Inchiesta

Marocco. Giornalisti spiati già prima di Pegasus

L’inchiesta di Forbidden Stories ha portato alla luce il crescente impiego dello spyware israeliano Pegasus per tenere sotto controllo la stampa indipendente in Marocco. Ma è da decenni che i giornalisti marocchini vengono sorvegliati e perseguitati grazie anche ai software forniti da aziende italiane e francesi.

L'immagine mostra un uomo anziano che tiene in alto un cartello. Sul cartello si possono vedere scritte in arabo e un'immagine di volti, che suggerisce un tema di protesta o di richiesta di giustizia. Sullo sfondo ci sono agenti di polizia in uniforme antisommossa, suggerendo che l'evento si svolge in un contesto di tensione. L'anziano sembra determinato mentre partecipa a questa manifestazione.
Rabat, 10 luglio 2021. Manifestazione per la liberazione di Suleiman Raissouni, direttore del quotidiano Akhbar al-Youm condannato a cinque anni di carcere
Fadel Senna/AFP

Nell’ottobre del 2019, Fouad Abdelmoumni scopre che il suo cellulare è in un elenco di 1.400 smartphone infettati dallo spyware Pegasus. La cosa non lo sorprende. “Credo di essere immune a questa costante sorveglianza perché sono cresciuto in clima simile”, racconta l’economista e attivista dei diritti umani, già arrestato e torturato due volte sotto il regno di Hassan II. Sa che ogni sua mossa è tenuta sotto controllo. Per questo, sapere quali sono le misure adottate contro di lui, “rappresenta già un passo avanti”. Con tono pacato, tiene a precisare: “Non è una cosa che mi sconvolga particolarmente. Avevo messo in conto di avere dei poliziotti davanti casa, che osservano chi va e chi viene, immaginavo anche che ci fossero intercettazioni o telecamere […], al limite in un paese in una fase di transizione, posso capirlo. Ma qui ci troviamo di fronte ad uno stato canaglia”.

I giornalisti marocchini raccontano molte storie di questo genere. Ogni loro spostamento è controllato fin nei minimi particolari. Omar Brouksy, collaboratore abituale di Orient XXI, ricorda una chiacchierata con il custode del suo stabile: “Abitavo in un appartamento. Subito dopo il mio arrivo all’AFP nel 2009, la polizia è venuta sotto casa mia per andare a parlare con il portiere”. Seguono le domande sulla sua vita privata: chi viene a trovarlo? Quando esce? Che cosa fa? Che impegni ha? “L’hanno minacciato nel caso in cui me l’avesse detto. Ma dal momento che era un amico, mi ha avvisato”.

Più di recente, a fine luglio 2021, il giornalista marocchino Hicham Mansouri, ex residente della Maison des journalistes (MDJ) e attuale caporedattore del sito l’Œil de la MDJ e membro della redazione di Orient XXI, è stato seguito da uomini in borghese sotto la metro di Parigi. “Avevo un appuntamento a Gambetta con due amici, uno era Maâti Monjib. Sono uscito dalla metro, ho preso la direzione opposta, poi ho ripreso la direzione giusta. Loro hanno continuato a seguirmi”. Pochi giorni dopo, Maâti Monjib si è recato a Montpellier e ha trovato le foto del suo viaggio pubblicate su un sito di fake news vicino al regime.

“La cosa più importante è la sicurezza delle fonti”

I giornalisti marocchini stanno facendo tutto il possibile per aggirare le varie forme di sorveglianza. “Parlo personalmente con tutte le mie fonti. Li incontro per strada, in giro, in un bar… non dico mai il luogo dove ci incontriamo. Al telefono è impensabile, sono troppo diffidente”, chiarisce Omar Brouksy. Anche Aboubakr Jamaï, fondatore dei settimanali marocchini Le Journal e Assahifa Al-Ousbouiya, usa questo genere di trucchi. Dopo aver pubblicato un’inchiesta nel 2000 sul coinvolgimento della sinistra marocchina nel colpo di stato del 1972 contro Hassan II, il giornalista viene a sapere da un alto funzionario che i servizi di intelligence sono a conoscenza della sua fonte ancor prima della pubblicazione.

