Geopolitica

L’Arabia Saudita punta sulla Cina per garantire l’intesa con l’Iran

L’annuncio della riapertura delle relazioni saudite-iraniane, avvenuta a Pechino il 10 marzo 2023, ha avuto un’ampia eco. L’accordo va ad incidere sugli equilibri geopolitici che vedono contrapposte le due superpotenze, americana e cinese, in una regione dalle forti tensioni, e dove il negoziato sull’accordo sul nucleare con l’Iran è ancora in fase di stallo.

L'immagine mostra tre uomini che si trovano in un contesto formale e diplomatico, con bandiere dell'Iran, della Cina e dell'Arabia Saudita in background. I soggetti sembrano essere coinvolti in una discussione o in un incontro. L'atmosfera sembra prestigiosa e rappresenta un momento di incontro tra le nazioni.
Pechino, 6 aprile 2023. Da sinistra a destra i ministri degli Esteri iraniano, cinese e saudita Hossein Amir Abdollahian, Qin Gang e Faiçal Ben Farhan.
HO STR/Agenzia di stampa saudita/AFP

Molti esperti e specialisti della regione concordano sul fatto che la riapertura delle relazioni diplomatiche saudite-iraniane prevista per il 10 maggio 2023 non sia una vera sorpresa. In effetti, i colloqui tra Arabia Saudita e Iran erano iniziati già nell’aprile 2021 con la mediazione di Baghdad e con l’aiuto dell’Oman. In realtà, era stato il nuovo sultano Haitham bin Tarek, salito al trono nel gennaio 2020, ad avvicinarsi a Riyad, ma anche ad Abu Dhabi, a differenza del suo predecessore Qaboos bin Said, che aveva pessimi rapporti con i suoi vicini sauditi ed emiratini. Una dinamica che ha avuto un’accelerazione dopo l’incontro dei ministri degli Esteri saudita e iraniano a Pechino il 6 aprile per discutere i dettagli del ritorno degli ambasciatori e dei consoli, e con il comunicato stampa che assicura la loro determinazione a rimuovere qualsiasi ostacolo allo sviluppo delle loro relazioni.

La paura dei disordini

La mediazione di Pechino, invece, ha destato molta più sorpresa per lo scarso interesse della Cina ad avere un ruolo nelle questioni politiche e di sicurezza all’interno della regione. Tuttavia, dato lo stallo sull’accordo nucleare con l’Iran e l’impatto della guerra in Ucraina sull’inflazione dei prezzi alimentari ed energetici nella regione, solo Pechino potrebbe intervenire per sistemare un po’ le cose. Gli ottimi rapporti con tutti i principali attori regionali – Arabia Saudita e gli altri Stati membri del Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC), ma anche con l’Iraq, l’Iran, Israele e l’Egitto – danno alla Cina la possibilità di porsi come un responsabile interlocutore mondiale, promuovendo un accordo che mira ad allentare le tensioni e prevenire un conflitto aperto tra Israele e Iran. Il fallimento del presidente degli Stati Uniti Joe Biden nel rilanciare l’accordo sul nucleare (JCPoA) e frenare l’escalation tra Tel Aviv e Teheran aveva fatto temere il peggio a Riyad e Abu Dhabi.

Sin dal periodo post-pandemia, i due paesi hanno spinto Pechino a esercitare una maggiore influenza in quanto principale partner commerciale della regione. La normalizzazione con l’Iran, resa possibile dall’impegno di Pechino a far sì che le parti rispettino i principi di sovranità e non ingerenza negli affari interni, supplisce de facto alla perdita di influenza politica americana presso i leader del Golfo, nonché all’incapacità dei paesi della regione, a favore del dialogo saudita-iraniano, a concretizzare tale accordo. In tal senso, la Cina si è rivelata l’interlocutore ideale per garantire l’affidabilità di Teheran. Inoltre, come spiegato da Abdulaziz Sager, a capo del Gulf Research Center (Jedda)1, la piattaforma offerta da Pechino per promuovere questo accordo di normalizzazione rappresenta una nuova opportunità per Riyad, visto il fallimento di tutti i tentativi fatti con Washington da 45 anni per stabilizzare la regione.

Tutti i paesi della regione, ad esclusione di Israele, hanno accolto con un certo sollievo questa normalizzazione. È soprattutto l’impegno della Cina come potenza in grado di contribuire a elaborare misure per rafforzare la fiducia tra questi due Stati, suoi principali partner nella regione, che suscita le maggiori speranze tra le monarchie del Golfo. Riyad attende che Teheran agisca per facilitare una riappacificazione in Yemen, utilizzando tutto il suo peso per convincere gli Houthi a concludere una pace duratura ai confini del regno. Riyad spera anche che questa normalizzazione possa contribuire a riportare la calma tra le milizie sciite in Iraq e Hezbollah in Libano. Dal canto suo, la Repubblica islamica, contestata dal settembre 2022 da una mobilitazione popolare, prima caratterizzata dalla “rivolta delle donne” e più in generale dalle popolazioni delle regioni periferiche curde e del Belucistan, dove Riyad è accusata di appoggiare le regioni a maggioranza sunnita, si aspetta che il regno eviti di immischiarsi nei suoi affari interni, come lascerebbe intendere il sostegno finanziario saudita a un media d’opposizione iraniano a Londra. Gli strumenti a disposizione di Riyad, in un momento in cui la legittimità della Repubblica islamica non è mai stata tanto debole, sembrano aver avuto un peso nel convincere il regime iraniano, indebolito dentro e fuori i propri confini, a intavolare dei negoziati con il regno saudita.

