Detenuto dal 29 dicembre del 2020, nell’ambito di un’indagine preliminare per riciclaggio di denaro sporco, lo storico franco-marocchino Maâti Monjib è stato appena condannato, il 27 gennaio 2021, ad un anno di carcere sulla base di un nuovo dossier in cui vengono formulate a suo carico accuse di «attentato la sicurezza interna dello Stato», «frode» ed «altri reati» (accuse non specificate dalla sentenza). All’interno del dossier, risalente al 2015, compaiono anche sei giornalisti e attivisti accusati di mettere in pericolo la sicurezza interna dello Stato o di «appropriazione indebita», nonché di «altri reati».
I primi tre imputati, condannati ad una multa, sono in libertà provvisoria dal 2015; gli altri tre – tra cui anche l’autore di quest’articolo – dopo essere stati condannati ad un anno di reclusione, hanno lasciato il paese nel 2016 per trasferirsi in Olanda o in Francia.
Peccato però che i loro avvocati abbiano appreso la notizia delle condanne solo dal sito web del Ministero della Giustizia mahakim.ma Quando il giudice ha pronunciato la sentenza non erano presenti né gli imputati né i loro legali, dal momento che nessuno li aveva convocati. Tutto ciò è avvenuto mentre Maâti Monjib, detenuto nel carcere di El-Arjat vicino Rabat, si trovava, nello stesso momento, nella stessa aula del Tribunale di primo grado di Rabat per un’udienza, legata al suo arresto, relativa all’accusa di «riciclaggio di denaro sporco».
Il primo processo, quello per aver attentato alla sicurezza interna dello Stato, è stato rinviato dal 2015 una ventina di volte, senza che sia mai stato aperto. Un processo senza imputati, senza difesa e senza possibilità d’appello. Indignato per le modalità del processo, l’avvocato Abderrahim Jamaï, rappresentante legale di Maâti Monjib ed ex presidente dell’ordine degli avvocati, ha denunciato sul canale radio RFI la sentenza come ingiusta, oltre che un abuso di diritto. «Sono quasi cinque anni che veniamo in udienza e che il giudice fa rinviare il processo, nessuno poteva credere al fatto che fosse portata avanti una simile procedura illegale […]. Non è stato convocato, non è stato invitato a presentarsi, non è stato portato in udienza per potersi difendere. Come può un tribunale condannare qualcuno che è impossibilitato a difendersi?».
Alle voci di protesta e alle ONG che hanno criticato la legittimità del processo, si è incaricato di rispondere proprio il Consiglio superiore dell’Autorità giudiziaria (CSPJ), in un comunicato diffuso dall’agenzia di stampa ufficiale MAP, rigettando le accuse che «mirano in modo disonesto, a politicizzare un caso di giustizia ordinaria, oltre a inficiare il rispetto che si deve alla giustizia».
Per Mohamed Messaoudi, avvocato di Monjib, il comunicato stampa rappresenta «un vero e proprio attacco all’indipendenza della giustizia. Il Consiglio superiore dell’Autorità giudiziaria, presieduto dal re, annovera tra i suoi membri il presidente della Corte di Cassazione (Corte suprema) e il procuratore generale del re presso la Corte di Cassazione. Quest’ultima rappresenta l’ultimo possibile ricorso in appello per l’imputato». È dello stesso avviso anche Mohamed Zhari, ex presidente della Lega marocchina dei Diritti dell’Uomo (LMDH), che considera il comunicato non solo in contraddizione con la legge organica che lo regola, ma conferma anche «il carattere prettamente politico dei due processi a carico di Monjib».
Un accanimento decennale
Professore e ricercatore presso l’università Mohammed V di Rabat, membro fondatore del Consiglio di supporto del Movimento 20 febbraio, scrittore e giornalista, Maâti Monjib scrive e parla correntemente arabo, francese e inglese. È difficile quindi ricostruire l’affaire Monjib dal momento che l’uomo, instancabile, è sempre attivo su più fronti.
