Israele-Palestina

Palestina. Una nuova resistenza che seppellisce gli accordi di Oslo

Per fronteggiare le quotidiane incursioni militari dell’esercito israeliano in Cisgiordania, si profila all’orizzonte una risposta armata, portata avanti da giovani che non rivendicano alcuna appartenenza a fazioni o organizzazioni, che potrebbe ridisegnare la realtà politica della regione, di fronte a un’Autorità Palestinese in lenta agonia.

L'immagine mostra un gruppo di uomini che indossano maschere e abbigliamento militare. Sono schierati in formazione e tengono in mano diverse armi, alcune delle quali sembrano fucili. Sullo sfondo, si vedono altre persone che assistono alla scena. L'atmosfera sembra seria e intensa, e l'uso delle maschere suggerisce un intento di anonimato o di protesta.
Kafr Qud (regione di Jenin), 15 settembre 2022. Un gruppo di palestinesi armati mascherati partecipa al funerale del diciassettenne Uday Salah, ucciso negli scontri con l’esercito israeliano.
Jaafar Ashtiyeh/ AF

Nelle ultime settimane, i media arabi e israeliani hanno puntato l’attenzione sulle operazioni compiute in Cisgiordania contro l’esercito israeliano da parte di giovani palestinesi. Molti analisti hanno parlato di rapidi cambiamenti, mai messi in atto prima, che potrebbero portare a quella che la stampa israeliana definisce una “grande esplosione”. Tra i militari israeliani, è scattato l’allarme per la “fine della stabilità”. Wendy R. Sherman, vicesegretaria di Stato degli Stati Uniti per gli affari del Vicino Oriente, ha persino incontrato il consigliere per la sicurezza nazionale israeliano Eyal Hulata a Washington, nonché i responsabili militari israeliani, per discutere del problema.

Il maggior cambiamento che si evidenzia dall’insieme delle analisi è l’allargamento della zona di resistenza all’occupazione, soprattutto nella sua forma armata, con il rischio concreto di una grande mobilitazione popolare. Il timore israeliano per un simile scenario ha portato al lancio dell’operazione militare Break The Wave (Rompere l’onda) all’inizio di aprile 2022. Da allora, non passa giorno senza incursioni, arresti ed eliminazioni fisiche nei territori occupati. Si tratta dell’operazione israeliana più violenta e duratura dai tempi dello “Scudo difensivo” nel 2002, in cui l’ex primo ministro Ariel Sharon ordinò l’invasione delle città della Cisgiordania, ponendo sotto assedio Yasser Arafat nel suo quartier generale a Ramallah.

Un vuoto lasciato dalla seconda Intifada

Nonostante la Cisgiordania stia attraversando da più di dieci anni profonde trasformazioni politiche, nazionali ed economiche, siamo probabilmente all’alba di una nuova fase, con caratteristiche particolari. Il presagio di una nuova grande esplosione potrebbe portare a un profondo cambiamento della situazione politica, a differenza delle precedenti che si sono concluse rapidamente senza intaccare concretamente la realtà dei fatti. Forse è questo ciò che ha spinto l’esercito coloniale, all’inizio di agosto 2022, a lanciare un attacco contro la Striscia di Gaza, per contenere l’impatto della resistenza di Gaza sulla Cisgiordania. Appunto per questo, il problema non è tanto quello di sapere quando avverrà l’esplosione, quanto piuttosto di comprendere la fase attuale e le possibili prospettive di cambiamento.

Le varie forme di resistenza in Cisgiordania non sono mai sparite nel corso degli ultimi tre decenni, vale a dire dalla creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e dall’inizio del cosiddetto “processo di pace”. Negli anni ‘90 ci sono state diverse rivolte popolari, come la “rivolta del tunnel”1 o quella dei “prigionieri”. A quel tempo, la resistenza armata prevedeva principalmente operazioni kamikaze di Hamas all’interno di Israele, fino all’avvento della seconda Intifada a cui hanno preso parte tutte le forze politiche, compresa Al-Fatah e le forze di sicurezza dell’ANP. Al termine della seconda Intifada, c’è stata una tregua per diversi anni, fino al 2011, quando sono scoppiate di nuovo delle rivolte e dei movimenti popolari, questa volta con operazioni armate individuali che Israele ha ribattezzato “le operazioni dei lupi solitari”. Il 2014 ha rappresentato il punto di svolta più importante per queste lotte, fino alla comparsa di questa nuova forma di resistenza, concentrata a Jenin e Nablus, ma che si è progressivamente estesa fino alle altre regioni della Cisgiordania.