Al centro delle trattative, la sicurezza

La decisione di attivare l’accordo di sicurezza firmato il 17 aprile 2001, ma mai attuato, è un segno di questo mutato scenario. Sono stati i due più alti funzionari della sicurezza nazionale che hanno guidato le delegazioni dei due paesi per i quattro giorni che hanno preceduto la firma dell’accordo: Musaid Al Aiban, consigliere per la sicurezza nazionale del regno, e Ali Shamkhani, segretario della Suprema sicurezza nazionale Consiglio della Repubblica islamica, sotto gli auspici di Wang Yi, ex ministro degli Esteri cinese (marzo 2013-dicembre 2022).

Da parte di Washington, l’accordo suscita un evidente disagio visto il suo scetticismo sulla capacità di Pechino di svolgere il ruolo che Riyad si aspetta, ossia quello di imporre a Teheran il rispetto dei suoi impegni. Tutti i think tank americani condividono un tale scetticismo. Ma il successo diplomatico della Cina ha provocato una reazione americana non certo insignificante, anche se è passata sotto silenzio. Il 14 marzo, infatti, pochi giorni dopo la pubblicazione del comunicato stampa saudita-iraniano-cinese, il Senato ha finalmente confermato la nomina di Michael Ratney (arabista e conoscitore del Golfo e del Levante) come nuovo ambasciatore a Riyad. Ratney era già stato nominato un anno prima, nell’aprile 2022, malgrado la carica di ambasciatore fosse vacante dal mese di gennaio 2021.

Yasmine Farouk, ricercatrice presso Carnegie Endowment for International Peace di Washington, reputa2, invece, che l’accordo sotto l’egida cinese non si riduca per l’Arabia saudita soltanto a controbilanciare la presenza americana. L’accordo riflette anche la preferenza per l’approccio di Pechino, che privilegia il principio delle modalità di negoziazione per la risoluzione dei conflitti tra due Stati piuttosto che proporre un sistema di sicurezza globale alternativa. Pertanto, Pechino avrebbe convinto Riyad ad accettare di riallacciare i rapporti con Teheran senza imporre a Teheran alcuna precondizione in merito al ritiro del sostegno agli Houthi. A riguardo, sono alquanto insolite le dichiarazioni del portavoce iraniano del ministero degli Esteri, Nasser Kanani (30 marzo) circa la volontà dell’Iran di fare il possibile per raggiungere una pace giusta nello Yemen. Ma l’Iran sarà in grado di costringere i suoi alleati a rispettare l’accordo tripartito? Anche gli alleati hanno una loro agenda, come dimostrano le reazioni negative di alcune milizie irachene vicine all’Iran o quelle degli Houthi, che hanno sempre mostrato la loro indipendenza nei confronti di Teheran. D’altra parte, lo storico alleato, Hezbollah libanese, attraverso il suo segretario generale Hassan Nasrallah, ha accolto in maniera estremamente positiva l’accordo, annunciando che avrà effetti immediati in Libano e Yemen.

Una ripresa dei negoziati sul nucleare?

Da parte loro, l’Unione Europea (UE) e il Regno Unito hanno già espresso il loro interesse. Dopo la visita a Teheran del 3 marzo 2023 di Rafael Mariano Grossi, direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) – che ha consentito il ritorno degli osservatori dell’AIEA in tutti gli impianti nucleari del Paese –, potrebbero addirittura riprendere i negoziati sull’accordo sul nucleare. È quanto sembra indicare l’incontro a Oslo, il 21 marzo, tra Ali Bagheri Kani, il negoziatore iraniano sul dossier del nucleare e i tre direttori politici dei ministeri degli Esteri di Regno Unito, Francia e Germania, accompagnati da Enrique Mora, segretario generale aggiunto del Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE). L’assenza dell’inviato speciale americano per l’Iran Robert Malley conferma però l’imbarazzo americano.

Secondo il saggista saudita Abdulaziz Alghashian, acuto osservatore del riavvicinamento saudita-israeliano e che ha partecipato al vertice di Jeddah nel luglio 2022 – alla presenza del presidente Biden e di tutti i capi di stato del Consiglio di Cooperazione del Golfo arabo (CCG) Giordania, Iraq ed Egitto – Riyad era consapevole in questo caso che la normalizzazione con l’Iran era una condizione necessaria per una futura, ma graduale, normalizzazione con Israele. Di fronte allo stallo sul dossier nucleare, l’amministrazione Biden ha cercato di convincere Riyad a integrare gli Accordi di Abramo come i suoi vicini del Golfo (Emirati e Bahrein). L’assenza di una qualsiasi prospettiva a una soluzione della questione palestinese ha dissuaso Riyad dall’andare oltre un riavvicinamento informale che poteva essere sfruttato da Teheran per destabilizzare ulteriormente Riyad. Diversamente da Tel-Aviv che contava, invece, di normalizzare i rapporti con Riyad per costituire un fronte arabo-israeliano per contrastare l’Iran.

