Reportage

Tunisia. A Zarzis, le famiglie dei “dispersi in mare” in piazza contro l’oblio

Le famiglie dei tunisini dispersi lungo le rotte migratorie, insieme ad altre provenienti da Algeria, Marocco e Senegal, si sono ritrovate a inizio settembre 2022 a Zarzis, nel sud-est della Tunisia. Sostenute da militanti europei e africani, pretendono verità sulla sorte dei loro cari dispersi in mare.

L'immagine mostra un ritratto di un giovane uomo posato su un tessuto colorato. Sopra il ritratto è adagiata una rosa bianca, che aggiunge un tocco di dolcezza e commemorazione. Il contrasto tra il volto del ragazzo e il fondo morbido e multicolore crea un'atmosfera di riflessione e rispetto.
Zarzis, 6 settembre 2022. Foto di un “disperso in mare”.
© Maël Galisson

Il 6 settembre 2022, di primo mattino, un corteo di diverse decine di manifestanti comincia a formarsi davanti alla Casa dei giovani di Zarzis. Sotto un sole cocente, vengono esposti i primi striscioni. Poi, viene scandito uno slogan: “Dove sono i nostri figli?”. I manifestanti sono soprattutto donne, sorelle o madri dei dispersi lungo le rotte migratorie. La maggior parte porta una foto del proprio caro, di cui non ha più notizie da quando è partito per l’Europa, due, cinque, a volte dieci anni fa. Vengono da Tunisi, Bizerte o Sfax, ma anche dall’Algeria, dal Marocco e dal Senegal. Affiancate da alcuni militanti attivi in Europa o nel continente africano, queste donne si sono riunite a Zarzis già da diversi giorni per commemorare i loro cari e per chiedere agli Stati del nord e del sud del Mediterraneo di assumersi le proprie responsabilità.

In testa al corteo, Samia Jabloun, cappello di paglia e pantaloni a fiori, porta una maglietta su cui è stampato il volto del figlio, Fedi, scomparso nel febbraio 2021. Poco prima della partenza del corteo, ci racconta che il figlio aveva lasciato Kelibia a bordo di un peschereccio. L’imbarcazione e una parte dell’equipaggio sono rientrati al porto diverse ore dopo, ma lui non è mai tornato. “Uno dei pescatori mi ha detto che quando la barca si stava avvicinando a Pantelleria, Fedi e un altro uomo sarebbero saltati in acqua e avrebbero nuotato fino a riva”, spiega Samia.

Ma da allora, questa professoressa di storia e geografia non ha più notizie del figlio. “Non so se sia vivo o morto”, aggiunge, con un sospiro. Racconta poi delle sue lotte per tentare di ottenere informazioni presso le autorità tunisine, del tempo passato a cercare tracce di vita del figlio bussando alle porte dei ministeri o attraverso i social. Invano.

Il silenzio delle autorità

Nel mezzo del corteo, Rachida Ezzahdali, con un hijab rosa sopra un abito decorato, tiene saldamente in una mano un cartello e nell’altra la foto del padre, di cui non ha più notizie da due anni. “Il 14 febbraio 2020, mio padre ha preso un volo per l’Algeria”, ricorda la giovane studentessa di 22 anni, originaria di Oujda, Marocco. “L’abbiamo sentito qualche giorno dopo, era ad Orano”, aggiunge. Poi, più nulla, nessuna notizia. “È stata una tragedia per la mia famiglia”, dice Rachida, con voce calma. “Non sapevo nulla della questione degli harraga1, ammette, “ma da quando mi sono avvicinata all’associazione Aiuti ai migranti in situazione vulnerabile, ho capito che riguarda migliaia di persone, in Marocco, Algeria o Tunisia”. “È una vera piaga”, confessa. Come Samia in Tunisia, Rachida si è scontrata con il silenzio delle autorità marocchine quando ha iniziato a cercare informazioni sul padre. “Nonostante le proteste, le manifestazioni, non abbiamo avuto nessuna risposta dai nostri governi”, si lamenta.

Poco dopo la partenza del corteo, i manifestanti fanno una tappa davanti al comune di Zarzis. Prende la parola Saliou Diouf dell’organizzazione Alarm phone, una rete che aiuta i migranti in pericolo in mare e nel deserto: “Ci siamo riuniti per mantenere una promessa: non dimenticare mai tutte le persone disperse alle frontiere”. Latifa Ben Torkia, il cui fratello, Ramzi, è scomparso nel 2011, e membro dell’Associazione delle madri dei migranti dispersi, raccoglie il testimone. Nel suo intervento, Latifa denuncia il comportamento dello stato tunisino, di quello italiano e in generale dell’Unione Europea, che definisce delle “mafie”, e condanna il trattamento che la Tunisia riserva ai propri figli. In seguito, Diori Traoré dell’Associazione per la difesa degli emigrati maliani, arrivata da Bamako per questo incontro, lancia un appello alle autorità del nord e sud del Mediterraneo: “Smettetela di uccidere la gioventù africana! Aprite le frontiere!”.