Queste “operazioni individuali” hanno colmato il vuoto che ha lasciato la seconda Intifada. I partiti politici ne sono usciti indeboliti dopo l’uccisione di leader politici di primo piano e di attivisti. La divisione politica palestinese ha messo in evidenza l’assenza di Hamas in Cisgiordania, mentre le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, braccio militare di Fatah, sono state smantellate. Tutto questo si è venuto ad aggiungere alle circostanze politiche, economiche e di sicurezza seguite all’Intifada e alla morte di Yasser Arafat nel 2004. Non c’è da meravigliarsi quindi che la Cisgiordania sia entrata in una fase di “sonno” e di apparente “stabilità”. Ma era altrettanto naturale che l’occupazione portasse alla necessità di un ritorno alla resistenza. Così si è manifestata sempre di più questa forma di resistenza individuale e apartitica, insieme alla mobilitazione di movimenti popolari e di giovani, come espressione dell’assenza di quadri organizzativi. La piazza ha deciso di difendersi da sola. Un tale contesto spiega perché, secondo l’affermazione di alcuni media, la resistenza in Cisgiordania sia così “trasversale”.

L’agonia del sistema di Oslo

In questo senso, la resistenza in Cisgiordania non si è mai realmente fermata. Il fattore nuovo non consiste tanto nell’escalation dell’atto di resistenza in sé, quanto nelle sue circostanze oggettive, cioè nel sistema politico palestinese esistente e nella situazione politica generale. È questa situazione che conferisce alla fase attuale e all’atto di resistenza un potenziale per apportare un cambiamento sostanziale di fronte a una situazione politica ormai trentennale che grava pesantemente sulla vita dei palestinesi. Ed è proprio questo che preoccupa di più sia Israele sia l’ANP.

Il sistema palestinese nato trent’anni fa aveva molti punti di forza. Per sistema intendiamo qui non solo l’ANP, ma anche le infrastrutture istituzionali, nazionali, civili, nonché l’ambiente culturale che le ha sostenute e che ne è risultato, retto dalle condizioni del processo di pace, dagli accordi di Oslo e dalle dichiarazioni di Stato. Un sistema che godeva di un sostegno governativo e civile internazionale illimitato oltre al sostegno ufficiale dei paesi arabi. Anche al loro interno, ampi strati della popolazione erano convinti di poter essere all’altezza di queste aspettative, sia in termini di diritti nazionali che di condizioni di vita, o almeno era lasciato loro un certo margine di speranza.

In questo contesto, la resistenza e le rivolte popolari sono avvenute all’ombra del vasto processo di costruzione di una nuova fase nella vita del popolo palestinese. All’apparenza erano azioni marginali e limitate, senza alcun impatto sul potere centrale che continuava a dominare. Un contesto che ha ridotto la Cisgiordania all’immagine di uno spazio sottomesso, identificabile con il progetto politico ufficiale e da questo ampiamente influenzato, soprattutto dopo la divisione avvenuta con la Striscia di Gaza.

Per gli israeliani, la resistenza non costituiva una grave minaccia, non tanto per la sua debolezza, quanto per la potenza del sistema, della sua stabilità interna e del potere materiale e culturale di cui godeva. In altri termini, erano le circostanze oggettive a dare una tale immagine della resistenza.

