
Dalla guerra del giugno 1967, la storia del Medio Oriente è stata caratterizzata dalla superiorità militare dell’unico attore regionale non arabo, Israele. Una superiorità che, unita alle ambizioni coloniali e territoriali, ha assegnato a Tel Aviv un ruolo di primo piano, senza però riuscire a modificare da sola l’equilibrio di forze, anche dopo gli accordi di pace con l’Egitto (1979) e la Giordania (1994).
Nella penisola arabica, Israele resta però politicamente poca rilevante. Anche gli accordi di Abramo (2020), che hanno portato alla normalizzazione delle relazioni tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Marocco e, in misura minore, il Sudan, non sono riusciti a inserirlo nelle dinamiche regionali con un impatto strategico reale. Lo dimostrano i tentativi della maggior parte degli Stati del Golfo di avvicinarsi all’Iran e la riconciliazione tra quest’ultimo e l’Arabia Saudita.
L’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 contro Israele ha sancito però un cambiamento della posizione israeliana nello scenario politico regionale. Un cambiamento dovuto alla capacità di Israele di proiettare la propria strapotenza per imporre la sua autonomia strategica, non solo nel Levante ma anche su entrambi i confini, arabo e iraniano, delle rotte marittime del Golfo. L’ultimo attacco di Israele contro l’Iran, iniziato il 13 giugno 2025, è il punto d’arrivo della sua superiorità strategica nella regione, sostenuta dagli Stati Uniti. Tutto questo determina conseguenze evidenti per l’equilibrio regionale, in particolare per l’Arabia Saudita e le sue mire ad una posizione di leadership nella regione.
La svolta siriana
L’Arabia Saudita ha acquisito un ruolo regionale preponderante dopo la fine dell’Egitto di Nasser nel 1970. Nonostante la comparsa di occasionali “challengers” arabi, come la Libia di Muammar Gheddafi o l’Iraq di Saddam Hussein, la posizione dominante del regno saudita nel mondo arabo sunnita, forte del suo potere finanziario basato sul petrolio e il soft power religioso, non è stata mai realmente in discussione. Un ruolo messo a dura prova dopo le rivoluzioni arabe del 2011, quando l’Iran è riuscito ad estendere la propria influenza su quattro capitali regionali – Beirut, Damasco, Sana’a e Baghdad – mentre il Qatar e la Turchia le contendevano, ma senza successo, la sua influenza nella regione. La debolezza militare dell’Arabia Saudita è emersa chiaramente soprattutto con l’intervento militare nello Yemen (2015) e l’incapacità di fermare l’avanzata degli Houthi dalla capitale yemenita, Sana’a.
L’8 dicembre 2024, con la caduta del regime di Bashar al-Assad e la presa del potere da parte dei ribelli sunniti in Siria, Riyadh ha trovato un nuovo alleato in Damasco, rafforzando la propria influenza, questa volta ai danni dell’Iran. Come avvenuto nel 1967, quando approfittò del colpo inferto da Israele all’Egitto e alla Siria, la sua nuova posizione è, invece, il risultato indiretto delle operazioni militari israeliane. Oggi però Israele non si accontenta più di avere un’influenza sporadica sull’architettura securitaria della regione, ma vuole dettare le condizioni come unica potenza egemone nella regione, grazie alla sua incontrastata forza militare e tecnologica. Un esempio lampante di questa strategia è l’attacco contro l’Iran. Un’egemonia destinata però a minacciare la governance economica degli Stati del Golfo, oltre ai tentativi di integrazione regionale dell’Iran1.
Negli ultimi anni, l’Arabia Saudita ha tentato un primo approccio con Israele, denunciando con fermezza le sue azioni nella regione, critiche che sono state accentuate dopo il 7 ottobre 2023. L’Arabia Saudita è a capo anche del gruppo di contatto arabo-islamico su Gaza incaricato, con un vertice straordinario della Lega araba e dell’Organizzazione della cooperazione islamica (OCI), di dialogare con le parti internazionali interessate a mettere fine alla guerra2. Riyadh ha inoltre guidato gli sforzi arabi per proporre nel marzo 2025 una contro-iniziativa di ricostruzione del territorio palestinese – finanziata dagli Stati del Golfo – come soluzione alternativa al piano del presidente americano Donald Trump di trasformare la Striscia di Gaza nella “Riviera del Medio Oriente”, un progetto che comporterebbe la pulizia etnica della popolazione di Gaza.
Influenzare l’amministrazione americana
La più grande vittoria politica di Riyadh nei confronti di Israele è stata senza dubbio quella del 13 maggio 2025, quando il principe ereditario Mohammed bin Salman (MbS) è riuscito a convincere Donald Trump a revocare le sanzioni imposte alla Siria. Così facendo, con un sapiente uso della sua leva economica e dei suoi investimenti, l’Arabia Saudita è riuscita, per la prima volta, a influenzare l’amministrazione americana a modificare un pilastro della sua politica regionale, andando contro gli interessi di Israele. È proprio questo ciò che manca a Israele nelle sue relazioni con gli Stati Uniti, il fatto che rimangano in gran parte a senso unico, anche se è una dinamica che va avanti.