Mohamed Alsulaimi, direttore del think tank saudita Rassanah, insiste anche sui tanti temi su cui sauditi e iraniani hanno discusso durante i negoziati promossi da Baghdad e Muscat per due anni. Inoltre, il nuovo orientamento diplomatico saudita, che consiste nel privilegiare d’ora in poi la difesa dei propri interessi nazionali rispetto ai loro rapporti privilegiati con gli Stati Uniti, avrebbe potuto convincere Teheran a mostrare un diverso atteggiamento nei confronti di Riyad.

Certo, il ripristino delle relazioni saudite-iraniane si concretizza sulla base dell’accordo di sicurezza del 2001, ma il riferimento all’accordo commerciale del maggio 1998 nel comunicato stampa, all’indomani della dichiarazione del ministro del Commercio Mohamed Al-Jadaan sulla volontà di Riyad di investire e sviluppare i suoi legami commerciali con l’Iran riflettono il diverso approccio diplomatico che Riyad intende dare a questa normalizzazione. Mentre il principe ereditario Mohamed bin Salman (MbS) è riuscito a voltare pagina rispetto all’isolamento post-Khashoggi, l’azione diplomatica di Riyad s’inserisce ormai nel quadro di un prossimo mondo multipolare per proporsi come potenza media e lasciarsi alle spalle l’identità di potenza islamica. Con la promessa di futuri investimenti, Riyad scommette che le relazioni commerciali creeranno un legame con Teheran, facendo della dinamica economica l’elemento chiave per una normalizzazione duratura.

I sogni di MbS

Ed è proprio sulla dinamica economica che il principe ereditario punta per avviare un nuovo corso della sua linea diplomatica. Vuole costruirlo sulla base di una migliore integrazione regionale, investendo in infrastrutture, logistica, sicurezza alimentare, transizione energetica e tutto ciò che riguarda i beni comuni e la sicurezza umana.

MbS sembra aver imparato la lezione dalla sua disastrosa esperienza interventista in Yemen nel 2015 e dalla crisi che l’ha contrapposto al Qatar dal 2017 sulla scia del suo ex mentore, il presidente della Federazione degli Emirati Arabi Uniti, Mohamed bin Zayed (MbZ), da allora suo concorrente, e ora coltiva il sogno, come il suo vicino emiratino, di fare del regno un hub economico, tecnologico e turistico del Medio Oriente. Forte della sua Vision 2030, con lo slogan “Saudi First”, MbS punta a fare della monarchia saudita, visto il posto che occupa nel cuore della penisola arabica, l’hub logistica dell’Asia occidentale con l’aiuto della Cina e della nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative, BRI), tanto cara al presidente Xi Jinping. Per realizzarla è necessario prima di tutto mettere fine alla guerra in Yemen, evitando qualsiasi conflitto militare tra Israele e Iran.

Va intesa così la decisione di Riyad di entrare, come “partner di dialogo”, nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) guidata da Pechino e Mosca il 29 marzo o l’interesse manifestato nel maggio 2022 per aderire ai BRICS insieme a Egitto, Indonesia, Emirati Arabi Uniti, Senegal o Algeria. A livello regionale, questa dinamica si riflette nei molteplici partenariati multilaterali e nel processo di distensione con Turchia, Israele, Iran e Qatar. O ancora l’imminente normalizzazione con la Siria, che forse verrà annunciata prima del vertice della Lega degli Stati arabi che si terrà il 19 maggio a Riyad. Proprio come la Cina ha promosso la normalizzazione con l’Iran, la Russia agevolerebbe questo riavvicinamento facendo in modo che Damasco impedisca le esportazioni illegali di Captagon, la droga che sta invadendo il mercato saudita e quello dei suoi vicini del Golfo.

In tal modo, l’Arabia Saudita non intende schierarsi contro gli Stati Uniti. La monarchia saudita sta portando avanti con altrettanto slancio i suoi rapporti economici con le grandi aziende americane, al pari del contratto siglato il 14 marzo con Boeing per 37 miliardi di dollari (34 miliardi di euro), che vanno ad aggiungersi ai numerosi contratti nel settore degli armamenti stipulati con Washington dopo la visita del presidente Biden nel regno saudita (15-16 luglio 2022). Tutte le dichiarazioni ufficiali di Riyad, dopo la firma dell’accordo, mirano a rassicurare il partner americano, ribadendo la sua volontà di trovare un giusto equilibrio tra le due superpotenze con cui Riyad condivide interessi diversi, ma non incompatibili.

1Gli incontri con i ricercatori citati nell’articolo sono avvenuti durante i viaggi in Arabia saudita e nel Golfo