
Il 18 giugno 2025, sei giorni dopo i primi bombardamenti israeliani sui siti di arricchimento nucleare iraniani, condotti con l’aiuto logistico dell’esercito statunitense, Steve Bannon, una delle grandi figure pubbliche dei MAGA (acronimo di Make America Great Again, in italiano “Rendiamo l’America di nuovo grande”), slogan politico che riunisce i sostenitori di Donald Trump, ha denunciato pubblicamente la linea politica del suo presidente in termini poco lusinghieri. “Il popolo americano vi chiede di andare via dal Medio Oriente. Non vogliamo più guerre senza fine”1. Tre giorni dopo, l’ex stratega di Donald Trump ha ribadito il concetto, ricordando a Trump che è stato rieletto con un programma che ha tra i suoi “fondamenti” quello di “farla finita cone le guerre senza fine” degli Stati Uniti. Bannon è un pezzo grosso. È stato il primo consigliere strategico di Trump dopo la sua elezione nel 2016, la sua dichiarazione è su un argomento di fondamentale importanza: qual è la strategia di politica estera degli Stati Uniti, in questo caso in Medio Oriente? In breve, l’attacco di Bannon ha messo in luce le divisioni interne ai MAGA, ergo anche le fragilità di Trump.
Dal suo ritorno al potere nel gennaio 2025, il presidente statunitense può già vantare molti più successi (dal suo punto di vista) rispetto alla sua prima elezione, ma deve affrontare anche difficoltà di vario genere. Ha ricevuto molte critiche per le sue misure tariffarie nel commercio internazionale. Inoltre, il presidente americano ha fatto spesso dei dietrofront. Recentemente, ad esempio, Trump ha annullato la sua promessa di vietare l’ingresso di 600.000 studenti cinesi negli Stati Uniti nei prossimi due anni. Su Fox News, canale diventato l’organo quasi ufficiale della politica del presidente, la conduttrice Laura Ingraham ha detto con la voce strozzata: “È incomprensibile! Seicento posti sottratti ai giovani americani”. Per quanto riguarda la sua politica estera, Trump è spesso imprevedibile. Non è riuscito a far cambiare idea al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e al presidente russo Vladimir Putin. Al contrario, ogni volta che ha creduto di poter proclamare un successo, una concessione su Gaza come sull’Ucraina, i due uomini politici hanno fatto di testa loro.
Tre pilastri
I dissensi interni all’universo MAGA non sono dovuti solo alla natura volubile del leader americano, ma sono anche legati alla composizione della sua base, che il presidente deve coccolare. Tuttavia, nei MAGA ci sono diverse correnti, talvolta divergenti.
L’alleanza che ha riportato Trump al potere si fonda su tre pilastri. Il primo è trumpista per mero interesse opportunistico: si tratta della potentissima corrente politica evangelica. Come può un movimento che professa il timore di Dio e il rispetto assoluto dell’eredità di Cristo venerare in maniera convinta un uomo, Trump, che non professa altro culto se non quello di Mammona2, che ha peccato divorziando due volte e che si vanta di “prendere le donne per la figa”? La spiegazione è analoga a quella dell’ascesa del messianismo in Israele. Secondo i rabbini più fanatici, il sionismo, nato come movimento laico e creando uno Stato miscredente, ha contribuito solo ad accelerare inconsapevolmente l’imminente arrivo del Messia. Una parte consistente del blocco evangelico statunitense aderisce oggi a una visione che fa del “Grande Israele” e di un nuovo “regno di Davide” il preludio necessario al ritorno di Cristo sulla terra.
Il secondo pilastro del trumpismo è costituito da una parte del movimento neoconservatore che ha avuto il momento di massimo splendore sotto la presidenza di George W. Bush (2001-2009), che ha concesso al movimento un posto politico di primo piano nella sua amministrazione. Un giovane politico israelo-statunitense di nome Benjamin Netanyahu aveva aderito molto presto al neoconservatorismo, svolgendo un ruolo di primo piano, in particolare teorizzando la “guerra al terrorismo”. I suoi sostenitori hanno sviluppato una visione espansionistica dell’esportazione della democrazia nel mondo, a beneficio prioritario del “destino eccezionale” degli Stati Uniti, nati per governare il pianeta. Una missione che potrà essere portata a termine solo attraverso la proiezione della potenza statunitense sul resto del mondo, se necessario anche con la forza armata.