L’Arabia Saudita ha ben chiaro che la stabilità e la pace nella regione sono fondamentali per poter raggiungere gli obiettivi del suo piano Vision 2030, ossia attrarre investimenti su larga scala facendo del regno un hub per progetti di collegamento inter e intra-regionali come il Corridoio Economico India-Medio Oriente-Europa (IMEC - India-Middle East-Europe Economic Corridor)3. Un piano logistico che ha portato l’Arabia Saudita ad adottare un approccio “zero problemi”4 con tutti gli attori della regione, da cui il suo riavvicinamento al Qatar, alla Turchia, all’Iran e la tregua con i ribelli Houthi nello Yemen.
Violazione della sovranità aerea del Qatar
L’attacco israeliano contro la Repubblica islamica ha innescato una serie di eventi che hanno portato al bombardamento da parte degli Stati Uniti, nella notte tra il 21 e il 22 giugno, degli impianti nucleari iraniani, seguito da simbolici lanci di missili, in risposta, contro una base americana in Qatar. Per il momento, lo scontro non è degenerato in una guerra regionale che avrebbe potuto portare al bombardamento delle infrastrutture petrolifere sia in Iran che nel Golfo, nonché a un possibile tentativo iraniano di bloccare il traffico marittimo nello Stretto di Hormuz5, un passaggio marittimo di fondamentale importanza strategica. Lo scontro ha portato però alla violazione da parte di Teheran della sovranità aerea di uno Stato del Golfo, il Qatar. Un episodio che può rischiare di vanificare gli sforzi dell’Arabia Saudita per raggiungere un riavvicinamento con l’Iran.
È vero però che il vantaggio politico che l’Arabia Saudita ha ottenuto con la caduta del regime di Bashar al-Assad e l’indebolimento dell’Iran, che sta cercando di sfruttare per raccogliere dividendi politici ed economici grazie alla pace e alla stabilità regionale, è stato messo a dura prova. Con il rischio di una ripresa delle ostilità tra Iran e Israele sempre all’orizzonte, l’ambiziosa strategia saudita di trasformare il regno in un hub di connessione e investimenti potrebbe essere di difficile realizzazione. Inoltre, il relativo indebolimento del regime iraniano potrebbe incoraggiare ulteriormente Israele a imporre la sua visione dell’ordine regionale in tutto il Medio Oriente. Un esempio l’abbiamo visto quando il ministro delle Finanze israeliano, Bezalel Smotrich, ha chiesto agli Stati arabi del Golfo e all’Europa di ripartire il costo delle spese militari contro l’Iran, dichiarazioni fortemente condannate dagli Emirati Arabi Uniti.
Inoltre, in caso di future tensioni con Israele, l’aviazione saudita, nonostante sia molto meglio equipaggiata e più professionale della sua controparte iraniana, rimane dipendente dagli Stati Uniti. E visto che Washington continua a sostenere l’ascesa di Israele come potenza egemone nella regione, l’Arabia Saudita dovrà diversificare le sue relazioni in materia di sicurezza. Dalla lezione degli esempi dell’Iran e dell’Ucraina, vediamo che il principale punto debole è stato proprio la mancanza di efficaci misure di deterrenza da parte loro.
Se da una parte l’Arabia Saudita si trova ad affrontare questa nuova realtà regionale, dall’altra dovrà anche rivedere il proprio approccio alla sicurezza, cercando nuovi partner in grado di assisterla nel settore della difesa, ma che siano anche in grado di aiutarla a raggiungere una strategia di deterrenza che sia almeno credibile.
Scelte destinate però a complicare inevitabilmente le relazioni tra Riyadh e Washington, mettendo i leader sauditi di fronte a un inedito dilemma strategico: se da un lato la minaccia sistemica contro il regno saudita si è ridotta, dall’altro la nuova potenza egemone regionale, Israele, non può essere considerato un vero partner.
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1“An unrestrained Israel is reshaping the Middle East”, The Economist, 26 marzo 2025.
2Il gruppo, istituito nel 2023 con l’obiettivo di promuovere iniziative internazionali a favore della Striscia di Gaza, comprende Giordania, Egitto, Qatar, Arabia Saudita, Nigeria, Indonesia, Palestina, Turchia e Segretari Generali di entrambe le organizzazioni.
3Il Corridoio Economico India-Medio Oriente-Europa è un piano logistico annunciato al vertice del G20 del 2023 a Nuova Delhi, che si propone di collegare l’India, il Medio Oriente e l’Europa attraverso ferrovie, linee di navigazione, oleodotti e cavi ad alta velocità.
4Andrew Hammond, “Why Saudi Arabia’s future now depends on ’zero problems with neighbours’”, Middle East Eye, 20 settembre 2024.
5Lo Stretto di Hormuz è uno stretto che divide la penisola arabica dalle coste dell’Iran, mettendo in comunicazione il Golfo di Oman a sud-est, con il Golfo Persico ad ovest [NdT].