un popolo che vive sotto occupazione possa giustificare il ricorso alla legittima difesa contenuto nella Carta da parte dello Stato occupante.

La Corte internazionale di giustizia lo aveva già affermato nel 2004, quando aveva considerato l’invocazione del diritto all’autodifesa da parte di Israele nei confronti del territorio palestinese occupato “non pertinente con l’art. 51”. (§ 139 della risoluzione). La Corte aveva dichiarato inoltre che, se uno Stato ha il diritto e il dovere di rispondere ad atti di violenza contro la sua popolazione civile, le misure adottate “devono comunque rimanere conformi al diritto internazionale” (§ 141 della risoluzione). Riguardo alle precedenti operazioni militari di Israele, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite aveva condannato nel 2009 “l’uso eccessivo della forza da parte delle forze di occupazione israeliane contro i civili palestinesi, in particolare di recente nella Striscia di Gaza, che ha causato un numero significativo di morti e feriti, anche bambini, oltre a danni ingenti e distruzione di edifici, proprietà, infrastrutture vitali e strutture pubbliche, compresi ospedali, scuole e sedi delle Nazioni Unite, e terreni agricoli, comportando lo sfollamento di civili” (Risoluzione 64/94, 2009).

La recente risoluzione dell’Assemblea Generale che chiede “una tregua umanitaria immediata, duratura e prolungata che conduca alla cessazione delle ostilità”, non riprende però espressamente la condanna dell’uso eccessivo della forza. Viene rivolta un’unica esplicita richiesta, nella fattispecie “la revoca dell’ordine da parte di Israele, la potenza occupante, ai civili palestinesi e al personale delle Nazioni Unite, così come agli operatori umanitari e sanitari, di evacuare tutte le aree della Striscia di Gaza a nord del Wadi Gaza e di trasferirsi nella parte meridionale di Gaza”, secondo la risoluzione A/ES-10/L.25 del 26 ottobre 2023, punto 52. L’Assemblea ha riaffermato inoltre “che una soluzione giusta e duratura al conflitto israelo-palestinese può essere raggiunta solo con mezzi pacifici”. Il sostegno alla resistenza armata della popolazione occupata, prima degli Accordi di Oslo espressa in qualche caso, è quindi, in questa fase, praticamente scomparso3.

Uno sradicamento finalizzato all’annessione

In realtà, oggi siamo di fronte ad una battaglia per il diritto che si combatte su più fronti.

Il primo, e più visibile, è quello che tenta di evocare l’aspetto della legittima difesa nel contesto di una “guerra al terrorismo” con lo scopo di legittimare in linea di principio gli attacchi militari israeliani a Gaza. Una narrazione che passa anche dalla messa al bando di Hamas in quanto gruppo terroristico, come fatto dalla giurisdizione degli Stati Uniti e dell’Unione Europea4. Il ricorso alla definizione di “terrorista” giustifica l’attuazione di sanzioni economiche da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea contro Gaza. Già nel 2007 l’inviato speciale dell’Onu per i diritti umani nel territori occupati John Dugard era giunto alla conclusione che si trattava del primo caso di sanzioni economiche adottate contro un popolo occupato5.

L’adozione del contesto di “guerra al terrorismo” è stata utilizzata anche dal presidente francese Macron, con l’infelice proposta di riunire una coalizione internazionale sul modello di quella formata per contrastare lo Stato islamico (Daesh). Durante la sua visita in Israele il 24 ottobre scorso, Macron aveva dichiarato ai giornalisti: “La Francia è pronta a far sì che la coalizione internazionale contro Daesh, alla quale partecipiamo per le operazioni in Iraq e Siria, combatta anche contro Hamas”6. Un discorso espressamente ripreso anche nel progetto di risoluzione presentato dagli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza il 25 ottobre 2023, suscitando la netta opposizione della Russia.

Ma c’è un limite nel discorso degli Stati alleati di Israele basato sulla delegittimazione dell’avversario, designato come “terrorista”: si tratta dell’inammissibilità dell’acquisizione di territori mediante la guerra (annessione), sottolineata, nei confronti di Israele, a partire dalla risoluzione 242 (1967) del Consiglio di Sicurezza. Non sarà quindi chiaramente possibile per il Consiglio di Sicurezza sostenere il progetto di “sradicare completamente” i gruppi designati come terroristi dal territorio di Gaza, come aveva fatto nei confronti dello Stato islamico nel 2015 (risoluzione 2249), in maniera quantomeno discutibile. Uno sradicamento ai fini dell’annessione sembra infatti essere il progetto del governo israeliano a Gaza.