La seconda Intifada e l’assassinio di Yasser Arafat hanno determinato il completo collasso di quel sistema. La rivolta ha infranto il consenso costruito dagli accordi di Oslo, mentre la morte di Arafat ha significato la scomparsa del pilastro di questo progetto politico, ossia quello di uno Stato palestinese. Tuttavia, di fronte a un simile fallimento, la risposta di Israele è stata una nuova invasione delle città della Cisgiordania, con il sostegno internazionale. Israele si è sbarazzato di Arafat, convinto di poter mantenere, con qualche aggiustamento, la stessa situazione esistente dopo Oslo. Ed è ciò che è accaduto infatti, perché le regole non sono cambiate ed è stato riprodotto lo stesso scenario politico per continuare nella medesima direzione, compreso il reinsediamento dell’istituzione dell’ANP dopo averla fisicamente e moralmente distrutta.

Nonostante la centralità del fattore internazionale e israeliano nel mantenimento della situazione politica palestinese del dopo-Oslo, l’elemento più importante resta quello locale e interno legato al contesto politico e sociale. Negli ultimi trent’anni, l’ANP ha potuto costruire la propria legittimità per giustificare la sua esistenza. Forte della sua storia personale, del suo carisma e della sua grande fiducia in se stesso, Yasser Arafat è stato in grado di dare un carattere nazionale a ciò che veniva realizzato. Attraverso le sue dichiarazioni, la sua politica e la natura delle sue azioni con le varie componenti della società e dello scenario politico, Arafat ha sempre saputo rafforzare questa convinzione e questo sentimento tra la popolazione per farne il fondamento del suo progetto politico. Allo stesso tempo, e fino a poco tempo fa, Al-Fatah – che è insieme il centro e la guida di questo sistema – ha saputo rimanere forte, coesa, capace di essere presente in piazza e di contenerla con vari metodi, tanto è vero che è riuscita a sopperire all’assenza del suo fondatore.

Su scala più ampia, ci sono interi settori della società, rappresentati dalle sue forze culturali e dalle istituzioni nazionali e civili, che hanno parlato di sviluppo, di un rafforzamento delle istituzioni, di democrazia e di altri concetti legati all’idea stessa di “Stato”. Un orientamento che ha rappresentato la continuità morale dell’autorità e una giustificazione implicita della sua esistenza, nonché una normalizzazione nella coscienza collettiva della nuova fase in cui era entrata la questione nazionale palestinese dopo gli accordi di Oslo. Un nuovo corso in grado, fino a qualche tempo fa, di attirare e illudere anche un ampio segmento della nuova generazione. Quella stessa generazione che oggi suscita timori, perché non solo attua una nuova forma di resistenza in Cisgiordania, ma la recupera per dare una nuova struttura politica al discorso sulla liberazione nazionale, in opposizione al discorso statuale.

Una minaccia per il centro

Le profonde trasformazioni avvenute nell’ultimo decennio hanno fatto perdere al sistema in vigore – e all’ANP, che ne è il fulcro – gli elementi di potere di cui ha sempre goduto, e non è raro oggi sentire i media e gli analisti parlare di “debolezza dell’ANP”. Ma parlare di “debolezza” non rispecchia fedelmente la realtà. Siamo arrivati a una fase che sarebbe più esatto definire la fine dell’utilità del potere, un potere che non ha più né legittimità, né ragion d’essere.

Da un punto di vista politico, la soluzione dei due Stati – finora la giustificazione principale della sua esistenza – allo stato attuale non esiste più, a causa delle politiche israeliane di colonizzazione e annessione territoriale attraverso la costruzione di circonvallazioni stradali, barriere di separazione e check point, al fine di salvaguardare l’impianto coloniale dello Stato israeliano, che gode oggi di una continuità geografica estesa sino al punto più lontano della Cisgiordania.

In secondo luogo, la ragione d’essere dell’ANP è superata anche nel discorso politico internazionale. In base a tali premesse, nel luglio 2022, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha visitato Betlemme invece del quartier generale della presidenza palestinese a Ramallah, parlando di “aiuti umanitari” invece di discutere di politica; e soprattutto si è rifiutato di parlare dell’impegno degli Stati Uniti per una soluzione a due Stati, suffragando così la linea politica del suo predecessore Donald Trump. Questo è anche il motivo per cui i negoziati internazionali, le conferenze, il Quartetto2, le navette diplomatiche dell’“inviato speciale per il processo di pace”, le conferenze dei finanziatori e i progetti di “costruzione delle istituzioni di Stato” e di “sviluppo” hanno abbandonato la scena politica. Tutto questo è finito negli archivi di un’istituzione che non è riuscita a realizzare il suo progetto politico. In questa chiave, è più facile comprendere “l’accordo del secolo” nato con l’implicito intento di mettere fine alla soluzione dei due Stati e definire una via alternativa in cui non ci sia spazio per le “soluzioni politiche”.