E dopo essere stato esiliato sotto il regno di Hassan II, Maâti Monjib ha deciso, dopo molti anni d’insegnamento negli Stati Uniti e in Senegal, di rientrare in Marocco nel 2000, ossia un anno dopo l’ascesa al trono di Mohamed VI. Come molti, forse anche Monjib nutriva qualche speranza con l’arrivo del giovane re, soprattutto dopo la destituzione di Driss Basri, ministro degli Interni e uomo forte di Hassan II. Così ha deciso di contribuire al processo di democratizzazione del paese. Prima ha creato il Centro studi e comunicazione Ibn Rushd, dedicato soprattutto alla formazione dei giornalisti, poi ha presieduto Freedom Now (vietato fin dall’inizio dalle autorità) e cofondato l’Associazione marocchina per il giornalismo d’inchiesta (AMJI), lanciata nel 2009, anche se il riconoscimento giuridico dell’associazione è arrivato solo il 22 febbraio 2011, vale a dire due giorni dopo l’inizio del Movimento marocchino del 20 febbraio, nato sull’onda della Primavera araba.
Vedendo il nome dell’associazione, un agente della prefettura ha replicato seccamente ad uno dei cofondatori recatosi lì per presentare la richiesta: «Le inchieste qui le fa solo la polizia». L’AMJI organizzava dei corsi di formazione in giornalismo investigativo, assegnava premi e borse di studio per promuovere questo genere di giornalismo, oltre ad estendere la sua rete di sezioni regionali in tredici città. L’attività giornalistica ha però cominciato ben presto a dare fastidio: omicidi politici sotto il regno di Hassan II, corruzione, economia di rendita, un sistema economico predatorio, fino agli affari della famiglia reale. Tra i vincitori di queste borse di studi e premi, ci sono stati anche i due giornalisti Souleymane Raissouni et Omar Radi, oggi in carcere.
A questo punto però sono cominciati i divieti, il sequestro dei documenti, la violazione del sito web AMJI (i contenuti vengono sostituiti con materiale pornografico) fino a quando il Centro Rochd non è stato costretto a chiudere i battenti. Ne è seguita una lunga serie di attacchi, questa volta contro Monjib: le minacce, i pedinamenti in Marocco e all’estero, il divieto di lasciare il paese, due tentativi di rimuoverlo dal suo incarico di professore emerito e una lunghissima e violenta campagna di diffamazione che conta, secondo il suo Comitato di supporto, all’incirca 1500 articoli, a cui Monjib ha poi dedicato un libro collettivo.1
Dialogo proibito
Autore di un libro dal titolo La monarchia marocchina e la lotta per il potere, Monjib ha esaminato a fondo e in tre lingue – arabo, francese e inglese – le politiche del regime nei media marocchini e stranieri. Il suo impegno come attivista, unito alla sua competenza storica, gli ha permesso non solo di denunciare tempestivamente le ingiustizie, ma anche di svelarne gli aspetti nascosti. Ha previsto ad esempio che Abdelilah Benkirane non sarebbe stato riconfermato come capo del governo «perché è riuscito nell’impresa di stare a capo dell’opposizione pur restando capo del governo». Ha denunciato per di più «il regime poliziesco» dello Stato, così come le tre nuove strategie di repressione del regime di Mohamed VI: sesso, droga e denaro. «Se il sesso, in genere, è riservato esclusivamente agli islamisti e agli attivisti dei gruppi conservatori e la droga ai giovani attivisti della Primavera araba, il denaro invece sembra essere l’argomentazione principale contro le organizzazioni che s’ispirano alle ideologie di sinistra. Perché la sinistra è nota per la sua difesa, almeno dal punto di vista teorico, dei valori d’uguaglianza, giustizia sociale e trasparenza finanziaria, per cui l’argomento del denaro si presta perfettamente alla propaganda».
Ma il «torto» più grande di Monjib resta forse il suo ruolo centrale nel fare rete, nel creare legami tra differenti ideologie, generazioni e discipline tanto in Marocco quanto all’estero. Prendiamo ad esempio la sua iniziativa per favorire un riavvicinamento tra laici ed islamisti moderati2. Tra il 2007 e il 2014, Monjib ha organizzato una serie d’incontri tra i principali esponenti dei due schieramenti, nella speranza così di creare un riavvicinamento tra i due gruppi in vista di un fronte filodemocratico unitario. Una novità in un paese dove il regime ricorre da sempre alla strategia del divide et impera, soprattutto nei campus universitari; qui il regime ha sempre usato questi scontri, talvolta sanguinosi soprattutto all’interno delle università, per poter governare e ritagliarsi il ruolo di arbitro. Una linea rossa che ha superato la monarchia, che non può governare senza una tensione gestibile tra i due fronti. È stato proprio l’aver promesso questa serie di incontri a rappresentare un punto di svolta nel caso Maâti Monjib. Un giorno, un simpatizzante vicino al regime gli ha confidato che è a partire da quel preciso momento che «il regime si comporta [con lui] come farebbe con un partito politico».