Vittime delle politiche migratorie europee

Secondo il Forum per i diritti economici e sociali (FTDES)2 almeno 507 persone sono morte o date per disperse dall’inizio del 2022 dopo aver tentato di raggiungere l’Europa dalle coste tunisine. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) ha registrato più di 17000 persone morte o scomparse nel Mediterraneo centrale dal 2014, dato che rende questa zona la rotta migratoria più pericolosa al mondo. Come spiegare questo dato drammatico? In un rapporto pubblicato a giugno 20203, la rete Migreurop, che riunisce ricercatori e attivisti dall’Europa e dall’Africa, sostiene che “la Tunisia sia diventata negli ultimi anni l’obiettivo privilegiato delle politiche di esternalizzazione delle frontiere dell’Unione Europea nel Mediterraneo”.

A partire dal dispiegamento di forze dell’agenzia Frontex, di “guardie costiere nazionali sempre meglio equipaggiate e addestrate” fino a “un sistema di espulsione al di fuori di qualsiasi quadro giuridico”, l’organizzazione considera che “tutti gli ingredienti saranno presto riuniti per fare della Tunisia la perfetta guardia di frontiera per l’Unione europea”. Il rapporto di Migreurop conclude dicendo che “questi corpi che si accumulano” sulle spiagge o nei cimiteri della Tunisia, “sono vittime delle politiche migratorie dell’UE”.

Dopo che gli interventi si sono conclusi, il corteo riprende il cammino e si avvicina alla spiaggia. La data è stata scelta in memoria del naufragio avvenuto il 6 settembre 2012 al largo di Lampedusa. Quel giorno, un’imbarcazione partita da Sfax, con più di 130 persone a bordo, si è capovolta in prossimità dell’isola Lampione. Solo 56 persone sono state soccorse. Mohamed Ben Smida, il cui figlio era a bordo, se ne ricorda “come fosse ieri”. Dopo il naufragio, “le autorità tunisine ci hanno detto: ‘I vostri figli sono dispersi’. Scuote la testa: “‘Dispersi’, ma cosa vuol dire? Non lo so. Per me, si è ‘vivi’ oppure ‘morti’. O ‘nero’ o ‘bianco’. Punto”. Mohamed ricorda le numerose manifestazioni davanti ai ministeri, le ripetute richieste presso le istituzioni di far luce sulla scomparsa di suo figlio. Ma non è accaduto nulla. “I governi si succedono dalla rivoluzione e ogni volta promettono che si occuperanno della questione dei dispersi, ma alla fine non fanno un bel niente”, osserva, amaro. Parla anche dei falsi informatori o degli pseudo-giornalisti che l’hanno avvicinato promettendogli informazioni su suo figlio. “Poi, la persona ritorna qualche giorno dopo per dirti che tuo figlio è morto, quando in realtà non ne sa nulla. E allora, piangi di nuovo”.

La solidarietà dei pescatori

Arrivati alla spiaggia, i manifestanti si fermano e dispiegano uno striscione con la lista delle 48647 persone morte alle frontiere europee registrate dall’organizzazione olandese United for Intercultural Action. La lista si stende su più di 20 metri lungo questa spiaggia di Zarzis, il cui litorale è il punto di partenza di numerosi tentativi di traversata verso l’Europa Samia Jabloun si raccoglie un istante di fronte al mare, poi legge una poesia in onore di suo figlio Fedi. Diversi membri dell’Associazione dei pescatori di Zarzis sono presenti. “In mare, capita molto spesso che incrociamo gommoni con a bordo africani, algerini, tunisini, minori, donne e bambini, partiti dalle coste libiche o tunisine”, racconta Lassad Ghorab, pescatore da 22 anni. “In quei casi, non facciamo domande, smettiamo di lavorare e portiamo soccorso, se necessario”, afferma deciso. Lassad se la prende con i trafficanti libici: “Fanno salire sul gommone fino a 150 persone, non lasciano altra scelta ai migranti, li minacciano con le armi: “Sali o sei morto!”.

