Sgomento. Forse non c’è termine migliore per descrivere lo stato d’animo dei libanesi dopo i lunghi minuti durante i quali hanno cercato di capire cosa stesse accadendo sotto i loro occhi il 17 settembre 2024.
Nel giro di pochi minuti, sono esplosi migliaia di cercapersone, dispositivi esplosivi che, secondo alcune piste, sarebbero stati prodotti da qualche società registrata in Ungheria o Bulgaria per conto della taiwanese Gold Apollo. Gli attacchi però non sono finiti lì: non appena la popolazione si è accorta di quello che stava succedendo, ci sono state altre esplosioni a 24 ore esatte di distanza, questa volta con walkie-talkie esplosivi. Infine, c’è stato un terzo attacco, dopo che lo storico leader e segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, aveva definito l’esplosione dei cercapersone “un colpo molto duro, un attacco senza precedenti [...] Israele ha superato tutte le linee rosse e ha violato tutte le leggi. Le esplosioni sono avvenute in luoghi in cui c’erano anche civili feriti”. Gli ultimi bombardamenti hanno, infatti, preso di mira due edifici residenziali di otto e cinque piani, con l’obiettivo di colpire il luogo sotterraneo dove si stava tenendo una riunione delle forze d’élite del partito libanese. Nell’attacco, hanno perso la vita Ibrahim Aqil, a capo delle forze speciali Radwan, unità militare di Hezbollah, e 16 membri dell’organizzazione, insieme a 61 civili, per la maggior parte donne e bambini.
L’offensiva ad intervalli è durata 72 ore. Secondo il bilancio provvisorio del ministero della Sanità libanese, l’attacco ha causato 90 morti – per lo più civili – e più di 3.200 feriti, la maggior parte dei quali gravi, senza contare i dispersi, in attesa delle analisi del DNA sui resti umani trovati tra le macerie degli edifici della periferia sud.
Esplosioni ovunque, anche negli ospedali
Un palese crimine di guerra, per usare un eufemismo. Di sicuro, terrorismo di Stato. Ovviamente, nel totale disprezzo di tutte le linee rosse e di ogni norma del diritto internazionale. Con questa offensiva, Israele ha creato un precedente, nella più totale impunità, per una “guerra di trappole esplosive”, visto che non c’è stata la minima sanzione o decisione in grado di proteggere i civili dopo la riunione d’urgenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, tenutasi venerdì 20 settembre 2024. Dopo il raid israeliano nel sud del Libano e alla periferia sud della capitale Beirut, la Francia ha convocato una nuova riunione per lunedì 23 settembre 2024.
Con l’offensiva, Israele ha causato, nel giro di pochi minuti, la morte di 5.000 libanesi, a giudicare dal numero stimato di trappole esplosive. Le vittime non si trovavano dietro le barricate o su un campo di battaglia: erano a casa, in famiglia, con i loro vicini, in ospedale, nei negozi, per strada o in auto... Tel Aviv ha voluto, però, far credere che appartenessero tutti a Hezbollah. Gli attacchi hanno colpito anche strutture civili, come gli ospedali, non risparmiando medici e infermieri che lavoravano nelle strutture. Un cercapersone è esploso anche nell’ospedale Hôtel-Dieu de France a Beirut.
Sui social, stanno girando delle immagini acquisite dalle telecamere di sorveglianza private e pubbliche, in cui si vedono persone che esplodono all’improvviso, urlando di terrore, ferite e stordite, senza capire cosa stia succedendo: corpi sventrati, mani amputate, occhi cavati e volti bruciati... In pochi minuti, le strade di Beirut, della valle di Beqa (ad est), del sud e persino del nord (distretto di Jbeil, Batrun)1 sono state attraversate da decine e decine di ambulanze, che hanno fatto la spola tra i vari ospedali per trasportare i feriti.
“Ero in moto, lungo la strada che porta all’aeroporto, quando ho sentito il rumore di un’esplosione che proveniva dall’auto che era proprio davanti a me. La macchina è finita fuori strada, con un tamponamento a catena”. È la testimonianza di Nasser Hamdane, che gestisce un negozio di elettronica a Burj El Barajneh, un sobborgo a sud di Beirut. Nasser continua il suo racconto: “Non riuscivo a capire quello che stava succedendo. All’inizio ho pensato che si trattasse di un omicidio, così sono tornato indietro con la mia moto. Ma, alla prima rotonda, ho trovato un capannello di persone intorno a un’altra macchina con i vetri oscurati, che cercavano di tirare fuori un ferito”. Ex dipendente della polizia del Parlamento, Nasser ha chiamato uno dei suoi ex colleghi che gli ha riferito di altre esplosioni simili in tutte le regioni del Libano. “In quel momento, abbiamo capito che si trattava di un’offensiva israeliana”.
Un’ondata di terrore
All’inizio, nessuno riusciva a credere che ci fossero migliaia di feriti. Ma una volta superato lo shock iniziale, i social sono stati inondati da richieste di donazioni di sangue, scatenando quella che il presidente della sede locale del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) ha definito “la più grande campagna di donazione di sangue nella storia del Libano”.