Pochi mesi dopo, il redattore capo de Le Journal si muove con maggior cautela al momento della pubblicazione dell’inchiesta sulla vicenda Ben Barka, pubblicata con il quotidiano Le Monde. I due giornali forniscono la prova del coinvolgimento dei servizi segreti marocchini nella scomparsa del principale oppositore politico di Hassan II, Medhi Ben Barka, rapito il 29 ottobre 1965. Per farlo, Aboubakr Jamaï riesce a convincere l’ex agente segreto Ahmed Boukhari a testimoniare. “In tutta questa storia, la cosa più importante è stata la sicurezza della fonte. Abbiamo temuto per la sua vita. Abbiamo usato ogni trucco per sfuggire alla loro sorveglianza”, ricorda il giornalista.

La redazione non sapeva che saremmo usciti con il caso Ben Barka. Lo sapevano solo tre giornalisti. Per incontrarci, siamo andati giù in macchina nel mio garage. Abbiamo cambiato vettura e siamo andati via da un’altra uscita. Siamo stati molto attenti ed è motivo di grande orgoglio non aver fatto sapere ai servizi segreti della pubblicazione dell’indagine. È stata una vera e propria bomba. È raro che si diffondano informazioni senza che loro ne sappiano nulla.

Gli spyware italiani e francesi dal 2009

Pegasus non è che l’ultimo dispositivo utilizzato per mettere il bavaglio alla stampa indipendente e, in linea più generale, a tutta la società civile. Alcuni, come Maâti Monjib, Omar Radi, Fouad Abdelmoumni oppure Aboubakr Jamaï, hanno scoperto di essere stati spiati da Pegasus già nel 2019 dopo le rivelazioni del Citi en Lab dell’Università di Toronto. Altri, come ad esempio Taoufik Bouachrine, Suleiman Raissouni, Maria Moukrim, Hicham Mansouri, Ali Amar, Omar Brouksy sono stati informati nel luglio scorso dopo la pubblicazione del Progetto Pegasus. “I giornalisti e le giornaliste sanno di essere costantemente sorvegliati o intercettati”, spiega quest’ultimo, ex caporedattore de Le Journal e professore di Scienze Politiche in Marocco. “Ogni volta che parlo al telefono, so che c’è una terza persona insieme a noi”, conferma Aboubakr Jamaï. “È una cosa che va avanti da tempo”.

Non è la prima volta che il Marocco acquista questo genere di dispositivi, con la benedizione degli Stati che hanno poco riguardo per l’impiego che ne viene fatto. L’Italia ha permesso l’esportazione di vari software della società Hacking Team, che offrivano una sorveglianza analoga a quello che permette Pegasus oggi. Documenti interni hanno rivelato che il Regno del Marocco ha speso, per acquistarlo, più di tre milioni di euro grazie a due contratti stipulati nel 2009 e nel 2012. Anche lo stato francese, che non contratta per la prima volta con stati autoritari del Maghreb e del Medio Oriente, ha ritenuto che uno strumento di controllo di massa del web fosse in buone mani (quelle di Mohammed VI) in Marocco.

Anche la società Amesys/Nexa Technologies, di cui quattro dirigenti sono al momento inquisiti per “complicità in atti di tortura” in Egitto e Libia, ha venduto il suo software di deep package inspection denominato Eagle. In Marocco, il contratto, rivelato dal sito reflet.info, è soprannominato Popcorn, ammonta a 2,7 milioni di euro e vale due anni. Per gli Stati europei, questi contratti consentono anche di concludere accordi di collaborazione con i servizi segreti marocchini che beneficiano di questi dispositivi. Lo Stato marocchino è libero nell’impiego che ne fa, ma, in cambio, fornisce a Parigi informazioni sensibili, in particolare su questioni terroristiche come durante la caccia ad Abdelhamid Abaaoud, il terrorista belga di origine marocchina a capo del commando nell’attentato al Bataclan.

La continuità degli “anni di piombo ”.

Per Fouad Abdelmoumni, gli spyware Pegasus e Amesys rappresentano solo un modo più sofisticato rispetto a quelli di una volta come la linea telefonica sotto controllo o l’apertura della posta. Hassan II prima e suo figlio e successore Mohamed VI poi hanno sempre fatto ricorso al controllo di massa. “Il Marocco non è mai stato considerato una democrazia. Come in tutti i regimi autoritari, ogni persona considerata pericolosa viene tenuta sotto controllo”, continua Aboubakr Jamaï. Tuttavia, dopo tre decenni di repressione sotto il regno di Hassan II, a partire dagli anni ‘90 il re aveva avviato un’apertura democratica. Sono nati molti giornali indipendenti.