Il terzo è quello dei nazionalisti, e in particolare dei nazionalisti protezionisti, quelli che, durante le due guerre mondiali del XX secolo, ad esempio, hanno impiegato molto tempo prima di impegnarsi. Secondo questa corrente, si deve entrare in guerra solo se gli interessi diretti degli Stati Uniti sono direttamente minacciati. Questa destra non è solo protezionista a livello internazionale, ma è anche fortemente “nativista”, secondo il termine statunitense. ‘Nativo’, ai loro occhi, non si riferisce ai nativi americani. No, i “nativi” sono quelli che, dopo aver conquistato il territorio degli Stati Uniti, si sono imposti come suoi fondatori. Di conseguenza, i nazionalisti protezionisti sono anche ferocemente ostili agli immigrati e, da sempre, ai cittadini non bianchi, siano essi mediterranei o asiatici (il “pericolo giallo” è nato negli Stati Uniti alla fine del XIX secolo). In nome del “nativismo”, il celebre aviatore statunitense Charles Lindbergh fu nel 1941 uno dei promotori di un movimento chiamato... “America First”, l’America prima di tutto, uno slogan non ha ripreso a caso da Trump.
Un’alleanza potente ma divisa
Questi tre pilastri formano un’alleanza potente che ha permesso a Trump, per ben due volte, di arrivare alla presidenza e di non crollare politicamente quando nel 2020, è stato sconfitto da Joe Biden. Possono contare su “passerelle” che cercano di creare coalizioni. La principale è la corrente dei NatCon (nazionalisti conservatori) che cerca di riunire i tre pilastri sotto la bandiera del primato della cultura “giudaico-cristiana”, che ha il suo ideologo nell’israelo-statunitense Yoram Hazony. I tre orientamenti sono entrati nell’alleanza per accrescere la propria influenza sulla Casa Bianca. Trump deve quindi accontentare un elettorato ideologicamente eterogeneo, la cui base è composta da fazioni che condividono idee e priorità diverse, a volte addirittura contrapposte. Il suo talento consiste nel dare loro garanzie evitando che le divisioni interne possano degenerare. Dei tre, gli evangelici sono i più numerosi; i neoconservatori, a lungo indeboliti, stanno avendo una ripresa. I nazionalisti protezionisti formano un gruppo un po’ meno importante, ma che si considera la “vera” incarnazione dei MAGA. Trump non può ignorarli se vuole preservare la sua maggioranza, soprattutto perché è la corrente politica che gli sta più a cuore, e anche perché è quella in cui è stato educato politicamente ed è il pensiero a cui si sente più vicino.
Il vento di rivolta dei circoli nazionalisti all’interno dei MAGA si è intensificato nel maggio 2025, quando l’eventualità di un imminente attacco israeliano contro l’Iran è tornata alla ribalta. I nazionalisti si sono opposti, denunciando il rischio di una guerra in Iran che avrebbe potuto trascinare gli Stati Uniti in un pantano peggiore di quelli in cui sono incappati in Afghanistan e poi in Iraq. La questione iraniana ha anche riacceso l’ostilità di alcuni circoli MAGA nei confronti delle relazioni intraprese da Washington con Tel Aviv. Così, il 29 maggio, il rappresentante repubblicano del Kentucky alla Camera, Thomas Massie, ha dichiarato che “la guerra di Israele a Gaza è così squilibrata che non c’è alcun motivo razionale per cui i contribuenti americani debbano pagarla”3.
“Farla finita con le stupide guerre senza fine”
Altre voci hanno chiesto di mettere fine alle forniture gratuite di armi a Israele, ripetendo lo slogan della campagna di Trump: “Farla finita con le stupide guerre senza fine”. Non hanno usato mezzi termini nei confronti di Lindsay Graham, senatore della Carolina del Sud e portavoce della fazione neoconservatrice, che su Fox News ha ribadito: “Bisogna impegnarci al massimo per aiutare Israele a eliminare la minaccia nucleare. Se è necessario fornire bombe, forniamole. E se è necessario volare al loro fianco, facciamolo”. Ma la mattina prima dei raid, Tal Axelrod, analista del quotidiano online Axios, ha citato le dichiarazioni di alcuni opinion leader nazionalisti che prevedevano una possibile “profonda scissione” all’interno dei MAGA4, citando Jack Posobiec, un influente podcaster di estrema destra, secondo il quale “un attacco diretto contro l’Iran avrebbe portato la coalizione di Trump a una scissione disastrosa”5.
Gli attacchi israeliani non hanno provocato alcuna scissione all’interno dei MAGA, ma le dichiarazioni di una sfilza di nazionalisti hanno dimostrato quanto siano forti le tensioni all’interno del mondo trumpiano. Influenti politici di primo piano come Steve Bannon, Tucker Carlson, Matt Gaetz, Joe Rogan e altri hanno continuato il loro lavoro di sabotaggio. Il primo, in particolare, ha lanciato l’allarme sul rischio che Netanyahu rappresenta per gli Stati Uniti, scagliandosi contro, il 19 giugno: “Santo cielo, chi vi credete di essere per voler trascinare l’America in una guerra con l’Iran?6. Dopo aver evocato altri attacchi israeliani con l’obiettivo di un “cambio di regime” in Iran, Bannon ha aggiunto, rivolgendosi a Trump: “Il popolo americano vi chiede di andare via dal Medio Oriente. Non vogliamo più guerre senza fine”
Alla fine di giugno, il rifiuto di “guerre senza fine” condotte da Netanyahu ha portato per la prima volta una deputata repubblicana a pronunciare la “parola che inizia con G”. Il 28 luglio, Marjorie Taylor-Greene, rappresentante della Georgia e portavoce di spicco dei MAGA, è diventata la prima repubblicana a definire “genocidio” gli atti compiuti da Israele a Gaza. “Naturalmente, ha detto, siamo contrari al terrorismo islamico radicale, ma siamo contrari anche al genocidio”7. Il suo partito non l’ha espulsa né redarguita, e così Taylor-Greene non ha ritrattato. Il giorno dopo, Donald Trump ha parlato di una “vera carestia” a Gaza.