Poi lo sgomento ha lasciato il posto a una profonda rabbia: “Ha idea di che cosa voglia dire mangiare un panino con un amico per strada, e poi, all’improvviso, un’esplosione gli strappa un braccio mentre il sangue le schizza in faccia?” chiede un giovane all’infermiere che sta cercando di applicare le bende per medicare le ferite. Ancora sotto shock, il giovane ferito è incredulo di fronte a “un tale crimine”. Poi, un minuto dopo, dice: “Non sarei affatto sorpreso se si venisse a scoprire che stati loro a far saltare in aria il porto di Beirut”. È un’idea che, nell’ultima settimana, continua a girare in rete, data l’entità dell’offensiva e lo stato di shock in cui si trova la popolazione tanto da ricordare il tragico episodio dello scoppio avvenuto il 4 agosto 2020.
Dima vive nella zona di Hadath, vicino a Wadi al-Jamous, nella periferia sud, dove ci sono stati i bombardamenti. Racconta: “Ho sentito come una forte scossa di terremoto sotto i piedi. La casa ha cominciato ad oscillare e poi è arrivata un’ondata di calore forte, infine un silenzio terribile”. Dima dice di aver capito subito quello stava succedendo “perché era dalla mattina che i droni presidiavano il cielo. Non mi aspettavo però che bombardassero interi edifici residenziali per uccidere qualcuno che era così lontano dal fronte! È il culmine del terrorismo!”. Dopo un attimo di silenzio, Dima riprende: “Certo, è quello che fanno da un anno a Gaza, ma vederlo in tv è una cosa, viverlo sulla propria pelle è un’altra”. Poche ore dopo, Dima ha impacchettato tutte le sue cose e quelle dei suoi figli per cercare rifugio in un villaggio isolato tra le montagne libanesi, come hanno fatto molti altri abitanti della periferia sud.
Il giorno dopo, le zone intorno ai bombardamenti ricordavano le distruzioni causate da Israele nella periferia sud di Beirut durante la guerra del luglio 2006. Un cumulo di macerie dov’era impossibile anche camminare. Le strade erano deserte, c’erano solo ambulanze e vigili del fuoco alla ricerca dei sopravvissuti o dei corpi delle vittime. Nel frattempo, i droni e gli aerei da ricognizione israeliani continuavano a sorvolare i cieli del Libano.
Tra voci e solidarietà
All’indomani degli attacchi, alla popolazione libanese sono arrivati numerosi messaggi per avvertirli di stare lontani da tutti i dispositivi di comunicazione, dai telefoni cellulari e dai pc portatili, perfino dalle batterie a energia solare molto diffuse in Libano per sopperire alla mancanza di elettricità e per il costo elevato dei generatori. “La prima cosa che ho fatto quando ho capito cosa quello che stava succedendo è stata scollegare Internet e staccare la spina da tutti gli elettrodomestici”, dice Khaled Al-Baba, proprietario di un negozio di elettronica nel quartiere di Barbir.
D’altro canto però, come già avvenuto al momento dell’esplosione nel porto di Beirut, c’è stato un grande movimento di solidarietà che ha attraversato tutto il Libano per prestare i necessari soccorsi ai feriti e per attenuare l’impatto psicologico della catastrofe, anche da parte di politici di schieramenti avversi, che di solito sono in aperto contrasto.
È arrivata anche la solidarietà da parte della comunità sunnita, nel quartiere Tariq al-Jdideh a Beirut, non lontano dai campi profughi di Sabra e Chatila, nel distretto di Akkar o a Tripoli, nel nord. “Per quale motivo dovremmo stupirci di tanta solidarietà?”, chiede il proprietario di un caffè del quartiere, rispondendo alla domanda di alcuni suoi giovani clienti che si sono precipitati per donare il sangue. Poi continua: “Tariq al-Jdideh ha messo da parte le divergenze politiche con Hezbollah e il conflitto tra sunniti e sciiti, nel momento in cui il partito ha preso la decisione di aprire il fronte sud per sostenere Gaza”. Un altro abitante del quartiere aggiunge: “Quando si tratta di Israele, le differenze passano in secondo piano”.
Per una volta anche le istituzioni pubbliche sono state all’altezza della gravità della situazione, soprattutto il ministero della Sanità, che con un piano di emergenza ha consentito di prestare i soccorsi in tempi rapidi e in modo tempestivo, malgrado l’altissimo numero di feriti.
Una dipendente del ministero della Sanità, che ha chiesto di mantenere l’anonimato, fa notare che la maggior parte dei feriti ha riportato lesioni agli occhi: “Per fortuna, l’Iran, l’Iraq e la Siria si sono presi cura dei malati nelle loro strutture ospedaliere”. Non tutti gli Stati però hanno dimostrato la stessa solidarietà, soprattutto quelli che il Libano considerava amici, dove c’è stato un atteggiamento di indifferenza ostile, o addirittura di giubilo.
1Zone nel nord del paese a maggioranza cristiana. [Ndr].