Quando Mohamed VI ha preso il posto di suo padre nel 1999, il nuovo re invece non ha smesso neanche una volta di attaccare la stampa e gli attivisti. “Se pubblicassi oggi le inchieste dell’epoca, rischierei la galera. D’altra parte, è per questo motivo che siamo stati messi al bando sotto Mohamed VI. Hassan II non ci ha mai proibito di scrivere per due anni”, precisa Aboubakr Jamaï. Oggi, numerosi giornalisti e osservatori della situazione in Marocco paragonano la politica repressiva di Mohamed VI a quella degli “anni di piombo” (1960-1990) del regno di Hassan II. Oggi le autorità ficcano il naso nella privacy degli oppositori.

Telecamere nascoste in casa

Quando il suo smartphone è stato infettato da Pegasus, Fouad Abdelmoumni, all’epoca segretario generale della filiale marocchina di Transparency International, si è rivolto alla Commissione nazionale per il controllo della protezione dei dati personali. Lì sono cominciate le minacce da parte di diversi media vicini al potere nel tentativo di farlo tacere. “Non appena intervenivo su Facebook o su un altro social su un episodio di repressione, c’erano subito articoli con conseguenti minacce”. Alla fine del mese, molti mezzi d’informazione filomonarchici lo hanno accusato di adulterio (reato punibile con la reclusione in Marocco) o addirittura di sfruttamento della prostituzione. ChoufTV ha messo in giro la voce che su WhatsApp circolasse un video porno. Anche altri siti hanno diffuso le accuse.

Nel febbraio 2020, poco prima del suo matrimonio, i parenti di Fouad Abdelmoumni, compresi i suoceri, hanno ricevuto su WhatsApp sette video, filmati a sua insaputa durante un rapporto sessuale con la sua nuova compagna. I video sono stati registrati con una microtelecamera nascosta nel condizionatore nella camera da letto della sua seconda casa nella periferia di Rabat. “C’erano due dispositivi, il primo nel soggiorno che non doveva essere abbastanza interessante. Poi ne avevano sistemato un secondo in camera da letto. Quindi sono riusciti ad entrare un’ultima volta per rimuovere ciò che avevano installato”.

Nel caso di Hajar Raissouni all’opposto non c’è stata la sorveglianza di Pegasus, ma la giornalista di Akhbar Al Yaoum è stata arrestata il 31 agosto 2019, mentre usciva da una visita presso lo studio del suo ginecologo. C’erano le telecamere di ChoufTV ad immortalarne l’arresto. “Ogni volta che c’è un omicidio o un caso che fa scalpore, ChoufTV viene informata direttamente dalla polizia e così ha la notizia in esclusiva. Un mio amico ha trovato un ottimo parallelismo per ChoufTV: è come se InfoWars1 fosse un reparto dell’FBI e gli Stati Uniti una dittatura”. La giornalista è stata accusata insieme al suo compagno di “dissolutezza” (rapporti sessuali al di fuori del matrimonio) e “aborto illegale”. Nonostante la mancanza di prove, la coppia è stata condannata a un anno di carcere e il ginecologo a due.

Un anno prima, il 23 febbraio 2018, una quarantina d’agenti di polizia hanno fatto irruzione nella sede di Akhbar al-Youm per arrestare il suo caporedattore Taoufik Bouachrine. L’editore e giornalista è accusato, con prove documentate da video, di molestie sessuali commesse su due giornaliste. Sulla base di tali accuse, l’organizzazione Reporter Senza Frontiere (RSF) si è astenuta dal commentare il caso fino al giorno della sentenza, otto mesi dopo, per evidenziare alla fine un “verdetto viziato dal dubbio”. Il giornalista sta scontando una pena di 15 anni di carcere per “tratta di esseri umani”, “abuso di potere per scopi sessuali” e “stupro e tentato stupro”. Se il processo è stato criticato per la mancanza di elementi attestanti i fatti – le due querelanti si sono ritirate nel corso del processo – il nome di Taoufik Bouachrine è riemerso la scorsa estate nella lista dei 50.000 numeri di telefono presenti nel database di Pegasus.

Suleiman Raissouni, caporedattore di Akhbar al-Youm è stato arrestato in casa sua il 22 maggio 2020 dopo che una testimonianza di un attivista per i diritti LGBTQ+ l’aveva accusato su Facebook di aggressione sessuale nel 2018. Per aver preso posizione a favore del giornalista, RSF è stata accusata di aver negato la testimonianza della vittima, segno delle difficoltà di affrontare questo tipo di accuse. “Stanno muovendo tali accuse [di aggressione sessuale] per non dar loro la possibilità di avere lo status di prigioniero politico. La questione delle aggressioni sessuali è estremamente delicata”, secondo Omar Brouksy.

