Una marea di bandiere israeliane e arcobaleno converge ogni sabato sera su Tel Aviv e altre città, mentre il corteo avanza mostrando un enorme striscione con la Dichiarazione d’indipendenza del 1948. Queste immagini del movimento di protesta contro la riforma della giustizia del nuovo governo israeliano sono un motivo di speranza, ma anche di dubbi. Da un lato, la coalizione di estrema destra di Benjamin Netanyahu, che sembrava così solida, si trova indebolita da un movimento di protesta inatteso. Dall’altro, la scelta strategica del movimento di concentrarsi su un unico obiettivo ha polarizzato la protesta, raggiungendo un largo consenso, ma ignorando la questione della colonizzazione o dell’occupazione, a dispetto dell’urgenza vissuta dai palestinesi.
Democrazia ebraica e patriottismo
Tra “rassegnazione” e “sofferenza per una quotidianità segnata da disuguaglianze socio-economiche”: è così che Alon-Lee Green, condirettore dell’organizzazione socialista ed arabo-ebraica Standing Together, analizza la società, al tempo del ritorno al governo di Benjamin Netanyahu, in carica dallo scorso dicembre. A ciò si aggiunge lo stupore di vedere che i suprematisti ebrei del Partito Sionista Religioso (Tkuma) hanno occupato dei ruoli chiave all’interno del governo.
Insieme ad altre associazioni della società civile, oltre che con la base del movimento Crime Minister che dal 2019 denuncia l’incandidabilità di un premier sotto processo per accuse di corruzione, Standing Together ha lanciato il 7 gennaio 2023 la prima mobilitazione contro la nuova coalizione di governo. Riconoscibile dagli striscioni e dai manifesti di colore viola dove ci sono slogan in arabo e in ebraico, questa organizzazione spinge l’opposizione contro Netanyahu ad articolare la sua lotta con quella per la difesa dei diritti dei palestinesi, senza però sottovalutare la necessità di riforme sociali per contrastare la povertà.
In piazza, le poche bandiere palestinesi non possono rivaleggiare di certo con i cartelli israeliani, ma bastano a dividere i partecipanti, così come la linea politica dichiarata che associa la questione democratica alla fine dell’occupazione e alla capacità di fare di Israele una “casa per tutti”. Per l’opposizione ebraica e sionista, nata dal Partito laburista o sostenitrice dei leader Benny Gantz e Yaïr Lapid, la priorità è quella di “salvaguardare la democrazia”. “Non è questo il luogo per argomenti da puristi”, ha twittato l’ex deputata laburista Stav Shaffir. Insieme formano un nuovo coordinamento per far sì che la mobilitazione sia incentrata sul “colpo di mano giudiziario”.
Le manifestazioni sono diventate sempre più imponenti, con punte di 300.000 israeliani. La protesta è andata ben oltre il contesto limitato di Tel Aviv, coinvolgendo decine di città, comprese le roccaforti del Likud come Ashdod o Netanya, nonché insediamenti come Efrat. Al contrario, è la presenza palestinese che è gradualmente scomparsa. Per Alon-Lee Green, c’è una spiegazione logica: “I palestinesi in Israele sono a disagio all’idea di protestare sotto i colori di uno Stato da cui non si sentono rappresentati”. E aggiunge anche “il sentimento verso questa bandiera”, quella “che li discrimina, che distrugge le loro case, che impedisce loro di raggiungere la piena e completa uguaglianza, che occupa le loro famiglie nei territori occupati e impone il blocco a quelli di Gaza”. Tanto più che l’azione del governo non si limita a un solo fronte. Nel frattempo, stanno aumentando le leggi radicali ed estremiste, destinate a colpire soprattutto i palestinesi.
In risposta, gli attivisti anti-occupazione a Tel Aviv hanno formato il Gush Neged HaKibush (o “blocco contro l’occupazione”), che riunisce da poche decine a diverse migliaia di persone, principalmente della sinistra radicale non sionista o di organizzazioni per la difesa dei diritti dei palestinesi. Le reazioni dei manifestanti variano di fronte agli slogan di questi gruppi che prendono di mira l’ipocrisia dei cortei in difesa di una democrazia che ha legittimato e messo in atto tutti i meccanismi che regolamentano il regime di apartheid imposto ai palestinesi, indipendentemente dal luogo di residenza. Se a Gerusalemme alcune fonti hanno riportato attacchi contro gli attivisti che hanno esposto bandiere palestinesi, i manifestanti a Tel Aviv si sono limitati per lo più a ignorare il blocco.
Sincera empatia o colpevole vergogna?
L’attacco nel villaggio palestinese di Huwara da parte di diverse centinaia di [coloni-5696] domenica 29 gennaio 2023, e soprattutto la dichiarazione successiva del ministro Bezalel Smotrich che li invitava a “radere al suolo Huwara”, è stato uno shock in Israele. Tanto più che, contemporaneamente, il ministro Itamar Ben Gvir, responsabile della sicurezza interna, invitava la polizia a reprimere la protesta. Così, durante le manifestazioni di febbraio i cortei sono stati ancora più numerosi, ma c’è stato anche da un aumento della violenza contro i partecipanti quando hanno tentato operazioni di contestazione verso la Knesset o la residenza del premier Netanyahu.
Se la repressione è rimasta ben al di sotto rispetto a quanto avviene in Cisgiordania, alcune modalità finora riservate ai palestinesi, come il lancio di granate assordanti in mezzo a una folla compatta e senza tener conto dei partecipanti presenti, sono diventate la norma. È in questo contesto che la folla ha reagito con canti e cartelli rivolti alle forze di polizia: “Dov’eravate a Huwara?”.
