Dibattito

Palestina. Il crepuscolo di Al-Fatah

Pubblichiamo su OrientXXI Italia un articolo inedito dello scrittore e intellettuale libanese Elias Khoury sulla fine dell’epoca di Al-Fatah, preannunciata dalle rivolte durante la crisi israelo-palestinese del 2021. L’invito dello scrittore al presidente Abu Mazen è di dimettersi per far posto a un rinnovamento che sembra essere alle porte, dando così una nuova visione che restituisca alla causa di un popolo che ha deciso di non morire ciò che gli appartiene.

L'immagine mostra un gruppo di bambini seduti a terra, rivolti verso un televisore che trasmette un programma. Un adulto, probabilmente un genitore o un parente, è accanto a loro. La stanza sembra essere piccola e modesta, con mobili semplici e un'atmosfera informale. Sullo schermo si vede un uomo che parla, probabilmente un leader o un personaggio pubblico. I bambini appaiono curiosi e coinvolti nella visione.
Il presidente Abu Mazen annuncia il rinvio delle elezioni palestinesi. Rafah, Striscia di Gaza, 29 aprile 2021.
Said Khatib/AFP

Anche se non lo sapeva, lo sa. Ma fa finta.

È questa la posizione del presidente Abu Mazen di fronte alla grande rivolta palestinese, partita dal quartiere di Sheikh Jarrah per estendersi a tutta la Palestina storica, che ha raggiunto il suo tragico apice con i missili caduti su Gaza, con la morte di decine di bambini palestinesi oltre alle tante famiglie decimate in quel territorio.

Quel periodo si è concluso. E la storia del governo di Oslo è ormai di una noia mortale.

Non voglio chiarire qui i motivi che spingono l’Autorità Palestinese a negare la fine di quel periodo, perché non ha più alcun valore. È solo un vago ricordo lasciato dal tempo.

Chi ha portato Fatah alla rovina, non ha alcun diritto di piangere sulle rovine di Fatah1. Poiché le rovine non piangono sulle rovine. Lasciamo il ricordo ai vivi, agli amanti che hanno pianto, fatto piangere e tirato fuori la poesia araba dal lessico della memoria.

La questione della divisione è ormai obsoleta. Il popolo palestinese ha messo fine alla divisione il giorno in cui è insorto nella città di al-Lydd, a Giaffa, a Haifa, in Galilea, a Nablus, a Ramallah, a Hebron e a Jenin. Al crocevia della Nakba senza fine – ma anche della resistenza che continua –, il popolo ha conosciuto Gaza.

Sostituire il vuoto con il vuoto

La vera questione oggi è l’incapacità delle strutture politiche, organizzative e intellettuali di affrontare le sfide che appartengono a questa nuova fase e di pensare a dei programmi adeguati.

Analizzare la politica palestinese come fosse una lotta per il potere significa fare un buco nell’acqua. Lo capite, vero, che non ha alcun potere? Anche Gaza, malgrado l’eroica resistenza, non può rappresentare alcun potere.

È per questo che le manovre a cui assistiamo oggi, dopo lo smaltimento delle rovine dei bombardamenti, non hanno più alcun significato. È un tentativo inutile di sostituire il vuoto con il vuoto.

Sono le manovre di regimi arabi agonizzanti, preoccupati per la loro stabilità, o di altri regimi che pensano di poter pagare il prezzo con il sangue, o anche quelle degli americani e degli israeliani che impongono le loro condizioni per ricostruire ciò che hanno distrutto.

Nessuno vuole riconoscere che quell’epoca è arrivata al capolinea.

Le attuali politiche in Palestina e nella regione non riusciranno a cambiare le cose, perché partono da una convinzione errata: credere che l’annuncio del cessate il fuoco significhi la fine del conflitto.

Questa guerra non si è affatto conclusa con la fine del feroce bombardamento su Gaza. Al contrario, la fine di questo sanguinoso massacro segna l’inizio di un nuovo capitolo di questo conflitto e non la sua fine.

Il fallimento del pragmatismo politico

È questo ciò che le menti troppo abituate a leggere la politica come un’eterna lotta per il potere non possono comprendere. Perché ciò che è accaduto e accade oggi in Palestina va oltre l’opinione comunemente accettata della politica, spesso ridotta a manovre o alla ricerca di qualche tornaconto. Sono queste politiche limitate che hanno fatto perdere i loro diritti ai palestinesi in due occasioni: la prima volta nel 1948, quando ciò che restava del territorio palestinese è stato diviso tra il regno giordano e quello egiziano; la seconda quando la leadership palestinese ha accettato di stare al gioco, fino ad arrivare al momento culminante dei pessimi accordi di Oslo.