Questo non significa che la comunità internazionale o che Israele abbia abbandonato l’ANP come istituzione o che non ne abbia più bisogno, ma ritengono che l’Autorità abbia una nuova identità che non ha nulla a che fare con quella che aveva in origine, in quanto ha abbandonato il suo progetto politico, trasformandosi in un’istituzione che si limita a gestire la vita quotidiana delle persone, con il solo dichiarato intento di “garantire la sicurezza”. Sembra inoltre che la stessa ANP sia consapevole di questo cambiamento di identità e agisca di conseguenza. Per sottrarsi al fallimento del “progetto politico”, si è rifugiata in un’altra “battaglia”, quella dell’adesione all’Onu e alle istituzioni internazionali, cercando così di trovare una giustificazione alla propria esistenza.

In realtà, la fine dell’utilità politica del potere è iniziata con la seconda Intifada, che preannunciava il fallimento della soluzione politica. Di conseguenza, la fase politica successiva è stata stroncata dal discorso della stabilità economica e dalla “Fayyadiya”3. Sembra però evidente che anche questa utilità economica del potere non abbia più alcuna ragione d’essere, poiché il motivo principale delle manifestazioni, degli scioperi sindacali e delle continue proteste contro l’ANP è proprio di natura economica. Negli ultimi anni, infatti, si sono accentuate le differenze di classe e le disparità sociali, portando a uno scontro continuo tra l’Autorità e il popolo. Senza i suoi tradizionali punti di forza e in assenza di discorsi in grado di parlare alla piazza e di contenerla, l’ANP ha sempre più spesso fatto ricorso a soluzioni securitarie, violando le vite e i diritti della popolazione in un modo mai visto prima, come dimostrano i rapporti di varie istituzioni internazionali. Ed eccoci dunque in un circolo vizioso dove la corruzione e la repressione provocano il rifiuto e la protesta, e viceversa. È scomparsa ogni forma di stabilità e il diffondersi della resistenza nelle sue varie forme minaccia l’intero scenario politico. Così la resistenza non è più un’azione che si svolge ai margini, ma diventa una minaccia per il potere centrale.

Da Jenin a Nablus

È in questo difficile contesto che va inteso il rapporto tra centro e periferia. La ricristallizzazione della resistenza in Cisgiordania e il suo sviluppo per mano di una nuova generazione di giovani, all’ombra di un sistema politico debole e privo di una base popolare, significa necessariamente che qualsiasi confronto con l’occupazione avrà ripercussioni dirette sul contesto nazionale palestinese. È proprio su questo punto che gli attuali eventi si differenziano da tutte le forme di resistenza organizzate nel corso degli ultimi decenni. Perché non c’è più un centro politico in grado di contenere lo scontro, né di gestirlo, come accadeva di solito, così come non c’è più alcuna alternativa politica che possa mettere fine alla resistenza. In altre parole, la resistenza all’occupazione opera in un vuoto politico. Non è quindi più un semplice atto di resistenza, ma diventa in sé una soluzione alternativa. Il margine potrebbe così diventare centrale.

Questa evoluzione è visibile nella natura della resistenza concentrata a Jenin e Nablus, che sta iniziando a formare un’entità nazionale sovra-partitica, con i suoi giovani leader e le sue figure simboliche, che si sono fatte valere sul campo. Alcuni di questi giovani leader appartengono a famiglie i cui membri occupano posizioni di responsabilità nei servizi di sicurezza dell’ANP, il che dimostra fino a che punto un tale fenomeno di lotta sia indipendente dal sistema ufficiale e da tutto ciò che si è verificato finora. Una nuova forma di resistenza che sta acquisendo una base popolare, cosa che la rende una minaccia per il sistema politico in carica. Un sistema che non accetterà la presenza di un’alternativa che rischia di escluderlo dal contatto con la piazza. Di conseguenza, quest’equazione tra un fenomeno militante in espansione e un sistema politico ripiegato su se stesso può portare a un scontro, come dimostrano gli ultimi eventi di Nablus4.

