È un fatto fuori dell’ordinario nelle relazioni internazionali. La Presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni, è tornata in Tunisia a poco meno di una settimana di distanza dall’ultima visita ufficiale. Martedì 6 giugno, la premier italiana ha effettuato la sua prima visita lampo, durata appena cinque ore, nella capitale tunisina. Accolta dalla sua omologa Najla Bouden, la premier Meloni ha poi incontrato il presidente Kaïs Saïed che l’ha definita “una donna che dice a voce alta ciò che altri pensano in silenzio”. Quattro giorni dopo, la Presidente del Consiglio ha fatto ritorno in Tunisia con una delegazione europea.
Accompagnata stavolta dalla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e dal Primo Ministro olandese Mark Rutte, Giorgia Meloni ha posto all’ordine del giorno della sua seconda visita ufficiale i due temi che preoccupano maggiormente i leader europei: la stabilità economica della Tunisia e, soprattutto, la gestione dei flussi migratori, relegando in secondo piano il rispetto dei “valori democratici”.
Un memorandum d’intesa sui migranti
Al termine dell’incontro, la delegazione europea ha messo sul tavolo un pacchetto di misure a favore della Tunisia: un prestito da 900 milioni di euro – vincolato all’accordo con il Fondo Monetario Internazionale –, un aiuto supplementare di 150 milioni di euro da immettere immediatamente nel bilancio, oltre a 105 milioni da investire nel controllo marittimo delle frontiere. Ursula von der Leyen ha accennato anche a un pacchetto di investimenti per portare la banda larga ed energie rinnovabili, prima di citare addirittura la possibilità di “riunire i nostri popoli”. Secondo il quotidiano Le Monde, citando fonti di Bruxelles, la maggior parte delle proposte riguarda però fondi già stanziati. Una settimana dopo, Gérald Darmanin e Nancy Faeser, rispettivamente ministri dell’Interno francese e tedesco, si sono recati in visita a Tunisi, annunciando un aiuto bilaterale di 26 milioni di euro per l’equipaggiamento e l’addestramento della Guardia Costiera tunisina.
Il pressing dei partner europei per trovare un accordo con Tunisi si spiega con la necessità di far approvare la risoluzione al Parlamento europeo, prima della fine della sua sessione. Già l’8 giugno, i 27 paesi dell’Unione europea hanno raggiunto un primo accordo per rivedere le norme su sbarchi e accoglienza. In questo modo, l’esame delle domande di asilo dovrà avvenire con una “procedura di frontiera”, cioè una prassi accelerata che dovrà terminare entro 12 settimane dalla presentazione della domanda. Sarà necessario anche concludere accordi con alcuni paesi considerati “sicuri”, affinché recuperino non solo i connazionali respinti, ma anche i migranti in transito sul loro territorio. Se la Tunisia accettasse questa condizione, potrebbe farsi carico di migliaia di subsahariani che dalle sue coste tentano di raggiungere l’Europa.
In questo contesto, l’esecutivo UE non ha tenuto in alcun conto la questione dei diritti umani. Eppure, nel marzo 2023, l’Europarlamento ha votato a larga maggioranza una risoluzione che condanna la svolta autoritaria del regime tunisino. Dallo scorso febbraio, sono infatti circa 20 gli oppositori arrestati dalle autorità, accusati di “cospirazione contro la sicurezza dello Stato”. Secondo gli avvocati della difesa si tratta di arresti arbitrari, ma la procura si è rifiutata di fornire una propria versione.