È in corso una battaglia storica. Non ha niente a che vedere con la pedanteria delle formule politiche che cercano di nascondere con parole scelte con accuratezza le ferite che sanguinano da sette decenni.

La resistenza palestinese era consapevole fin dall’inizio del suo ruolo fondamentale, quando ha manifestato il progetto di uno Stato democratico e non confessionale. È vero che questo progetto non è andato oltre lo stadio di una proposta generale e non si è trasformato in un programma militante, ma portava con sé la consapevolezza che la lotta non si svolge solo sul campo, ma anche sul piano del significato umano e profondo che si dà alla resistenza. È stata voltata pagina a favore di quello che è stato definito pragmatismo politico. Una macabra danza della morte che si è svolta attorno all’interpretazione dell’idea di due Stati, spacciata come l’incarnazione della politica che promuoveva soluzioni a metà.

Una danza macabra che si è conclusa con la morte di Yasser Arafat e l’annuncio del generale Ariel Sharon – mentre si scatenava la seconda Intifada con lo slogan della creazione di uno stato palestinese in una zona della Palestina storica – che Israele era di nuovo in guerra per l’“indipendenza”, in altre parole un’attualizzazione della guerra della Nakba.

Un’onorevole uscita di scena per Abu Mazen

L’Autorità Palestinese, che ha ereditato il potere da Arafat, ha fatto l’impossibile, si è piegata fino a spezzarsi per soddisfare il campo opposto e ottenere una parvenza di Stato, a scapito della dignità del popolo palestinese. Tutto questo all’ombra di un assoluto dominio israeliano chiamato “coordinamento per la sicurezza” e di un discorso che criminalizza la resistenza all’occupazione.

Con quali risultati?

Fatah è diventata l’ombra di sé stessa.

Guardate cosa avete fatto. Guardate come avete continuato a cancellare la vostra storia. Fine dei giochi.

“Cominciamo di nuovo dall’inizio”, perché è lì dove tutto è iniziato per la Palestina.

Questo ritorno alle origini è stato imposto dalla ferocia del progetto coloniale sionista, dalla sua follia apocalittica e dalla sua determinazione a sottomettere la regione al suo progetto di trasformare il mito in storia.

Quello che è successo durante la rivolta del maggio 2021 è un ritorno alle questioni iniziali, perché i sionisti hanno voluto continuare a saccheggiare le case del quartiere di Sheikh Jarrah, dichiarando che il loro progetto Nakba aspirava solo ad una cosa, ossia cancellare ogni traccia dell’esistenza palestinese. Il loro linguaggio razzista si è manifestato senza mezzi termini alla luce del sole, così come i proiettili dei loro fucili e le bombe dei loro aerei.

Quando il presidente palestinese Abu Mazen ha deciso di annullare le elezioni presidenziali, era un modo di evitare le dimissioni.

Quando l’Autorità Palestinese ha intrapreso una campagna del terrore contro la lista “Libertà” guidata dal prigioniero Marwan Barghouthi e Nasser Al-Qudwa, sapeva benissimo che la questione che sarebbe sorta non riguardava il Consiglio costituzionale, ma la presidenza palestinese e la fine del suo mandato. Riguardava anche come organizzare il cuore pulsante della resistenza all’interno delle prigioni coloniali per iniziare una nuova epoca, quella della resistenza alla colonizzazione.

La presidenza palestinese ha cercato di sfuggire alla sua inevitabile fine rinviando le elezioni, ma la rivolta di Gerusalemme significa che tutta quell’epoca è arrivata al capolinea.

È arrivato il momento per il presidente Abu Mazen e il suo gruppo dirigente di dimettersi con onore, in modo da preservare il più possibile una storia a cui un tempo appartenevano.

Questa nuova tappa ha bisogno di una nuova visione che restituisca alla causa di un popolo che ha deciso di non morire ciò che gli appartiene.

1“Piangere sulle rovine” è un’espressione che si riferisce al tema classico della poesia araba preislamica, in cui il poeta apre i suoi versi mettendosi sulle tracce dei luoghi della vita nomade della sua amata per evocarne il ricordo [NdT].