Un altro pescatore, Chamseddine Bourassine, racconta di quando, in mare, i trafficanti libici avrebbero minacciato i pescatori di Zarzis: “Più volte, delle milizie ci hanno presi di mira e hanno sparato nella nostra direzione”. “Ci sono stati pure dei casi in cui dei pescatori sono stati presi in ostaggio!”, denuncia indignato colui che, nel 2018, è stato detenuto in Italia con l’accusa di essere un trafficante, per aver soccorso e rimorchiato un’imbarcazione in difficoltà. Criminalizzati dalle autorità italiane da un lato e sotto il tiro dei trafficanti libici dall’altro, i pescatori di Zarzis non hanno in ogni caso intenzione di rinunciare ad agire e a portare soccorso: “Siamo di fronte a degli essere umani, siamo obbligati a fare qualcosa”, afferma con fervore Lassad Ghorab.

Dopo questa sosta sulla spiaggia, il corteo riparte, in direzione del porto di Zarzis, ultima tappa di questa CommemorAction, allo stesso tempo marcia in omaggio ai morti e dispersi alle frontiere e momento di denuncia delle politiche migratorie. I pescatori hanno ottenuto l’accordo della guardia-costiera affinché i manifestanti possano imbarcarsi su due dei loro pescherecci per un’uscita in mare. Tuttavia, mentre questi si affrettano ad attaccare i loro striscioni sulle fiancate delle barche, i guardacoste cambiano idea. Adducendo ragioni di sicurezza, stabiliscono che le due barche non possano uscire dal porto nello stesso momento. Gli argomenti avanzati dai pescatori e dagli attivisti sono vani. Le rose che le famiglie speravano di poter lanciare in mare aperto saranno alla fine gettate nel porto di Zarzis, dove le barche sono rimaste ormeggiate.

Un rappresentante dell’HCR attacca le madri dei dispersi

In reazione alla pubblicazione di una foto del corteo, Vincent Cochetel, inviato speciale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (HCR) per la situazione nel Mediterraneo centrale e occidentale, posta il seguente tweet: le tweet suivant:

Piangiamo le loro perdite. Ma queste stesse madri non hanno nessun problema a incoraggiare o a finanziare i loro figli perché intraprendano questi viaggi pericolosi. Come già successo in Senegal, indagare simbolicamente i genitori per aver messo in pericolo i loro figli potrebbe indurre un vero cambiamento di atteggiamento verso questi viaggi mortali

Molto criticata sui social, questa dichiarazione del rappresentante dell’HCR, che pure ha tentato di scusarsi con un secondo tweet, è stata apostrofata come “vergognosa” anche dall’Associazione delle madri dei migranti dispersi. Sorelle e madri condannano sia “la politica dei paesi del sud, in particolare la Tunisia, per aver distrutto i nostri figli e per non aver offerto loro la vita che meritavano”, sia “la politica dell’Unione europea, che impone visti d’ingresso e blinda le frontiere, mentre i suoi cittadini vengono nei nostri paesi senza alcuna difficoltà e senza file di attesa per ottenere i visti”.

“Come può un rappresentante di un’istituzione internazionale esprimersi così?”, reagisce Majdi Karbai, deputato eletto nella circoscrizione dei tunisini residenti in Italia e che segue da vicino la questione delle politiche migratorie tra Italia e Tunisia. Il parlamentare osserva che ogni anno “centinaia di giovani italiani lasciano il loro paese per trovare migliori opportunità in Belgio, Germania o Lussemburgo; loro possono viaggiare tranquillamente”. Invece, aggiunge, “una parte della gioventù degli stati vicini all’Europa è condannata a restare nel proprio paese”. Majdi Karbai deplora il fatto che “le famiglie dei dispersi durante le loro ricerche si scontrino con un’assenza totale di risposte da parte delle autorità tunisine”. Secondo lui, se le autorità italiane sembrano disposte a impegnarsi in un processo di ricerca, “non vi è la minima volontà dello stato tunisino di implicarsi nella creazione di una commissione di inchiesta sui migranti dispersi”.

Al porto di Zarzis, Samia Jabloun, aiutata da qualche partecipante, ripiega uno striscione. Su questo figura un ritratto di suo figlio Fedi, accompagnato da un messaggio scritto in inglese: “A family never forgets their warriors” – “Una famiglia non dimentica mai i suoi combattenti”. Se le autorità dei paesi della riva sud del Mediterraneo hanno fatto la scelta del silenzio e dell’oblio, la memoria dei dispersi continua, nonostante tutto, a perdurare attraverso la lotta delle loro famiglie e degli attivisti.

1Le persone che dal Maghreb tentano di raggiungere l’Europa via mare, in modo irregolare, e che, molto spesso, bruciano i loro documenti d’identità prima di partire. In arabo maghrebino, حراقه (ḥarrāga) significa “coloro che bruciano”.

2FTDS (2022) Statistiche sulle migrazioni.

3Migreurop (2020), Politiche di non accoglienza in Tunisia