Le questioni relative al “regime militare”

Il secondo fronte di battaglia intorno al diritto è quello che tenta, più in sordina, di rimettere in discussione la rappresentazione, prevalente nel diritto internazionale, dell’occupazione militare del territorio palestinese controllato da Israele dal 1967. Per il diritto internazionale e per l’ONU, si tratta di un territorio che rientra in un regime di occupazione come descritto nella Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 sul diritto di guerra. Sono ormai diversi anni che i Relatori speciali del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati dal 1967 – tra loro figurano John Dugard, Richard Falk, Michael Lynk e Francesca Albanese, i cui rapporti sono disponibili sul sito dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani – si chiedono: ci troviamo ancora in presenza di un regime di occupazione militare?

Un interrogativo che si basa sulla lunga durata dell’occupazione (che avrebbe dovuto essere temporanea), sulla descrizione delle pratiche di annessione attraverso la costruzione del Muro, la colonizzazione e la punizione collettiva (blocco di Gaza), e sull’istituzione di un sistema di discriminazione con caratteristiche da regime di apartheid, considerato gravemente illegittimo dal diritto internazionale. Ecco le conclusioni del relatore speciale Michael Lynk nel suo rapporto del 2022:

Il sistema politico di governo radicato nel territorio palestinese occupato che conferisce a un gruppo razziale-nazionale-etnico sostanziali diritti, benefici e privilegi mentre sottopone intenzionalmente un altro gruppo a vivere dietro muri, posti di blocco e sotto un governo militare permanente… soddisfa gli standard probatori prevalenti per l’esistenza dell’apartheid7

Questa ulteriore battaglia per il diritto potrebbe avere conseguenze giuridiche. Pertanto, il 30 dicembre 2022, l’Assemblea Generale dell’ONU, con risoluzione 77/247, ha chiesto alla Corte internazionale di giustizia un parere consultivo che sembra dare un’adeguata eco alle questioni relative alla permanenza del regime di occupazione.

Se la Corte dovesse ritenere che l’occupazione dei territori palestinesi non ha più fondamento giuridico e che ci si trova in realtà in presenza di una pratica di annessione associata all’instaurazione di un regime di apartheid, la rappresentazione della situazione e il suo quadro giuridico sarebbero molto diversi. Al di là dell’effetto simbolico estremamente negativo dovuto alla definizione di “governo di apartheid”, la presenza di Israele nei territori occupati sarebbe di per sé gravemente illegale, con l’eventuale introduzione di misure collettive di natura sanzionatoria da parte dell’ONU volte a porre fine ad un regime di apartheid, come nel contesto del Sudafrica.

Non si farà riferimento qui8 a un terzo fronte nella battaglia sulle definizioni giuridiche, quello che paragona le azioni israeliane a una forma di genocidio. È un’analisi a cui viene dato sempre più credito e di cui nessuno può rallegrarsi dal momento che sembra corrispondere all’attuale condizione subita dal popolo palestinese a Gaza.

1Intervista a Elias Sanbar, L’Humanité Magazine, 26 ottobre-1° novembre 2023.

3Su tale sostegno, si veda la risoluzione 45/130, 1990, punto 2, dell’Assemblea Generale, nel contesto della prima Intifada, in cui “riafferma la legittimità della lotta che i popoli stanno portando avanti per garantire la loro indipendenza, integrità territoriale e unità nazionale per liberarsi dal dominio coloniale, dall’apartheid e dall’occupazione straniera con tutti i mezzi a loro disposizione, compresa l’azione armata”.

4Alain Gresh, “Barbari e civilizzati”, Le Monde Diplomatique, novembre 2023

5Risoluzione A/HRC/4/17, punto 54.

6Le Monde, 25 ottobre 2023

7A/HRC/49/87, paragrafo 52.

8Orient XXI pubblicherà un articolo sul tema nei prossimi giorni.