Il disincanto dei MAGA nei confronti di Israele
Da allora, le critiche dei MAGA nei confronti della Casa Bianca si sono progressivamente attenuate, vista la brevità dell’attacco israeliano e la portata più modesta rispetto a quanto inizialmente proclamato da Netanyahu e Trump. Ma la crisi interna al campo trumpista ha lasciato tracce che potrebbero essere il preludio di una crisi più ampia in futuro. Tra nazionalisti isolazionisti e neoconservatori, i rapporti sono più che freddi. All’inizio di agosto, The Economist ha titolato in prima pagina “Il disincanto dei MAGA nei confronti di Israele”8. Il settimanale anglo-statunitense ha pubblicato l’articolo con un grafico che mostra l’evoluzione dei suoi sondaggi dal 7 ottobre 2023 sul rapporto tra israeliani e palestinesi nella società statunitense. Il grafico mostra non solo un progressivo calo del sostegno dell’opinione pubblica democratica a Israele, cosa già nota, ma mostra anche che l’opinione repubblicana è entrata in un processo di distanza critica nei confronti di Tel Aviv, anche tra i “conservatori” e i “molto conservatori”, ovvero la destra e l’estrema destra, l’elettorato più fedele a Trump.
Il podcaster Jack Posobiec ha parlato di una “spaccatura generazionale” nel movimento MAGA. Secondo Posobiec, tra gli under 40 il rapporto con Israele va “dallo scetticismo alla volontà di tagliare ogni legame”. Altri osservatori indicano che la “hasbara”, il processo di comunicazione dello Stato di Israele che nega non solo qualsiasi genocidio, ma anche qualsiasi carestia a Gaza, appare sempre meno credibile agli occhi dell’opinione pubblica statunitense. Anche i media più coinvolti nel sostegno a Donald Trump sono divisi. Infine, la corrente nazionalista isolazionista, ostile a continuare a fornire armi all’Ucraina, è diventata pubblicamente ostile anche al gigantesco aiuto militare di Washington a Tel Aviv. Rimane una minoranza su questo punto, ma la sua voce influenza ormai anche gli altri circoli conservatori.
Nonostante sia in calo, l’alleanza tra il movimento evangelico e quello neoconservatore sulla questione israelo-palestinese rimane chiaramente dominante nei MAGA. Un esempio: l’attivista Charlie Kirk, assai contrario a un attacco israeliano contro l’Iran, ha dichiarato, dopo l’avvenuto attacco: “In momenti come questi, ho piena e totale fiducia nel presidente Trump”9. Anche Laura Loomer, un’attivista vicina a Trump ma ostile agli impegni militari statunitensi, ha inaspettatamente dichiarato: “L’America, prima di tutto, è quello che dice il presidente Trump”10. Per la maggior parte dei suoi fedeli, le parole del Leader restano ineguagliabili.
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1Joseph Cameron, “Bannon warns Trump against heavy US involvement in Iran”, The Christian Science Monitor, 18 giugno 2025.
2Mammona è un termine di accezione negativa che viene usato nel Nuovo Testamento per personificare il profitto, il guadagno e la ricchezza accumulati in maniera rapida e disonesta. Nei Vangeli, il termine personifica il denaro che schiavizza il mondo.
3“Republican Says US Should End All Military Aid to Israel”, Newsweek, 29 maggio 2025.
4Tal Axelrod, “MAGA warns Trump of ‘massive schism’”, Axios, 12 giugno 2025.
5Ibidem
6“’Who in the hell are you?” Bannon blasts Netanyahu for dragging US toward potential war with Iran”, Reuters–TRT Global, 20 giugno 2025.
7Robert Jimison et Annie Karni, “Greene Calls Gaza Crisis a ‘Genocide,’ Hinting at Rift on the Right Over Israel”, The New York Times, 29 luglio 2025.
8“MAGA’s disenchantment with Israël”, The Economist, 5 agosto 2025.
9Huo Jingnan, “Pro Trump media figure split over the U.S. role in the israeli-iran conflict”, National Public Radio (NPR), 18 giugno 2025.
10Ibidem