Nel marzo 2015, Hicham Mansouri viene convocato in tribunale mentre si trova ancora in Marocco. Dopo l’irruzione nel suo appartamento, gli agenti di polizia preparano un dossier con l’accusa di sfruttamento della prostituzione e adulterio. Un gruppo di vicini nega ogni accusa, ma la loro testimonianza non vienenaccolta. Durante il processo viene presentato un documento: è la testimonianza del custode dello stabile che lo accusa di ogni nefandezza.

Viene convocato dal giudice. In Marocco i custodi, i lustrascarpe, i venditori di sigarette, tutti questi lavoratori informali collaborano con la polizia, perché sono deboli e perché temono ripercussioni. Così, quando l’ho visto in tribunale, mi sono detto: “Ecco, è lui quello che mi inchioderà!”. Ma, in realtà, non è andata così. Il giudice gli ha chiesto:

La polizia l’ha interrogata e questa è la dichiarazione che lei ha dato.
No, vostro onore, è esattamente il contrario di ciò che ho detto! Non ho visto nulla. Non è un criminale, è un bravo ragazzo.
Ma non è la sua firma questa?
Sì, ma io non so né leggere né scrivere.

Al termine di un processo kafkiano, contro Hicham Mansouri verrà mossa solo l’accusa di adulterio. Quando è uscito dal carcere nel gennaio 2016, lo attendeva un nuovo processo per “attentato alla sicurezza dello Stato”. Ora rischia fino a 5 anni in tribunale e 25 se finisce davanti ad un giudice dell’antiterrorismo. “L’obiettivo principale [di questi processi] ancor prima di mettere in ginocchio le singole individualità, è quello di terrorizzare l’intera élite e la società civile del Paese”, secondo l’analisi di Fouad Abdelmoumni. Il fatto che tutti questi giornalisti siano stati sorvegliati consente di mettere in discussione l’imparzialità della giustizia marocchina nel trattamento di quest’ultime accuse.

Un prezzo estremamente alto da pagare

Pesanti accuse che non riguardano solo la loro sfera sessuale: Maâti Monjib è accusato di “riciclaggio di denaro”, Ali Anouzla d’“apologia di terrorismo”, Hamid el Mahdaoui per “omessa denuncia di un tentativo di attentare alla sicurezza interna dello Stato”. Nonostante un parte introduttiva molto prolissa sui diritti umani, la Costituzione del 2011 e le sue leggi non garantiscono l’indipendenza del sistema giudiziario. Il re Mohamed VI presiede e nomina alcuni membri del Consiglio Superiore della Magistratura (CSPJ) incaricati di eleggere i magistrati. L’articolo 68 della legge organica relativo al CSPJ gli concede anche un diritto di controllo sulle elezioni delle cariche. Per giunta, le sentenze sono pronunciate ai sensi dell’articolo 124 della Costituzione “in nome del re”. Un attacco alla separazione dei poteri, secondo l’avviso di Omar Brouksy. “Quando siamo perseguiti per aver attentato all’immagine del re, della monarchia, o quando critichiamo qualcuno vicino al potere, verremo giudicati da una persona nominata dal Re e la sentenza sarà pronunciato in nome di colui che ci ha attaccato”.

La revisione del Codice della stampa del 2016 ha abolito le pene detentive per tutti i reati di stampa. Un passo avanti di facciata, perché la dipendenza della giustizia nei confronti del potere permette alla monarchia di strumentalizzarla secondo i propri interessi. Il regime si basa principalmente su accuse di stupro, di aggressione sessuale o di attentato alla sicurezza dello Stato per mettere in galera i giornalisti.

Oltre ad attaccare chiunque, il regime marocchino cerca di “creare problemi ai giornalisti per scoraggiare le fonti”, o addirittura a trovarle, secondo Omar Brouksy. Così conclude Fouad Abdelmoumni:

Esiste una caratteristica specifica della repressione in Marocco: non vuole essere ignorata. Vuole essere riconosciuta e identificata chiaramente. Ma in modo che non possa avere un valore probatorio di fronte ad una “giustizia morbida”. Ciò che interessa loro non sono tanto le persone prese di mira, quanto le migliaia o decine di migliaia di altre persone che potrebbero essere incoraggiate ad agire o, al contrario, a pensare che il gioco non valga la candela. Visto che se ci s’impegna e ci si espone troppo, il prezzo da pagare può diventare molto alto.

1Un giornale online statunitense complottista e di estrema destra fondato da Alex Jones il 6 marzo 1999.