
Le aggressioni contro i palestinesi della Cisgiordania hanno visto un’ondata di violenza dall’ottobre 2023 e dall’attacco di Hamas. All’inizio del 2025, l’esercito israeliano ha inasprito le sue azioni in questa parte dei territori occupati, con una escalation condizionata dalla guerra condotta a Gaza. Il 19 gennaio, è stato varato un programma, in cui il governo israeliano aggiunge ai suoi “obiettivi di guerra” una nota dove si parla di una “intensificazione delle attività offensive” in Cisgiordania. Il piano, denominato “dottrina Gaza” dall’organizzazione non governativa (Ong) israeliana B’Tselem, prevede quattro tipi di misure: ricorso intensivo ai raid aerei; invasione su larga scala e distruzione delle infrastrutture civili; spostamenti massicci della popolazione e maggiore tolleranza per i responsabili di atti contro i civili palestinesi.
Con la svolta avviata all’inizio del 2025, l’esercito ha lanciato così un segnale forte ai coloni, per essere più strettamente coordinati. Le sue operazioni mirano a vessare le comunità palestinesi, incoraggiando l’insediamento di popolazioni ebraiche, proprio nei luoghi dove vivono le comunità. Parallelamente sta avvenendo un altro cambiamento: la crescente militarizzazione delle bande o delle milizie, in uniforme o travestite da soldati, sotto gli occhi delle autorità militari.
Assalti militari e bande armate
Un mese dopo l’annuncio del governo israeliano, Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze e incaricato dell’amministrazione civile della Cisgiordania occupata, ha dichiarato il 10 febbraio 2025 davanti alle telecamere:
I residenti arabi della Giudea e Samaria [Cisgiordania] devono sapere che, se continueranno a sostenere il terrorismo, il loro destino sarà identico a quello degli abitanti di Gaza. Tulkarem e Jenin assomiglieranno a Jabaliya e Shujaiya, Nablus e Ramallah assomiglieranno a Rafah e Khan Yunis, ridotte in un cumulo di macerie, dove sarà impossibile vivere, con i loro abitanti costretti a fuggire e a cercare rifugio in altri paesi.
I fatti sul campo dimostrano livelli mai raggiunti prima nelle aggressioni civili e militari, oltre che nell’attuazione di pratiche amministrative sempre più restrittive. Con l’operazione militare “Muro di ferro”, lanciata il 21 gennaio, il campo profughi di Jenin è stato svuotato dei suoi circa 16.000 abitanti: prima sottoposto a raid aerei, poi evacuato e infine raso al suolo. Il campo di Nur Shams, vicino a Tulkarem, è condannato alla stessa sorte. L’evacuazione sta già avvenendo, anche se per il momento la Corte Suprema israeliana ha congelato l’ordine dato dall’esercito di demolire 104 edifici civili, tra cui circa 400 abitazioni, nel campo. Ma per quanto tempo?
Alla fine di maggio, a Maghayer al-Dir, un villaggio a circa 20 chilometri a est di Ramallah, i coloni sono ricorsi a una nuova tecnica: si sono insediati nel cuore del villaggio, aggredendo e minacciando gli abitanti, e costringendoli ad andarsene. Otto giorni dopo, il villaggio è stato completamente svuotato1.
Forti del loro successo, le squadre di coloni attaccano Kafr Malik e poi Turmus Aya sempre nella regione di Ramallah. Tattiche di guerra e aumento massiccio del numero di aggressori sono le ultime strategie delle bande organizzate per l’occupazione delle terre.
All’inizio di luglio 2025 è stata la volta del villaggio di Al-Muarrajat. Nel deserto a sud della valle del Giordano, decine di coloni israeliani hanno invaso il luogo, entrando nelle case, rubando pecore, occupando spazi nel cuore del villaggio. Il quotidiano online Times of Israel ha scritto: “I soldati, chiamati come rinforzo, non solo non hanno impedito il saccheggio, ma hanno anche protetto i sostenitori del movimento pro-insediamento quando hanno preso d’assalto le case”. Trenta famiglie, per un totale di 177 persone, sono state costrette ad andarsene sotto la minaccia delle armi.
L’11 luglio è stato attaccato il villaggio di Sinjil. Ci sono stati diversi morti, tra cui Saif al-Din Musalat, un giovane cittadino americano-palestinese che aveva deciso di trascorrere lì l’estate. Due mesi prima, ad aprile, il villaggio di Sinjil era già stato isolato dalla costruzione di un muro di filo spinato alto cinque metri, che impediva agli agricoltori l’accesso ai loro terreni.
Secondo il politologo Ahron Bregman, intervenuto il 27 gennaio 2025 nel programma YouTube Face @ Face dell’economista italiano Michele Boldrin, lo spostamento in Cisgiordania della guerra a Gaza sarebbe un “regalo” di Netanyahu all’estrema destra e ai coloni, per scongiurare l’ipoteso di un abbandono della coalizione. Un’operazione che porta rapidamente verso una soluzione di totale sovranità di Israele in Cisgiordania.