L’alleato algerino
Da quando ha assunto pieni poteri nel 25 luglio 2021, Kaïs Saïed ha trasformato la Tunisia in un “caso” per le potenze regionali e internazionali. Nei primi mesi dopo il golpe, i paesi occidentali hanno mostrato un atteggiamento che oscilla tra “preoccupazione” e tolleranza. Per esprimere i timori riguardo la svolta autoritaria è stato scelto il contesto del G7. Sulla stessa falsariga, ci sono stati molti appelli per un rapido ritorno al funzionamento democratico e al dialogo. Ma, al di là dei proclami di rito, la divergenza di interessi ha subito diviso il fronte tra europei e nordamericani. In Italia – e, in misura minore, in Francia – la questione dei migranti è centrale nel dibattitto pubblico, mentre l’informazione negli Stati Uniti e in Canada è più orientata su questioni legate al tema dei diritti e delle libertà. Su entrambe le sponde dell’Atlantico, invece, il sostegno a un accordo tra Tunisi e il Fondo Monetario Internazionale continua ad avere un ampio consenso
La fine dell’unanimità occidentale sul rispetto dei diritti e delle libertà ha isolato l’Italia sul caso della Tunisia. In realtà, dal 2022, Roma, superando di fatto la Francia, è diventata il primo partner commerciale di Tunisi. Un cambio di rotta che coincide con una nuova svolta: la Tunisia è oggi il primo paese di partenza degli sbarchi clandestini diretti in Europa, nel bacino del Mediterraneo. Visto che la Tunisia di Kaïs Saïed ha sempre cooperato per il rimpatrio dei tunisini clandestini espulsi dal territorio italiano, era interesse di Roma sostenere un regime forte e accomodante, approfittando del suo riavvicinamento con l’Algeria di Abdelmadjid Tebboune, che non ha mai fatto mistero del suo sostegno a Kaïs Saïed. Così, nel maggio 2022, il presidente algerino ha sottolineato l’intenzione dei governi di Algeri e Roma di “tirare fuori dai guai” la Tunisia. Dichiarazioni ribadite senza che le autorità tunisine, solitamente molto pronte a denunciare possibili ingerenze, reagissero apertamente. Non è la prima volta che l’Italia e l’Algeria – legate da un gasdotto che attraversa il territorio tunisino – si muovono per sostenere un regime autoritario in Tunisia. Già nel 1987 l’ex presidente Zine El-Abidine Ben Ali si era consultato con Roma e Algeri prima di deporre il presidente Bourguiba.
L’arrivo di Giorgia Meloni a palazzo Chigi nell’ottobre 2022 ha rafforzato la cooperazione. La leader di estrema destra, eletta grazie a un programma di drastica riduzione dell’immigrazione clandestina, ha moltiplicato le dimostrazioni di sostegno al regime. Il 21 febbraio 2023, c’è stata la dichiarazione alla stampa della presidenza tunisina contro la “minaccia” rappresentata dalle “orde di migranti dall’Africa subsahariana” alla “composizione demografica tunisina”. Mentre questa versione tunisina della teoria della “grande sostituzione” provoca indignazione, – soprattutto da parte dell’Unione Africana – l’Italia è l’unico paese a sostenere apertamente le autorità tunisine. Da allora, la presidente del Consiglio italiano e i suoi ministri hanno moltiplicato gli sforzi diplomatici per trovare un accordo tra Tunisia e FMI, soprattutto da quando l’Unione europea ha ufficialmente messo in guardia dal rischio di un collasso economico del paese.
Contro i “diktat del FMI”
Va detto che la crisi economica della Tunisia risale almeno al 2008. La spesa pubblica dopo la rivoluzione, l’ombra del terrorismo, la crisi pandemica e l’invasione russa dell’Ucraina non hanno fatto altro che peggiorare la situazione nel paese.
L’accordo con Washington va avanti con più colpi di scena di una soap opera. A fine luglio 2021, ancor prima della nomina di un nuovo governo, Saïed incarica la neoministra delle Finanze, Sihem Namsia, di proseguire le trattative per ottenere un prestito dal Fondo Monetario Internazionale, preludio a una serie di aiuti finanziari bilaterali. Man mano che i colloqui procedono, emrgono divergenze all’interno del nuovo esecutivo. Mentre il governo della premier Najla Bouden sembra pronto ad accettare le richieste dell’istituzione finanziaria (dismissione e privatizzazione di alcune aziende pubbliche, stop ai sussidi sugli idrocarburi, tagli ai contributi di cui usufruiscono ampie fasce della popolazione), Saïed respinge con forza “i diktat del FMI” e una politica di austerity che rischia di essere una minaccia per la pace sociale. Cosa che non gli impedisce però di approvare una finanziaria per il 2023 che contiene le principali richieste dell’istituzione nata durata la conferenza di Bretton Woods.
