Testimonianza

La Nakba. Palestinesi, un ritorno al villaggio

75 anni fa, centinaia di migliaia di palestinesi furono espulsi dai loro villaggi e dalle loro città. Questo esilio forzato è stato chiamato “Nakba”, la Catastrofe. Grazie ad alcuni attivisti israeliani antisionisti, una famiglia palestinese è riuscita a tornare nel luogo in cui aveva vissuto uno dei suoi membri. Il racconto.

Casa nel villaggio palestinese in rovina di Lifta, alla periferia di Gerusalemme, 20 ottobre 2017.
Thomas Coex/AFP

Nell’aprile 2018, quando vivevamo ancora a Tel Aviv, un compagno palestinese del campo profughi di Dheisheh, a sud di Betlemme, si è rivolto a De-Colonizer1 con una richiesta: aiutare una famiglia palestinese a recarsi al villaggio di Ajjur2.

Si tratta del luogo dove è nato il padre della famiglia palestinese, espulso da Israele durante la Nakba nel 1948. Voleva far vedere alla sua famiglia, per la prima volta, la sua città natale. Abbiamo accettato volentieri e, con alcuni altri attivisti, abbiamo ospitato Mustafa Hajajra, le sue due figlie e i suoi tre figli sotto i 16 anni. Sono gli unici membri della famiglia che hanno avuto la possibilità di venire a causa delle severe restrizioni imposte da Israele all’ingresso dei palestinesi, indipendentemente dall’età anagrafica. Abbiamo realizzato dei cartelloni per esprimere il nostro sostegno al diritto al ritorno, ma per loro la cosa importante quel giorno era essere lì nel villaggio natale del vecchio Mustafa. Quando è sceso dall’auto che li stava trasportando, l’anziano è scoppiato in lacrime e gli ci sono voluti diversi minuti per riprendersi. Sua figlia ci ha detto che era da tanto che aspettava questo momento.

Il ritorno di Mustafa Hajajra nel suo villaggio natale.

La gran parte del villaggio si trova all’interno del Britannia Park, di proprietà del Keren Kayemeth LeIsrael o Fondo Nazionale Ebraico (KKL-JNF). Rimangono solo pochi edifici imponenti, costruiti e utilizzati dagli israeliani, ma come in altri villaggi palestinesi distrutti da Israele durante la Nakba. Ciò che resta e si può vedere pietre sparse delle vecchie case, vari alberi da frutto di antichi agrumeti e vigneti, pozzi e cortili diroccati. La quasi totale distruzione del villaggio e il lento scorrere del tempo hanno reso difficile per Mustafa identificare le varie zone del suo villaggio. È riuscito a riconoscere e si è ricordato della bella casa del sindaco (il Mokhtar), ancora ben conservata, diventata ora un’esotica location di nozze per gli israeliani. Le sue figlie hanno raccolto dei limoni e recuperato foglie di vite per preparare le antiche ricette di famiglia della Palestina che Israele ha distrutto.

Fang, attivista israeliana che ha fatto parte del viaggio.

I coloni si appropriano delle terre e persino del nome del villaggio

L’insediamento israeliano di Ajjur è costruito sul terreno dell’antico villaggio palestinese e conserva – o meglio se n’è appropriato – il suo nome. Quando siamo passati davanti alla sua enorme porta di ferro, così tipica delle città ebraiche coloniali rurali, uno dei suoi abitanti ci ha notato, sospettando subito che la nostra visita non promettesse nulla di buono. Si è avvicinato e i suoi timori sono stati confermati: erano palestinesi originari del luogo dove oggi vive, e con loro c’erano degli israeliani che li sostengono. Non l’ha presa bene, dal suo punto di vista, quel posto appartiene solo a lui e al “popolo ebraico”. E così, armato di una sbarra di ferro, si è avvicinato e ha cominciato a minacciarci ad alta voce. La nostra reazione, e soprattutto quella di mia moglie Eléonore, è stata quella di fargli capire che non avevamo paura né volevamo scappare.

Ho ripensato a questa spiacevole situazione quando, qualche settimana fa, ho visto le immagini scioccanti della polizia israeliana che aggrediva brutalmente, a colpi di manganello, i fedeli disarmati all’interno della moschea di al Aqsa, a Gerusalemme. Mi è tornato in mente anche l’ordine di Yitzhak Rabin, all’epoca ministro della Difesa, durante la prima Intifada, di “spezzare le mani e le gambe dei palestinesi”. Scrivo queste righe nel cuore di una nuova ondata di estrema violenza coloniale a seguito delle provocazioni dell’attuale governo israeliano.

Questo cartello è stato piantato dall’autorità territoriale israeliana davanti a una delle case del villaggio. Si legge: “Pericolo, l’ingresso in quest’area è vietato. Chiunque vi entri lo fa sotto la propria responsabilità e se ne assumerà le conseguenze”.

“Ricostruiremo le case distrutte”

In questo 75esimo anniversario della Nakba, è quindi importante capire il fondamento principale dell’impresa sionista: i palestinesi che, secondo il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich, non esistono, non appartengono alla “Terra di Israele” e la loro espulsione è quindi la realizzazione della visione nazionale ebraica. La Nakba viene realizzata attraverso mezzi violenti e questi, che siano la sbarra di ferro o le armi di una delle potenze militari più forti al mondo, ne sono il braccio armato necessario e sempre in atto. La creazione di insediamenti per soli ebrei, quella che viene chiamata colonizzazione, è la parte civile dell’impresa, che mette l’accento sull’altro aspetto centrale dello Stato ebraico: la stabilizzazione di un regime di apartheid che preserva e rafforza la supremazia ebraica su tutto il territorio della Palestina storica. Solo quando avverrà la liberazione da questo regime, sarà possibile raggiungere la libertà e l’uguaglianza per tutti gli abitanti del paese e per i profughi palestinesi.

Sui cartelli in inglese e arabo si legge: “Sosteniamo il diritto al ritorno”, “Bentornati a casa”.

Alla fine della visita della famiglia Hajajra nel villaggio di Ajjur, ho detto a Mustafa che il nostro desiderio era che tornassero nel loro villaggio. “Ma hanno distrutto le case”, mi ha risposto. “Le ricostruiremo”, ho detto. Ha sorriso ed è rimasto in silenzio. Proprio così, dovremo ricostruire questo paese quando non ci sarà più il sionismo.

1Eléonore Merza ed Eitan Bronstein hanno creato De-Colonizer, una Ong israeliana e un centro di ricerca alternativo e militante con sede a Tel Aviv. Eléonore Merza, antropologa, è specialista della società israeliana contemporanea, mentre Eitan Bronstein, antropologo e attivista anticolonialista israeliano, è il fondatore della Ong Zochrot. De-Colonizer è impegnata in un’opera di sensibilizzazione della società israeliana sulla sua storia coloniale e sulla difficile situazione del popolo palestinese, soprattutto attraverso un lavoro sulla memoria e la narrazione storica della Nakba.

2Ajjur era un villaggio palestinese abitato da oltre 3.700 abitanti nel 1945, situato a 24 chilometri a nord-ovest di Al Khalil. Si spopolò nel 1948 dopo diversi assalti militari da parte delle forze armate israeliane. Gli insiediamenti di Agur, Tzafririm, Givat Yeshayahu, Li-On e Tirosh furono costruiti sulle terre del villaggio [NdT].