Demolizioni ed espulsioni
Nel sud della Cisgiordania, si ricorre a strumenti legislativi per raggiungere un altro obiettivo della “dottrina di Gaza”, senza dubbio il nodo centrale del progetto: il trasferimento massiccio della popolazione. La violenza amministrativa si intreccia, in maniera perversa, con il diritto edilizio, il diritto di proprietà del suolo e le prerogative dell’esercito.
Il 17 giugno 2025, è stata avviata una espulsione di massa degli abitanti di Masafer Yatta, zona semidesertica nel sud-est del distretto di Hebron, che ospita, oltre alla città di Yatta, con oltre110.000 abitanti, una decina di villaggi e sobborghi. Il governo israeliano ha chiesto alla Corte Suprema israeliana di convalidare la demolizione di quasi tutti i villaggi e l’espulsione dei loro abitanti. Si parla di ampliare la zona di tiro 9182, vale a dire sottoporre il territorio all’accesso esclusivo delle forze armate, per autorizzare in un secondo momento l’insediamento dei coloni, come quasi sempre accade con questo genere di direttiva.
Diramato rapidamente, il documento ufficiale dell’esercito ribadisce l’uso della “intera gamma di strumenti civili e di sicurezza a disposizione”, precisando che tutte le licenze edilizie in corso o future, presentate dai palestinesi, devono essere bloccate. Risultato: gli edifici costruiti, non avendo una convalida ufficiale, sono destinati ad essere demoliti. Poche settimane prima, il villaggio di Khalet al-Dabaa era stato raso al suolo, come nessun altro prima nella regione di Masafer Yatta. La maggior parte delle abitazioni palestinesi in questa zona sono “illegali”: costruite da popolazioni cacciate dalle loro terre prima del 1948 o dopo, che non hanno mai ottenuto i permessi. Il villaggio di Khalet al-Dabaa è stato immediatamente occupato da un gruppo di coloni. Inoltre, la regione è soggetta a un numero senza precedenti di posti di blocco militari, se non a un vero e proprio blocco totale. Secondo le popolazioni interessate e i loro avvocati civili, i progetti di demolizione non avevano mai raggiunto tali livelli.
Il 29 luglio, Awdeh Al-Hathaleen, insegnante di 31 anni e attivista pacifista, è stato ucciso a sangue freddo vicino casa sua, a Umm al-Kheir, nella zona di Masafer Yatta. Aveva preso parte al pluripremiato No Other Land, vincitore dell’Oscar come miglior film documentario nel 2025. Il suo assassino, Yinon Levi, 32 anni, è un colono già noto alle autorità per le sue ripetute aggressioni, che gli sono valse sanzioni da parte dell’Unione Europea e del Regno Unito. Da parte degli Stati Uniti, le sanzioni pronunciate da Joe Biden sono state revocate da Donald Trump. Dopo l’omicidio è stato inizialmente arrestato dalla polizia, ma è stato rilasciato e poi posto agli arresti domiciliari.
Una strategia di logoramento
Gli atti più criminali del genocidio israeliano si vedono nell’uccisione deliberata di decine di migliaia di civili e nella tortura della fame imposta ai palestinesi, rinchiusi sotto assedio a Gaza. Due iniziative a cui si aggiunge una nuova forma di vessazione, che i due termini tradizionalmente utilizzati, “sfollamento” ed “espulsione”, non bastano più a descrivere. Si tratta di una strategia di logoramento, che porta a una lenta estinzione, poi alla morte. E si ritorna sempre alla stessa domanda su questa furia omicida di Israele: perché un tale estremismo?
Bisogna tenere conto di un fatto essenziale: le azioni come le guerre condotte da Tel Aviv sono dettate sia da progetti premeditati che da carenze endemiche, da spaventose debolezze. Da un lato, la forza bruta, dall’altro la malattia.
Le crepe israeliane vengono però sottovalutate. Le cause della fuga in avanti di Israele verso una guerra totale sono molteplici e complesse, ma ce n’è una che è legata alla catena di eventi dell’ottobre 2023: è l’inedita fragilità del potere, e senza dubbio della società nel suo complesso, con la grave crisi evidenziata dagli attacchi di Hamas. Le risposte brutali servono a scongiurare una minaccia di implosione. Ciò si traduce nelle numerose manifestazioni di piazza indette in Israele dopo l’ottobre 2023, nella loro repressione muscolare, nel tremendo discredito che grava sulla figura del primo ministro, che d’altra parte è sempre pronto a stratagemmi pur di restare al potere. I processi per corruzione intentati contro di lui a partire dal 2020 rivelano anche il ruolo senza precedenti che il denaro, l’affarismo, la speculazione e gli interessi personali hanno assunto in Israele. È probabile che i problemi abbiano raggiunto una soglia critica nel 2023, quando c’è stata una correlazione tra guerra e profitto, due ambiti poco trasparenti, nelle campagne condotte a Gaza nell’ultimo decennio con lo sviluppo delle industrie degli armamenti.