Il silenzio francese
Il dossier d’inchiesta sull’attentato alla sicurezza interna dello Stato si riferisce al corso Story Maker, una serie di incontri di formazione giornalistica sull’applicazione Android open source sviluppata dal quotidiano inglese The Guardian e l’ONG olandese Free Press Unlimited. Nell’indagine si ipotizza che l’applicazione sia stata utilizzata a fini di spionaggio, oltre che «per indebolire la fedeltà dei cittadini alle istituzioni». Tuttavia, non è stata effettuata alcuna perizia tecnica su un’applicazione che viene utilizzata in una decina di paesi. In una dichiarazione stampa, il partner principale Free Press ha negato qualunque forma d’appropriazione indebita, definendo lo storico un «partner molto rispettato». I finanziamenti del Centro Ibn Rushd e dell’AJI provengono da tre ONG: International Media Support (Danimarca), National Endowment (Stati Uniti) e Free Press Unlimited (Olanda). Ma il dito viene puntato solo su quest’ultima, probabilmente per non inimicarsi gli altri due partner, quello americano e quello danese. In realtà, anche a causa delle relazioni diplomatiche complicate tra Marocco e Olanda, soprattutto per la questione della regione marocchina del Rif.
Grazie anche alla pandemia da Covid-19, il regime ha intensificato la sua repressione, aumentando a partire da maggio 2020 gli arresti dei giornalisti più critici. In un primo tempo, Monjib era stato risparmiato, ma sentiva che presto sarebbe toccato anche a lui. Al culmine dell’accanimento contro di lui, agli amici che cercavano di rassicurarlo, prendendolo in giro perché lo ritenevano «intoccabile» – grazie alla sua notorietà accademica e al sostegno di cui gode –, ha risposto che sarebbe stato il primo ad essere arrestato nel caso si fosse verificato un grosso evento, tipo un conflitto armato con l’Algeria per il Sahara. E come sempre ci ha visto giusto, ma non c’è stata la guerra, piuttosto la «pace».
A dicembre 2020, il Marocco ha deciso di normalizzare i propri rapporti diplomatici con Israele in cambio del riconoscimento della «marocchinità» del Sahara occidentale da parte degli Stati Uniti. Una normalizzazione che ha segnato la fine della “pausa”, rafforzando la preesistente cooperazione con Israele. D’altra parte, ad ottobre 2019, Amnesty International aveva pubblicato un’inchiesta molto ben documentata che mostrava come Monjib fosse stato pedinato, almeno dal 2017, ad opera del software Pegasus, lo spyware israeliano impiegato per la lotta contro il terrorismo e che solo i governi potevano procurarsi.
Di fronte ad un simile accanimento, sono nati molti comitati in Marocco, in Europa, in Canada e negli Stati Uniti per chiedere la scarcerazione di Maâti Monjib. I sostenitori aumentano sempre più con lunga lista di personalità in Marocco e in tutto il mondo (Moncef Marzouki, Gilles Perrault, Noam Chomsky, Abdellatif Laâbi, Leila Shahid, Abdellah Hammoudi, Julien Bayou, Richard Falk, ecc.). Tra queste, ci sono anche istituzioni, come l’università di Tours dove Monjib si sarebbe dovuto recare nel 2021 come visiting professor, invitato all’interno del gruppo Mondo arabo e Mediterraneo, sui movimenti sociali in Maghreb.
Interpellati dal comitato di supporto per Maâti Monjib, l’Eliseo e il Ministero degli Affari Esteri francese che affermano di seguire il caso da vicino, restano in silenzio. «È nostra intenzione contattare degli organismi internazionali per la difesa dei diritti dell’uomo alla luce del carattere arbitrario della sua detenzione», affermano William Bourdon et Vincent Brengarth, avvocati del Foro di Parigi che coordinano la difesa in Marocco. Per i due avvocati internazionali, «la violazione dei principi fondamentali del giusto processo, già di per sé giustificherebbe una presa di posizione pubblica netta da parte della Francia, ancor di più dal momento che Maâti Monjib è anche un cittadino francese. Per questo il suo silenzio è ancora più inaccettabile».