Per l’attivista e giornalista israeliano di +972mag Haggai Matar, si tratta di uno slogan che può avere un doppio significato. In un certo senso, i manifestanti “sono consapevoli che la destra stia incoraggiando la violenza contro di loro e contro i palestinesi, anche se fa parte di un progetto più ampio come l’apartheid”, spiega. Secondo tale interpretazione, il movimento potrebbe arrivare in maniera automatica a includere la questione dell’occupazione. Tuttavia, lo slogan è diventato la norma solo quando ci sono state le prime violenze contro i manifestanti ebrei israeliani. In altre parole, prosegue Matar, l’altro significato potrebbe essere: “Non fate a noi ciò che non avete fatto ai coloni di Huwara”. Di conseguenza, secondo il giornalista, “la sofferenza palestinese non viene presa in considerazione, ma utilizzata come mezzo per alimentare un conflitto interno tra ebrei”.
L’attacco a Huwara ha accentuato ancora di più la divisione tra le élite economiche. In maniera un po’ schematica, Israele si regge su due grandi borghesie: la prima raggruppa le imprese che operano nel campo delle nuove tecnologie, il complesso militare industriale e l’establishment “liberal”, mentre la seconda è intenta a portare avanti la politica di colonizzazione. Naturalmente, i confini tra queste due borghesie non sono così netti, ma la prima tiene molto all’immagine internazionale di Israele per la sua dipendenza dagli scambi economici. Così, tra i molti eccessi dei ministri razzisti di un governo che attacca le istituzioni della democrazia ebraica, e l’indignazione internazionale suscitata dalle immagini di Huwara, l’élite economica e militare ha scelto di essere in prima fila nella mobilitazione di protesta per proporre un’immagine diversa di Israele, in apparenza legata alla difesa delle libertà.
Il politologo israeliano Yoav Shemer-Kunz vede però in questo un motivo di soddisfazione: “Finalmente, le maschere stanno cadendo”, Ben Gvir e Smotrich incarnano un’immagine di Israele che gli ebrei liberali cercano di nascondere o minimizzare. Secondo Shemer-Kunz, c’è il rischio che si formi un nuovo governo di unità nazionale intorno a figure dell’opposizione a Netanyahu e che si ritorni allo status quo per le sorti dei palestinesi, ma con “una società israeliana rassicurata sulle sue pretese democratiche”. Resta il fatto che Huwara sembra aver accelerato la consapevolezza da parte del movimento di protesta che la rigorosa difesa della democrazia non basta, soprattutto quando milioni di persone vivono sotto il giogo di questo Stato. Haggai Matar osserva che “la riflessione si sta sviluppando di settimana in settimana, e le rivendicazioni cominciano ad andare ben oltre con la richiesta di una vera e profonda democrazia”. Sui social o nei cortei, c’è un continuo dibattito attorno al concetto stesso di democrazia, domande che “quasi mai sono state poste con tanta risonanza in Israele”, prosegue Matar.
Dopo l’annuncio da parte di Netanyahu del licenziamento del ministro della Difesa Yoav Gallant che aveva pubblicamente chiesto la sospensione della riforma della giustizia, migliaia di israeliani sono scesi in piazza per protestare. Altri hanno bloccato l’autostrada principale da Ayalon a Tel Aviv, intonando, tra i vari slogan: “Se non ci sarà uguaglianza, bloccheremo Ayalon, siete cascati sulla generazione sbagliata!”. Un chiaro segno che il movimento sta già andando oltre la semplice denuncia del colpo di mano di governo.
Con o senza i palestinesi?
Dai nazionalisti Gantz e Avigdor Lieberman al liberale Yaïr Lapid passando per il laburista Merav Michaeli, tutti sperano di restare figure di riferimento dell’opposizione al governo Netanayhu. Ma, dalle immagini dei loro incontri sembrano meno attendibili rispetto al fatto di rappresentare solo una piccola parte della società israeliana. Infatti, il leader della sinistra non sionista, il deputato palestinese Ayman Odeh, pur essendo parte integrante del movimento di protesta, resta persona non grata. Agendo così, l’opposizione rischia di alimentare il proprio fallimento, spiega Alon-Lee Green, perché “convinta di poter sostituire la destra al potere senza la collaborazione dei palestinesi”.
A ciò si aggiunge la difficoltà per questi leader del movimento di includere nella mobilitazione le comunità ebraiche orientali oltre a quelle religiose. All’interno della protesta, Alon-Lee Green indica l’errore ricorrente di presentare il mondo religioso come una minaccia “in nome della difesa di uno Stato laico”, o di dimenticare che i più precari, come gli orientali o i falasha1, che faticano a sentirsi rappresentati da questi leader.
Eppure, con la sua diffusione nel resto del paese, la protesta sembra andare oltre le divisioni etniche e sociali. Se a Tel-Aviv, centro nevralgico del movimento, quasi nessun palestinese prende la parola, non è così ad Haifa o a Beersheba. Lì, spiega Matar, più che altro si tratta di una questione di uguaglianza tra tutti i cittadini. Anche se, aggiunge, “stiamo parlando, in linea generale, degli ultimi interventi nelle manifestazioni più piccole del paese”. Matar non perde la speranza nel movimento, ma mette in guardia sul fatto che se la posizione rimane quella di “mantenere” i privilegi, “l’esito non può che essere infelice e disastroso”.
1I falascia sono un popolo di origine etiope e di religione ebraica. Sono noti anche col termine Beta Israel, che significa Casa Israele, ed è da loro preferito vista l’accezione negativa che la parola Falasha ha assunto in amarico, e che significa “esiliato” o “straniero”. [NdT].