Ad ottobre 2022, risale l’accordo “tecnico” tra gli esperti del FMI e quelli del governo tunisino da siglare entro dicembre. Ma quest’ultimo atto viene rinviato a data da definirsi, senza fornire alcuna spiegazione.
I dissensi all’interno dell’esecutivo, in teoria più coeso rispetto al regime della Costituzione del 2014, derivano dalla visione economica di Kaïs Saïed. Dopo la caduta dell’ex presidente Ben Ali, il governo di transizione commissiona un rapporto sul sistema di corruzione del regime decaduto. Il documento finale, che evidenzia più un ammanco (prestiti senza garanzie, autorizzazioni indebitamente concesse, ecc.) che un’appropriazione indebita, non fornisce cifre. Nel 2012, il ministro dei Domini Statali e degli Affari Territoriali Slim Ben Hmidane ipotizza una cifra intorno ai 13 miliardi di dollari (11,89 miliardi di euro), facendo confusione tra i beni del clan Ben Ali che lo Stato pensava di sequestrare con i fondi depositati all’estero. Cogliendo l’errore, Kaïs Saïed dichiara che quella somma dev’essere restituita e investita nelle regioni emarginate dal vecchio regime. Il 20 marzo 2022, il presidente approva quindi una legge in merito, nominando una commissione incaricata di proporre a “qualsiasi persona [...] che abbia compiuto atti che possono comportare illeciti economici e patrimoniali” di investire l’equivalente della somma indebitamente ottenuta nelle zone disastrate in cambio del ritiro di ogni accusa.
Un sistema che entra in vigore dopo la firma dell’accordo tecnico con il FMI. Mentre il governo manifesta l’intenzione di finalizzare il patto con Washington, Saïed fa pressione sulla commissione d’amnistia perché “la Tunisia è in grado di cavarsela da sola”. Visto l’approccio fallimentare, il presidente tunisino preferisce destituire il presidente della commissione, denunciando veti all’interno dell’amministrazione. Da allora, Saïed ha moltiplicato gli appelli per avere condizioni meno gravose nell’accordo con il FMI, sostenuto dal governo italiano. Il 12 giugno 2023, al termine di un incontro con il suo omologo italiano, Antonio Tajani, il segretario di Stato americano Anthony Blinken si è detto aperto a un piano di riforma da parte di Tunisi riesaminato dal FMI.
Ancora una volta, gli europei scelgono di sostenere la dittatura in nome della stabilità. Se ai tempi di Ben Ali, le principali motivazioni erano l’integralismo islamico e la lotta al terrorismo, oggi è la lotta all’immigrazione, inizio e fine di ogni discorso politico ed elettorale in un’Europa che si sposta sempre più a destra, a fungere da bussola. Ma tutti questi attori sottovalutano il lato imprevedibile del presidente tunisino, ansioso di evitare qualsiasi malcontento sociale che possa indebolire il suo potere. Alla vigilia della visita ufficiale della delegazione europea, Saïed si è recato a Sfax, seconda città del paese e crocevia dell’immigrazione clandestina. Il presidente ha incontrato le popolazioni sub-sahariane per chiedere che siano trattate con dignità, prima di dichiarare che la Tunisia “non farà da guardia di frontiera per altri paesi”. Una posizione ribadita durante la visita ufficiale del ministro dell’Interno francese Gérald Darmanin e del suo omologo tedesco, e di nuovo, il 22 e 23 giugno 2023, a margine del Summit di Parigi per un nuovo patto finanziario globale.