“Guerra, denaro, colonizzazione”, un trittico fatale
Oltre alla minaccia di un vuoto ai vertici di potere, Israele sta vivendo da alcuni anni una forte polarizzazione sociale, culturale e religiosa, che però non trova alcuno sbocco politico. Le lotte israeliane si scontrano contro un muro: la complicità nel crimine di guerra. Dietro questi fronti armati, la popolazione israeliana, con il suo rifiuto, la sua ostinata volontà di non vedere nulla, non ha però un ruolo neutrale. Da una parte, Israele porta avanti una guerra contro i palestinesi, dall’altra il silenzio colpevole paralizza la società.
Eppure, non c’è cosa migliore di un crimine comune per tenere insieme un gruppo debole. Per farlo, bisogna dichiarare un eccezionale tornaconto, un nemico, o entrambi. In Israele il nemico era già designato, il denaro è arrivato con le tecnologie, la finanza, la speculazione fondiaria, tutte e tre trainate dall’espansione coloniale dopo il 1967. La colonizzazione, praticata da una minoranza, è tollerata, consentita, cancellata dalla maggioranza. Così diventa una colpa nazionale. Nel corso degli anni, la società israeliana ha assunto un carattere più violento e criminale, ma attraverso una dinamica lenta, che va sempre nella stessa direzione, quella di un dividendo legata a questa violenza, ma ammantato dal coraggio, l’intelligenza, l’astuzia, la potenza tecnologica e militare. Oltre al fatto che il trittico “guerra, denaro, colonizzazione”, alimentato da una menzogna, è fatale, necrotizza la società dall’interno, portando sistematicamente al fallimento delle rivendicazioni o delle speranze di cambiamento. Frammentata e conflittuale, la società israeliana è cementata da un patto diabolico.
Con l’organizzazione dello spazio e della società apportata dalla colonizzazione, i ghetti, i muri, i cancelli e i posti di blocco, non sono solo il paesaggio o il territorio, sia israeliano che palestinese, ad essere stati ridotti a pezzi, ma anche la società, lacerata in comunità, gruppi di interesse, identità ripiegate su se stesse. Alla frammentazione territoriale corrispondono norme frammentate, come i privilegi o le deroghe concesse alle colonie, o le numerose leggi speciali, amministrative o di sicurezza, applicate ai territori occupati. Oltre alla soffocante restrizione degli spazi palestinesi che ha finito per produrre una miriade di colonie. Una volta eretta la colonizzazione a risorsa essenziale dell’economia, con un forte incremento per la maggior parte delle attività, la frammentazione ha finito per essere occultata, ma non sul campo. Un tempo terra aperta tra la grande Siria e l’Egitto, Israele e Palestina sono oggi costituite da frammenti di spazi confinati e improvvisati, sotto molti aspetti degli strani ghetti. Aberrazioni accompagnate da mentalità, idee, emozioni e giustificazioni a loro misura.
Il genocidio a Gaza e la pratica della “caccia all’uomo” in Cisgiordania si inseriscono in un sistema politico fortemente indebolito, che ha perso la sua legittimità, e in una società frammentata in comunità con interessi sempre più divergenti. Una caccia mortale che è allo stesso tempo un metodo di controllo, una strategia militare, uno strumento politico e un fattore di coesione sociale. Il suo corollario è l’esperienza della lacerazione, che si ritrova nella maggior parte delle vittime delle cacce israeliane e che alimenta anche il profondo sentimento di amarezza e dolore, la grande solitudine degli israeliani.
Si può dire che Israele abbia interiorizzato in modo paranoico le esperienze di persecuzione e ghettizzazione subite metodicamente e drammaticamente dagli ebrei nel corso della storia, trasponendole in modo coloniale e finendo per trasformarle in un’ossessione patogena, che la minaccia, a sua volta. Alcune psicosi, quando raggiungono livelli elevati, sono difficili o impossibili da curare. Ma ciò che vale per gli individui non vale necessariamente per una società: fattori esterni, casualità o catastrofi possono modificare il corso delle nazioni. Lo si è già visto in passato.
1Oren Ziv, “In a single week, a new settler outpost erases an entire Palestinian community”, +972, 26 maggio 2025.
2La zona di tiro 918 comprende 12 dei 20 villaggi di Masafer Yatta. Israele l’ha dichiarata zona militare chiusa nei primi anni ‘80 per poter sfollare con la forza i suoi residenti palestinesi [Ndr].