L’Autorità uscirà sconfitta da un tale scontro, non tanto sul piano materiale quanto su quello morale, soprattutto con una base popolare che la rifiuta, e di fronte ai movimenti sindacali e popolari ancora mobilitati. Il potere non potrà in alcun modo assumersi i rischi di un scontro con questa nuova generazione. Allo stesso tempo, non può restare a guardare. Per questo la resistenza che opera in Cisgiordania riveste un’importanza particolare, diversa da quella della Striscia di Gaza, perché è quella che ha maggiori probabilità di avere un reale impatto sulla realtà politica.

La società palestinese sta dunque attraversando una fase di transizione tra la disintegrazione di un sistema egemonico e il tentativo di costruire qualcosa di nuovo. Se la situazione attuale può apparire caotica è perché è retta da un ordine particolare. In un certo senso, questo periodo storico può ricordare gli anni immediatamente successivi alla Nakba del 1947-1949, quando la popolazione si è lasciata alle spalle partiti, forze sociali e strutture economiche disintegrate, e c’era un vuoto da colmare. Il processo di costruzione che segue la fine di una fase non avviene necessariamente con la consapevolezza di ciò che accadrà, o con il coinvolgimento di forze sociali e politiche esistenti ed efficienti, ma può essere il risultato di una pratica quotidiana sul campo. Un altro modo di fare politica, ma dal basso.

Per questo motivo, ogni movimento, ogni attività e ogni protesta in atto è parte di un lungo processo di formazione di nuove forze sociali e politiche e della cristallizzazione di un nuovo discorso politico. Non è più possibile analizzare lo sciopero degli avvocati o i movimenti sindacali con la stessa griglia di lettura adottata per lo sciopero degli insegnanti negli anni ’90. Allo stesso modo, non si può leggere l’allargamento della lotta di liberazione di questi ultimi dieci anni - che si tratti della battaglia delle porte di Al-Aqsa o della resistenza a Jenin – con le stesse chiavi interpretative usate per comprendere la seconda Intifada o le rivolte precedenti. L’egemonia del progetto politico rappresentato dall’ANP e l’intero sistema esistente hanno fatto davvero la differenza. Ogni azione s’iscriveva a quel tempo, in un modo o nell’altro, nell’ambito di quel progetto e l’ombra dello Stato incombeva sulla realtà politica generale. Oggi la rivolta della piazza palestinese è andata oltre quel progetto, oltre le sue istituzioni e le sue dichiarazioni.

1Rivolta avvenuta nel settembre 1996 dopo l’autorizzazione da parte delle autorità israeliane allo scavo di un tunnel sotto la moschea di Al-Aqsa, con la conseguente minaccia a diversi edifici storici palestinesi. Ndr

2Il Quartetto per il Medio Oriente, chiamato anche Quartetto diplomatico o Quartetto di Madrid, è un gruppo formato da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e ONU, cui spetta il ruolo di mediatore nel “processo di pace israelo-palestinese”, in particolare attraverso il suo inviato speciale. Ndr

3In riferimento è alla strategia politica, economica e di state-building portata avanti dall’ex primo ministro palestinese Salam Fayyad (anche nota come Fayyadismo), che si è dimesso nel 2013. Salam Fayyad ha incentrato tutto il suo lavoro politico sul tentativo di costruire una “pax economica” palestinese capace di garantire assicurazione di stabilità alla comunità internazionale, portando in secondo piano le necessarie rivendicazioni politiche. Ndr

4Gli scontri avvenuti a Nablus il 20 e 21 settembre 2022 tra gruppi armati e le forze dell’ordine palestinesi. Ndr